mercoledì 26 dicembre 2012

SILENT NIGHT



               
        SILENT   NIGHT

        All You Need Is LOVE
       (and GROOVE) 




“Ho solo bisogno di silenzio, tanto ho parlato troppo è arrivato il tempo di tacere, di raccogliere i pensieri allegri, tristi, dolci, amari, ce ne sono tanti dentro ognuno di noi. Gli amici veri, pochi, uno? sanno ascoltare anche il silenzio, sanno aspettare, capire. Chi di parole da me ne ha avute tante e non ne vuole più, ha bisogno, come me, di silenzio.”
Alda Merini

Notte di Natale, notte di silenzio. De profundis clamo ad te, Domine.

Silent night vs boogie nights. Come sottofondo, strano a dirsi, Do you wanna ride di Adina Howard, o, ancora più famolo strano, su un altro ‘cavallo’, Ride di Lana del Rey (per bilanciare verso l’Alto: Verso di Te, riding/reading di Albino Montisci).                            In ogni caso, la playlist di Marion Meadows.  

Nel giorno del Re (Sole – il “sole dell’avvenire”: Cristo come isola a cui approdare – nessun uomo è un’isola), facciamo bungee jumping tra la Realtà incandescente (ed evanescente) e lo Spirito effervescente e rutilante. 

Bingo! (stop col bunga-bunga e vai col bongo...). Sul banco – anche sottobanco – ecco apparire, anche quest'anno, la magia del Natale (quello che nasce dentro dall’Alto: il Natale altro che rompe il “Velo di Maya”).  

Maja desnuda (il mondo dello Spirito, cui ci fa accedere il “natale quotidiano”) vs Maja vestida (la realtà che vestiamo ogni giorno con i nostri abiti mentali, comprati al grande supermarket del mondo-maya delle apparenze).

Che dire? Occorre ‘morire’ (simbolicamente e nei comportamenti consolidati, se improduttivi in questi giorni, reali sia pure ‘velati’) per poi ‘rinascere’…

