mercoledì 22 dicembre 2010

XMAS ON THE BLOCK

      CHRISTMAS 
           SONG
      maschere incenso e mirra 

Ventuno dicembre, solstizio d’inverno. Ventuno grammi: il peso dell’anima. "... se la psiche è l'anima, e l'anima è il mondo della nostra esperienza, come sostiene Aristotele, essa ci fa paura. Non ne vogliamo troppa o troppe varietà. La vogliamo ridotta a percezione e a immaginazione terrene, niente sogni a colori". (R. D. Laing).
Anima disanimata, parole senz’anima. Questo spesso è lo ‘spirito’ del Natale. Ma il Natale può essere altro, e ‘oltre’: Anche ultra (o ultrà). L’importante è che dietro lo specchio delle parole ci sia un’anima. Meglio, anima e sangue.
Sì, bloody Christmas (anche un po’ blue & green). Natale rosso vitale – anche Babbo Natale si è tinto di rosso: che sotto sotto non sia anche lui un ultrà? Carne e sangue: non solo sangue dei vinti (come in molti siamo tuttora – ‘sconfitti’ all’interno della lotta, o teatro, o cosmo, o caos, dell’esistenza), ma sangue dei vincitori.
Natale al sangue (non ‘esangue’). Sang real. Come quello di Aung San Suu Kyi. In attesa dell’instaurazione (o restaurazione), dopo tanta retorica, del modello di uomo e donna ‘persuasi’ – come direbbe Michelstaedter: la ‘persuasione’ dell’individuo (indiviso) autentico vs la ‘retorica’ dell’(in)dividuo (diviso) inautentico. Il Pensiero ‘diversificato vs il Bispensiero ‘unico’. E last but not least, un Natale eclar, cristico e solare, vs il Natale d’accatto e d’achat.
In sintesi (senza psicanalisi), una modalità di vita ‘vera’, pregna di senso e di valore, vs la falsità, la banalità, la massificazione, il vivere pseudomoderno basato sulla platitude di un sapere e di un vivere inautentico, impersonale, non creativo, come quello della tecnica, del consumismo e del mordi e fuggi su SUV con la protesi-cellulare incollata a orecchie sempre più insordite.
OK. Orecchio, occhio, good vibrations. Toti e Tata. Vi titillo, dopo tante quisquiglie, con due pinzellacchere: una mia, l’altra, più ‘corposa’, tratta per copia e incolla dall’ultimo post di Alessandra Colla, una cui il Natale non si attacca proprio…

Blue in green. Kind of blue. L’atmosfera si fece rosé. Fuori, buio assoluto (la luna dormiva, le stelle erano in libera uscita). A frotte sciamarono dalla discoteca, danzando, cantando, urlando (eppure sembrava s’udisse solo un sottile suono di silenzio). Si sparsero nelle strade, corsero sui muri, scivolarono sui tetti… A piedi, in bici, in moto (le macchine, appiedate). Cristo e l’arte della manutenzione dell’anima.
Tutti furono toccati. Soprattutto, i cuori. L’aria fu tutta impregnata, saturata, ossigenata. Cominciò a piovere. Diluvio universale (per il momento solo un inizio di piovasco estivo. Ma quante nuvole all’orizzonte!). Nessuna sirena nella notte, solo musica e danze. Preparate il vitello grasso (anche solo un’insalatona).
Il cielo s’illuminò. Solo un lampo. Eclar. I lampioni, più luminosi del solito. La luna si affacciò al verone (ma Firenze continuava a dormire). Le stelle si precipitarono sotto di lei (non tutte: Florence sogna e c’era chi sognava con lei. Anche chi flirtava all’ombra dei portici – del cielo).
Pioggia a catinelle. Diana inciampò in un barbone (e le stelle a guardare. Anche la luna, ritrosa). Poco mancò che cadesse (il marciapiede, per di più, era scivoloso). Non si allontanò. Si avvicinò ancor più. Nessuno la trattenne. Volle dargli un po’ d’amore. Ma si limitò a carezzarlo con affetto, carità. S’inginocchiò, lo guardò negli occhi. Pianse. Lui sorrise. I suoi denti erano più bianchi delle perle.