“Il senso supremo dell’amore sessuale non è la nascita dei mortali, ma la resurrezione dei morti.” I versi di Dimitri Merezkovsky ben simboleggiavano l’atmosfera sacrale. Intinta di erotismo decadente, poi sempre più solare, ormai prossima al ‘risveglio’. Tutto istinto (e passione). La tensione non calò ma saltò di ottava in ottava. Passione montante. Ipertensione mistico-pratica. Red Passion. I corpi da ‘freddi’ – glaciali, da morgue – divennero ‘caldi’, da passione erotica e spirituale (territori confinanti). Sì, passion… Passion fruit. Come il piacere sessuale, dolce morso, che non è cibo da consumare, ma da centellinare. Stilla dopo stilla (e si vedono le stelle…). Che non deve consumare i corpi ma rigenerarli. Che deve toccare…
Dolcenera. Non solo sensazione eccitante, ma ‘conoscenza’: un “pro-tendesi verso l’altro”, un coinvolgimento reciproco gratificante e totalizzante. Step by step, poi rolling stones. Le anime cominciavano a farsi divine nell’unione con Dio: un ‘congiungimento’ con Dio così reale, così coinvolgente, così totalizzante, così ‘erotico’. Sic sic sic (aveva sostituito il six six six).
L’atmosfera carezzata dal groove velvet satin di Samantha James (tornata a bomba – più che altro, stella filante) e dalla soul dance di Alex & Victor (in libera uscita) fece il resto. E sul maxi-schermo (da YouTube) la voce sting-soft di Michael Stevens a far da guanciale (con un Kyle Eastwood tutto jazz a darci dentro a colpi di basso): Every little thing she does is magic (una cover. E poi, she, lei chi? Ma Ruah… lo Spirito. Prima, Arianna, adesso Ruah. Lo Spirito avrebbe sgualcito lenzuoli. E… coperto corpi).
Cheek to cheek (colt to colt, se fosse stato il giovane Clint, il su’ babbo – di Kyle). La vita aveva ricominciato a fluire. Coast to coast. Destra e Sinistra. Mystic river. I ghiacciai si erano sciolti. Nessun iceberg. Molti delfini, pinguini, foche. Qualche tricheco, pingue. Grateful life (anche per i dead).
Venite bambini, venite bambine e ditele che il mondo può essere diverso, tutto può cambiare, la vita può cambiare e può diventare come la vorrai inventare. Ditele che il sole nascerà anche d’inverno…
Lorenzo subentrò in pista a dar manforte alla ‘strategia del tocco’. Anche lui con-fuso con Julim (stessa scena nel bagno degli uomini: al posto di Diana, Ramon, modello colombiano ex narco ma ancora cocato, un po’ cocotte un po’ Cocteau; anche lui “in bagno a sniffare una bella riga di Tiramisù Boliviano.” E a far da pendant, invece di Gaia, Julim). Il ‘recipiente’: Lorenzo (Arianna era già stata ‘riempita’). Niente sesso, anche qui: solo ‘fusione’ angelica, per ‘rinforzare’ Lorenzo (Julim era ‘entrato’ doce doce in lui), come era stato per Arianna. Il tutto per dar luogo al progresso del ‘tocco’. Un ‘tocco progressivo’. Fusion Jazz.
Kindness in your eyes / I guess you heard me cry / you smiled at me/ Like Jesus to a child… George Michael dava gli ultimi tocchi al soffitto del dance-floor, sovrapponendosi all’incongruo – per il luogo (uno scherzo? O era forse solo nella sua mente?) – Francesco Tricarico di venite bambini… (Francesco chi? Carneade… salvo che per i più chic). Anche lui, Lorenzo, nella discoteca per ballare, folleggiare e… fare il trenino. Ma dietro al Logos. Incongruo? Come la vita (quante gallerie…).
L’uomo come logos che afferma se stesso, il Logos come volontà e sistema di valori. Logos, pneuma, gaia scienza… Un’altra costellazione in via di formazione (ex nihilo? No, dalla ‘terra’ preesistente): I Fratelli del Libero Spirito.
“Io mi riposo ‘tuttissima’ – trestoute”: non solo ogni uomo, ma ogni donna nella discoteca-del-destino era in pace, sola nel nulla, ma ‘tutta’ nella bellezza della bontà di Dio. Fusi ma non confusi.
“…senza muovermi minimamente per volere le pur grandi ricchezze che Dio ha in sé, l’anima riposa e gode. Dio opera in lei, per lei, senza di lei, tanto meglio quanto più lei è assente.” Visio facialis di Dio sul dance-floor. E di lì sui marciapiedi. Per le strade, sui muri, sui tetti… Visione beatifica già in questa vita. Visione corporea, carnale. Vis-à-vis. Poi, quando sarà il momento, giungerà l’attimo fuggente: la grateful death. Ma ora viviamo, godiamo, leviamo i calici…
Un lampo (esclar) seguì il fulmine del lumen gloriae, spegnendo con la sua luce smagliante fari e faretti del tempio-dance. Si sentì un suono di campane (un po’ hip-hop). Poi una fragranza al vetiver (questo il profumo dominante, ma l’intreccio aromatico andava ben oltre) invase e permeò l’atmosfera ambient. Ma ognuno la sentì nel suo intimo in modo differente (un unicum): la presenza reale, e sempre diversa, di Cristo che si contempla nell’anima e la riempie tutta, colorandola, insaporendola, profumandola. Dal ‘fumo’ al ‘profumo’: scandalo…
Pietra dello scandalo: il ‘nobile’ ingresso dello Spirito già in questa vita e l’affacciarsi di questa sulla plenitude (quasi), dopo l’uscita dalla platitude (in toto). Dopo il ‘tocco’, “l’anima può essere toccata dal dispiacere, ma questo non penetra nel suo fondo, non la tocca nel suo centro. Il centro di gravità permanente era stato raggiunto. Colpito. Scolpito nelle anime, nei corpi, negli spiriti.
Blue in green. Kind of blue. L’atmosfera si fece rosé. Fuori, buio assoluto (la luna dormiva, le stelle erano in libera uscita). A frotte sciamarono dalla discoteca, danzando, cantando, urlando (eppure sembrava s’udisse solo un sottile suono di silenzio). Si sparsero nelle strade, corsero sui muri, scivolarono sui tetti… A piedi, in bici, in moto (le macchine, appiedate). Cristo e l’arte della manutenzione dell’anima.
Tutti furono toccati. Soprattutto, i cuori. L’aria fu tutta impregnata, saturata, ossigenata. Cominciò a piovere. Diluvio universale (per il momento solo un inizio di piovasco estivo. Ma quante nuvole all’orizzonte!). Nessuna sirena nella notte, solo musica e danze. Preparate il vitello grasso (anche solo un’insalatona).
Il cielo s’illuminò. Solo un lampo. Eclar. I lampioni, più luminosi del solito. La luna si affacciò al verone (ma Firenze continuava a dormire). Le stelle si precipitarono sotto di lei (non tutte: Florence sogna e c’era chi sognava con lei. Anche chi flirtava all’ombra dei portici – del cielo).
Pioggia a catinelle. Diana inciampò in un barbone (e le stelle a guardare. Anche la luna, ritrosa). Poco mancò che cadesse (il marciapiede, per di più, era scivoloso). Non si allontanò. Si avvicinò ancor più. Nessuno la trattenne. Volle dargli un po’ d’amore. Ma si limitò a carezzarlo con affetto, carità. S’inginocchiò, lo guardò negli occhi. Pianse. Lui sorrise. I suoi denti erano più bianchi delle perle.
(Dalla chiusa di Gocce di pioggia a Jericoacoara – Premio “Emily Dickinson” 2012-13 per la letteratura)

domenica 25 novembre 2012

LIGHT MY FIRE






LIGHT MY FIRE

Il falò delle vanità

Un faro al termine della notte. Dal falò al forró (vedi anche in Gocce di pioggia a Jericoacoara).
Nell’ultimo post parlavo di malinconia (diciamo pure depressione/disperazione, sottile/grossa) generalizzata e dilagante, ma pure di atteggiamento vincente e distaccato (win-win e wu-wei). E della necessità di liberare (rilasciare, nel vero senso del termine) lo splendore prigioniero, ossia quell’amore e altre cose che sono il frutto dell’essenza, o, per dirla in modo più astratto e insieme concreto, dello spirito (come sono solito dire, l’ossimoro è una risorsa – e infatti nel post precedente ho parlato di un Dio umano).
Ma per fare questo – passare dal buio delle segrete allo splendore del mezzogiorno di fuoco – è necessario, prima della fuga, fare chiarezza: devi trovare, all’interno della tua ‘cella’, un cantuccio in cui appartarti per riflettere (non ti sembri strano, più sei prigioniero più sei immerso nella ‘folla’: naturalmente parlo del vortice di pensieri angoscianti ed emozioni flagellanti).
Poi, dopo essersi ricaricato, meglio ancora rigenerato, riuscirai a dare la stura a tutte le tue infinite (quasi) possibilità. Sei o non sei figlio di Dio? (ovviamente, se non credi, agisci come se fosse così: i risultati non tarderanno a venire).

Non ti do ora la sequenza di come fare a diventare “figli di Dio” (anche in senso metaforico o simbolico, o come tu vuoi), ossia a passare dalla condizione di “creature di Dio” (low state) a quello di “figli di Dio” (top state): non ti e-ducherò – nel senso di aiutarti a estrarre dalla tua essenza, che ha già in sé tutto il campionario di possibilità umane e, anche, oltre – ripeto, non ti educherò a ‘separare’ lo spirito (l’agente efficace) dall’anima (il carcerato, sia pure cornuto contento: il corpo è cocu magnifique tout court). Lo farò a partire dal prossimo post.
Qui mi limito, tanto per farti dis-trarre un po’ (prima dell’attrazione – verso un nuovo orizzonte – bisogna “distrarsi”, ossia trarsi via dal mercatino, o mercatone, quotidiano), a suggerirti alcuni spunti tratti dal mio inedito Nietzsche: sneakers o tacchi a spillo (se hai letto il mio romanzo edito avrai notato che mi piacciono i giochi di parole – ma anche i fatti: logos e rhema). Qualcosa l'ho già trasmesso in qualche precedente post, ma repetita iuvant.
Bene, partiamo. Gratis et amore Dei.