Socchiuse la porta della toilette sbirciando da una parte e dall’altra per assicurarsi di non essere vista da nessuno, e scivolò veloce lungo il corridoio per rientrare nel suo ufficio. Dalla più grande delle sale riunioni arrivava il brusìo festoso del rinfresco offerto dalla direzione, ma lei non vedeva l’ora di immergersi nuovamente nel silenzio della sua stanza, lontano da tutta quell’ipocrisia luccicante che le toccava subire ogni benedetto dicembre. Pazienza per il Capodanno: anche se non ricordava di essersi mai veramente divertita in quelle occasioni di allegria forzata che le mettevano addosso la voglia di scappare. Ma il Natale proprio no. Quello sì che era insopportabile, con le sue troppe luci, i troppi sorrisi, la troppa gentilezza — tutta roba destinata a finire in uno scatolone da portare in cantina e tirar fuori l’anno dopo, alla faccia dei buoni sentimenti.
Finalmente al sicuro dietro la scrivania, contemplò il calendario. Era soltanto il 21: mancavano ancora quattro giorni — lunghi, noiosi e minacciosamente traboccanti di telefonate, messaggi e biglietti d’auguri ai quali le sarebbe toccato rispondere. Qualcuno bussò alla porta, e lei si tuffò dietro il pc per dare l’idea di essere una persona molto impegnata. La porta si aprì lasciando spuntare un paio di teste sorridenti: «Ma come, è ancora qui?!? Le abbiamo portato qualcosina, se proprio non ce la fa a liberarsi e a venire di là con noi…» e una delle segretarie le mise sul tavolo un piatto di stuzzichini e un bicchiere di champagne. Poi scapparono via in un turbinìo di volants e paillettes — un cocktail in ufficio, che occasione di sfoggio…
Si tolse dalla faccia il sorriso di circostanza, e si riadagiò sulla poltrona (ergonomica e lussuosa, servirà pure a qualcosa essere in carriera, no?), sospirando. In realtà di lavoro da fare ne aveva sul serio, e parecchio. Ma in quei giorni prefestivi sembrava che la gente non ci stesse più con la testa, e anche le cose più semplici diventavano inspiegabilmente complicate. Avevano tutti quell’espressione indisponente, come bambini che già avessero combinato una marachella o che ne stessero architettando una, ma grossa grossa… E non c’era angolo in città che non fosse afflitto da qualcosa di scintillante o di rosso o di tintinnante, come se l’unico pensiero fosse — dovesse essere! — per forza quello del Natale col suo strascico di stucchevoli rituali.
Guardò l’ora, e andò ad aprire la porta: il brusìo si era smorzato, e gli uffici lentamente si svuotavano. Richiuse e andò alla finestra: giù in strada tutti sciamavano verso casa, impazienti di dare inizio al lungo ponte festivo. A lei, di andare a casa, non importava poi un granché — non l’aspettava nessuno, neanche un cane o un gatto. Nemmeno una pianta, per la verità: quelle che aveva gliele curava il portinaio, che si premurava di fargliele trovare sul pianerottolo il venerdì sera, con le foglie lustre e ben innaffiate, pronte a fare bella figura nel fine settimana. Non in tutti i fine settimana, naturalmente: perché spesso era fuori casa, in viaggio da sola o con qualcuno.
Se le avessero fatto notare che la sua indipendenza si avviava pericolosamente a far rima con solitudine, si sarebbe messa a ridere. Stava bene così, lei. Diceva. Forse lo pensava davvero: anche se le capitava raramente di pensare a se stessa. Si trattenne ancora un po’ a sistemare le ultime cose, poi chiamò un taxi e scese alla svelta. Ebbe la fortuna di trovare un tassista introverso — o semplicemente appassionato di radio, dal momento che la teneva a un volume troppo alto per fare conversazione. Durante il tragitto, più lungo del consueto a causa del traffico, ebbe modo di farsi una cultura sul solstizio in corso — vero, il 21 dicembre è il solstizio d’inverno, e la mente le si affollò anche di leggende ed equinozi e vaghe reminiscenze di geografia astronomica, tanto che si ritrovò sotto casa senza quasi accorgersene. Pagò il tassista, che ebbe la compiacenza di non augurarle un bel niente, e salì in casa.