MORULE
Ci incontriamo agli angoli delle strade. A coppie, a grappoli, a stringhe sempre meno sottili. Cresciamo all’ombra dei portici, come batteri, morule, embrioni di future miriadi, angeli sparsi in cerca di paradisi possibili.
Siamo le membrane plasmatiche del centro e delle periferie urbane, giunzioni occludenti il vuoto delle menti e delle anime, teurgi plastici in cerca di corpi da rigenerare. Col forcipe dello spirito recidiamo le sbarre dell’anima e liberiamo dai ceppi impazienti i dèmoni dormienti. I nostri e gli altrui.
Senza addomesticarli li mandiamo allo sbaraglio tra i ‘petits bourgeois’ della ‘comédie humaine’ (dèmoni versus demòni: slitta l’accentazione cambia l’eone). Randomizzati vagano impacciati ma indomiti nelle piazze, nelle case, nelle menti, nelle paludi del caravanserraglio globale – dove sbuffa behemot, gingillo degli dèi e trastullo dei titani, e striscia il leviatano, un po’ biscione un po’ caimano.
Bariamo sui numeri (ma nel frattempo cresciamo a dismisura), saltiamo sui corpi, puntiamo sulle anime (e lo spirito? Sotto sale). Ci arrampichiamo sui muri, scivoliamo nei sottotetti, glissiamo sui salotti buoni. Ma verrà anche il loro turno – tour e retour.
E allora, che aspettate? Il turn-over? Tornite e guarnite le tartine al caviale, la pallina sta per fermarsi! Là bas.
Rien va plus. Il gioco si fa duro. E scivoloso. Ma dolce è l’attesa (meno le doglie). Arde il rovo, la voce chiama… “Siate caldi oppure freddi: ma i tiepidi li vomiterò nella Geenna.” Caos calmo, ciechi spasmi, miasmi cosmici: l’universo attende con ansia l’epifania teandrica – non sa cosa vuole, ma vuole qualcosa!
Alta marea: la terracquea arena è lì che aspetta, vociante, torbida, ondeggiante. Bassa marea: nella platitude vacua vaticina torpida la platea (e non è il Vaticano). Ogni tribuna e tribuno è in tiepida attesa di un messia o di una miss (tutto fa brodo – questa la voce del mondo). “Ah, se Erostrato il grande li ghermisse e facesse assaggiare a tutti i tiepidi il caldo estremo che raggela!” (la cultrea voce dal profondo).
E noi? Infine nudi nello spirito, ancora paludati nell’azione, palestrati nell’animo  continuiamo a nasconderci nelle segrete latebre delle lubriche piazze affollate. Per poi sbucare alla Kubrik nelle strade bucate e imbucarci, zampillanti e ludici come eroine zompanti, tra gli zombi nei corridoi sussurranti – riservando ai gorgoglianti portici le nostre residue ore aliene (è lì, nelle gallerie urbane, il nostro brodo di coltura).
Tuareg nel deserto che cresce, effimeri panici al galoppo, ossimorici lunatici grondanti gelide passioni; cammelli sgobbanti, leoni reboanti, fanciulli vocianti investiti da folate di sottile silenzio: questi noi siamo. L’ultimo uomo è appena nato e una donna sta per ucciderlo.