La sera la trascorse uguale a mille altre sere, nell’appartamento curatissimo in cui soltanto il calendario denunciava l’avvicendarsi delle stagioni. La mezzanotte giunse veloce, e poi passò; non mancava molto alle due quando si decise ad andare a letto, dopo la routine di libri e film che le tenevano compagnia quando non c’era nessuno con lei, e mentre si preparava per dormire fu attratta da un insolito tremolìo nel cielo stellato che riempiva la finestra: l’aria era gelida e cristallina, e lassù all’undicesimo piano la notte sembrava in qualche modo diversa. Si avvolse in uno scialle e uscì sulla terrazza, guardando il cielo incuriosita come se fosse la prima volta: sul nero implacabile della notte d’inverno le stelle baluginavano incerte, e il fenomeno la sorprese. A un tratto, con la coda dell’occhio, colse un movimento strano, come quando si scorge per caso una stella cadente — siamo a dicembre, che sciocchezza! Ma il movimento strano si ripeté dopo qualche istante, e finalmente riuscì a capire: là dove prima aveva visto una stella, ora c’era soltanto il buio. L’idea le parve così assurda che non riuscì a staccarsi da dov’era, e rimase col naso in su, a contemplare incredula quello che sicuramente doveva avere solo immaginato. Ecco, di nuovo: era sparita un’altra stella. E poi, lentamente, una terza, e poi ancora un’altra e un’altra…
Attonita — no, spaventata — pescò nella tasca della tuta il cellulare (e chi avrebbe chiamato? la polizia? i carabinieri? i vigili del fuoco? a chi si telefona quando sparisce una stella? bisogna fare una denuncia?) e si avvide che ormai erano quasi le tre: e intanto piano piano, lentamente, le stelle sparivano lasciando la notte sempre più buia, e l’alba sembrava così lontana e chissà quando sarebbe sorto il sole a squarciare quelle tenebre… Ma se le stelle si stavano spegnendo, che sarebbe successo al sole? È una stella, no? Si sarebbe spento? Cioè, sarebbe sorto ancora? O era già sparito anche lui? Si accorse che stava battendo i denti, e non soltanto per il freddo; sentiva di avere gli occhi spalancati dal terrore, ormai, e non più dal semplice sforzo di vedere nel buio. Rientrò precipitosamente, mentre il cervello pulsava frenetico alla ricerca di un appiglio razionale che le permettesse di contenere il panico. L’unica cosa a cui riusciva a pensare era “luce”; e d’un tratto le vennero in mente le cose che aveva sentito per radio, e insieme a quelle anche gli echi di vecchi racconti e i ricordi delle serate in famiglia, quando era bambina e le carte da scegliere nel mazzo erano così tante da non poterle contare…
Il cielo s’incupiva sempre più, lentamente ma senza posa, mentre lei rovesciava i cassetti e vuotava le scatole nel ripostiglio, alla ricerca dell’unico rimedio che avrebbe rimesso le cose a posto — forse… Forse?!? Finalmente, dal fondo di un sacchetto di nastri, carte da regalo e cianfrusaglie, emerse una candelina rossa, infiocchettata di verde, con un campanellino d’oro un po’ ammaccato. Reggendola trionfante fra le mani corse in cucina e l’accese sul fornello; poi corse sul terrazzo e la levò alta verso il cielo sempre più nero. Rabbrividiva — e non soltanto per il freddo — mentre ripeteva il gesto antico per scongiurare un terrore altrettanto antico: la fiammella tremolava nella notte, e aveva le mani ghiacciate.
A un tratto, con la coda dell’occhio, percepì qualcosa nelle tenebre che la sovrastavano: volse la testa di scatto ed ecco, là dove c’era il buio, brillava debolmente una stella. Poi, dopo un tempo interminabile, apparve un altro bagliore, e poi pian piano un terzo e un altro ancora, e il cielo non fu più un drappo denso ma un velo scintillante. Ora non sentiva più il freddo, e le labbra gelate le si stirarono in un sorriso spontaneo mentre restava lì, in piedi sul terrazzo, ad aspettare l’aurora. Sarebbe arrivata, lo sapeva; e dopo di lei l’alba e finalmente il sole — un sole tutto nuovo, trionfante nella luce che avrebbe spazzato via quelle ore cupe, rese ancora più buie dalla paura di una notte senza fine. All’orizzonte, il cielo si tinse lentamente di un lilla tenue che sfumava nel lavanda e poi in un rassicurante rosa pesca. L’alba era prossima, e con essa il nuovo sole.
Sbadigliò: era ora di andare a riposare, perché il giorno dopo sarebbe stato pieno di impegni — scrivere auguri e comprare regali e addobbare la casa. Natale è già qui.
P. S. Buon Natale e Buon Anno Nuovo.


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