KILLING ME SOFTLY
Uccidimi dolcemente, ma uccidimi… Entra nel rovescio del mio mondo e affonda il tuo cultro lì dove gli altri hanno fallito. Trascrivo  febbrilmente  i  loghia  onirici,  battendo  sul  tempo  i famelici gargoyle del subconscio, spasmeggianti nevrilmente dalla brama d’ingoiarli nei lenti gorghi amnesici.  L’oceano  notturno  si  è  ormai  contratto  in un’anoressica  pozzanghera: solo i vortici di alcuni citri d’acqua dolce – i sogni che hanno bucato le porte di corno (quelli che verità li incorona se un mortale li vede) – sono sopravvissuti.
V’intingo la mia plume mentale, strappata all’uccello nottaiolo attardatosi a oziare sullo spoglio ramo dell’ultimo ramingo albero della fuggente selva dell’oblio e… fandango.
Because the night belongs to lovers, because the night belongs to lust, because the night belongs to us… È l’alba, la notte è scappata coi suoi amanti, i dardi aurorali scippati alla febica faretra hanno colpito a morte le mie effervescenti passioni ctonie (ma rivivranno allo scoccare della mezzanotte) e i gendarmi del mattino hanno ammanettato le mie voglie corsare (adieu fuitina stellare con Jessica Alba… ogni notte un trip diverso). It’s too late to apologize. Non ho più scuse. Dalla radiosveglia la voce velvet del sempre cool Timbaland mi riporta sulla battigia. It’s too late… Lascio Garden of nights (il Village da dreamer radical-chic – niente di particolarmente osé: solo Muse e qualche strip) e mi butto giù dal letto.
Della notte mi è rimasto solo il sorriso: lentamente passo per l’ultima volta il dito sulle sue labbra di sogno, prima che si assottiglino e sublimino, impalpabili come labili fili evanescenti, al balenare delle prime pallide luminescenze diurne. L’eco narcisa degli ultimi sparsi frammenti onirici cerca invano di raggiungermi, ma ammutolisce spaurita davanti all’alba sorgiva, sfiatando pudica nel lete delle memorie fuggitive. No pain no drama: ho già trascritto le stille essenziali, lascio senza magone le vaghe stelle dell’orsa.
Il telefono squilla (l’ultima, definitiva, rupture al notturno soffitto di cristallo – di lì, rapito, posso mirare l’epifania degli dèi). Squallida cocotte, vattene per la tua strada… io sono fedele al mio computer (e pensare che fino a qualche annetto fa manco me lo filavo…). Lascio a letto i miei clandestini philosophes prêt-à-porter (nouveaux o anciens, tutti mi fanno il filo, ma io mi fermo ai preliminari), snobbo la cornetta – di giorno sono fedele – e vado a tirare. Slash-flash: qualche strisciata di piccì, per tenermi su. Inizia la mia giornata.

E poi, sempre dal libro, dopo le precedenti esternazioni, di mia fattura (e 'frattura'), un po’ di citazioni ‘illuminanti’ (o ‘oscuranti’). Naturalmente, da ‘elaborare’. Tutto propedeutico alla tua ‘trasformazione’ (per usare la loquela heideggeriana, tras-formazione, ossia “passaggio di stato”: dal grossolano al sublime, ma sempre poggiato a terra).

“Via le scarpe basse, via le orride ballerine, via gli stivali rasoterra. Da oggi solo altezze aeree. Da oggi si sale su, ci si slancia e si ondeggia e si affonda di più sul cemento. Ché anche la musica la segui meglio e i capelli scivolano ondosi e la gonna trova quel perfetto punto della gamba in cui fermarsi e i tendini sparano in su e senti che potresti, davvero, arrivare dovunque, e tutti lo noterebbero, che arrivi. Le ginocchia così meravigliosamente elastiche. E la caviglia, sì, bellissima riflessa nello specchio del negozio sotto casa, fra il nero e la luce del sole e dell’ombra.”   
“Voglio saper tenere un bicchiere in mano in un certo modo. Avere linee del corpo allungate e nervose. Essere capace di deformarmi in un sorriso sghembo. Indossare solo sottovesti nere. Oppure fumare, inarcandomi lievemente di lato. Frequentare locali dove tipi in cravatte strane si appendono a sigari o tastiere di pianoforte. Voglio occhi bistrati di nero, unghie lunghissime e spalline che scivolano giù. Vite di meravigliosa autodistruzione o superficiale sciocca solitudine. Notti garrule e mattini disperanti, in qualche motel sperduto d’America. Oppure ovunque.”
(dal blog Le stanze di Gaia)

“Bisogna fiutare il diavolo da lontano... in tutti gli angoli... attraverso il mondo... tra i sottili paragrafi di qualsiasi fatto quotidiano apparentemente innocente... il segno del pollice, furtivo... appoggiato... segnaletico... la parola favorevole... lusingatrice... la messa in valore, francamente pubblicitaria... il denigramento sedicente imparziale... Nulla è indifferente.”
(citazione da Céline)

“I fatti sono semplici, i fatti sono fatti / I fatti sono pigri, i fatti sono matti / I fatti dipendono dal punto di vista / Se non fai attenzione ti portano fuori pista.”  
“Ti versi una bella riga sul dorso della mano. Ti porti la mano al naso e la boccetta ti sfugge e va a cadere con nauseabonda precisione nella tazza. Rimbalza una volta contro la porcellana, poi affonda con un tonfo insolente che sembra il rumore prodotto da una grossissima trota per sputare una minuscola esca finta accuratamente preparata.”  
(da Le mille luci di New York, di Jay McInerney)

“Dovunque vado c’è la carcassa bruciata e ammucchiata di una macchina ad attendermi. So dove sono tutti gli scheletri. Vedetelo come la mia garanzia d’impiego.”
(da Fight Club, di Chuck Palahniuk)

Il punto è: devi davvero fare le cose perché vuoi farle, perché quello è il tuo sogno. Perché è l’amore della tua vita. Devi appassionarti. Perlomeno, è così che ho fatto io. Non mi è mai interessato vivere l’avventura di un altro. Volevo la mia personale avventura, il mio viaggio. Non volevo montare in sella al sogno di qualcun altro.”
(citazione da Billy Idol, che quand’era sobrio ci menava)

Quanti libri si fanno senza scopo / Lo studio è troppo / La carne si rattrista / La parola ora tace.”
“Nel rapporto fondamentale con sé stessi gli esseri umani sono prevalentemente dei narratori… amano il succedersi ordinato dei fatti perché assomiglia ad una necessità, e l’impressione che la loro vita abbia un ‘corso’ li fa sentire come protetti in mezzo al caos.”
“Scrivere significa distrarsi dei propri rimorsi e dei propri rancori, vomitare i propri segreti. Lo scrittore è uno squilibrato che si serve di quelle finzioni che sono le parole per guarirsi.”
(rispettivamente, Ceronetti, Krysinkim e Cioran).

E per chiudere (tutto mio).
Sentiva nella ghianda dell’anima che c’era something new in the air. Qualcosa di nuovo stava per accadere: su di sé, intorno a sé, dentro di sé, sentiva good vibrations. Sentì vibrare il nucleo, il cuore, l’antro sotterraneo che si celava dentro: un desiderio violento lo pervase, come magma pronto a eruttare che la crosta esterna comprimeva, tratteneva, faceva muraglia tutt’intorno. Bramose voglie in cerca di un significato, aneliti vulcanici, ma spesso degradati a basic instincts senza profondità vitale. 
Nondimeno, dal mondo del sogno – il Tjukurrpa aborigeno in cui spesso si rifugiava, e da sempre (già nel ventre materno – così gli sussurrava l’Io subliminale) – più di una volta era riuscito a tirar fuori il ‘nucleo immaginale immanente’ (frase a effetto esplosa da Lorenzo in una delle conferenze amatoriali del suo periodo rosa), cioè la qualità ‘numinosa’ che lo sottendeva. In pratica, aveva dato corpo (nel vero senso del termine) ai voli della sua immaginazione.
Quel bisogno di creatività, di fuga dal mondo, di fantasie da realizzare, che può creare sia il gigante sia il mostro. Ma Lorenzo non era riuscito a essere né l’uno né l’altro; se non a sprazzi o, nel migliore dei casi, in maniera discontinua, frammentata. Arenato, frenato, appesantito dall’io sociale che non lasciava correre il suo io reale. Eppure la voce tiranna Krishnamurti dixit – gridava...
E come strillava! Munch… Sussurri e grida. Un urlo sul ponte. 
Ginsberg… che urlo! Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa…” Anche Lorenzo arrancava, ma senza strillare. Non più nero di rabbia. Solo frenato. Senza remi, con molte remore. Ramingo.
Freni interni ed esterni. Per rompere i quali, e catapultarsi nella vita, aveva cercato – pensando che fosse lì il problema – d’integrare il puer con il senex (quest’ultimo, in lui, pressoché assente), affinché si riconciliassero e passeggiassero insieme. Ma il fanciullo aveva avuto sempre la meglio.
Aveva, infine (passo decisivo), compreso che il suo malessere esistenziale derivava da un bisogno inespresso di esplorare le contrade del mondo dello spirito, le città invisibili: un mal-essere che solo un rivolgimento completo del suo essere, una metànoia, avrebbe potuto dissolvere.

Bene, sei a passo dalla metànoia: tutto il resto è noia…