domenica 25 novembre 2012

LIGHT MY FIRE






LIGHT MY FIRE

Il falò delle vanità

Un faro al termine della notte. Dal falò al forró (vedi anche in Gocce di pioggia a Jericoacoara).
Nell’ultimo post parlavo di malinconia (diciamo pure depressione/disperazione, sottile/grossa) generalizzata e dilagante, ma pure di atteggiamento vincente e distaccato (win-win e wu-wei). E della necessità di liberare (rilasciare, nel vero senso del termine) lo splendore prigioniero, ossia quell’amore e altre cose che sono il frutto dell’essenza, o, per dirla in modo più astratto e insieme concreto, dello spirito (come sono solito dire, l’ossimoro è una risorsa – e infatti nel post precedente ho parlato di un Dio umano).
Ma per fare questo – passare dal buio delle segrete allo splendore del mezzogiorno di fuoco – è necessario, prima della fuga, fare chiarezza: devi trovare, all’interno della tua ‘cella’, un cantuccio in cui appartarti per riflettere (non ti sembri strano, più sei prigioniero più sei immerso nella ‘folla’: naturalmente parlo del vortice di pensieri angoscianti ed emozioni flagellanti).
Poi, dopo essersi ricaricato, meglio ancora rigenerato, riuscirai a dare la stura a tutte le tue infinite (quasi) possibilità. Sei o non sei figlio di Dio? (ovviamente, se non credi, agisci come se fosse così: i risultati non tarderanno a venire).

Non ti do ora la sequenza di come fare a diventare “figli di Dio” (anche in senso metaforico o simbolico, o come tu vuoi), ossia a passare dalla condizione di “creature di Dio” (low state) a quello di “figli di Dio” (top state): non ti e-ducherò – nel senso di aiutarti a estrarre dalla tua essenza, che ha già in sé tutto il campionario di possibilità umane e, anche, oltre – ripeto, non ti educherò a ‘separare’ lo spirito (l’agente efficace) dall’anima (il carcerato, sia pure cornuto contento: il corpo è cocu magnifique tout court). Lo farò a partire dal prossimo post.
Qui mi limito, tanto per farti dis-trarre un po’ (prima dell’attrazione – verso un nuovo orizzonte – bisogna “distrarsi”, ossia trarsi via dal mercatino, o mercatone, quotidiano), a suggerirti alcuni spunti tratti dal mio inedito Nietzsche: sneakers o tacchi a spillo (se hai letto il mio romanzo edito avrai notato che mi piacciono i giochi di parole – ma anche i fatti: logos e rhema). Qualcosa l'ho già trasmesso in qualche precedente post, ma repetita iuvant.
Bene, partiamo. Gratis et amore Dei.

MORULE
Ci incontriamo agli angoli delle strade. A coppie, a grappoli, a stringhe sempre meno sottili. Cresciamo all’ombra dei portici, come batteri, morule, embrioni di future miriadi, angeli sparsi in cerca di paradisi possibili.
Siamo le membrane plasmatiche del centro e delle periferie urbane, giunzioni occludenti il vuoto delle menti e delle anime, teurgi plastici in cerca di corpi da rigenerare. Col forcipe dello spirito recidiamo le sbarre dell’anima e liberiamo dai ceppi impazienti i dèmoni dormienti. I nostri e gli altrui.
Senza addomesticarli li mandiamo allo sbaraglio tra i ‘petits bourgeois’ della ‘comédie humaine’ (dèmoni versus demòni: slitta l’accentazione cambia l’eone). Randomizzati vagano impacciati ma indomiti nelle piazze, nelle case, nelle menti, nelle paludi del caravanserraglio globale – dove sbuffa behemot, gingillo degli dèi e trastullo dei titani, e striscia il leviatano, un po’ biscione un po’ caimano.
Bariamo sui numeri (ma nel frattempo cresciamo a dismisura), saltiamo sui corpi, puntiamo sulle anime (e lo spirito? Sotto sale). Ci arrampichiamo sui muri, scivoliamo nei sottotetti, glissiamo sui salotti buoni. Ma verrà anche il loro turno – tour e retour.
E allora, che aspettate? Il turn-over? Tornite e guarnite le tartine al caviale, la pallina sta per fermarsi! Là bas.
Rien va plus. Il gioco si fa duro. E scivoloso. Ma dolce è l’attesa (meno le doglie). Arde il rovo, la voce chiama… “Siate caldi oppure freddi: ma i tiepidi li vomiterò nella Geenna.” Caos calmo, ciechi spasmi, miasmi cosmici: l’universo attende con ansia l’epifania teandrica – non sa cosa vuole, ma vuole qualcosa!
Alta marea: la terracquea arena è lì che aspetta, vociante, torbida, ondeggiante. Bassa marea: nella platitude vacua vaticina torpida la platea (e non è il Vaticano). Ogni tribuna e tribuno è in tiepida attesa di un messia o di una miss (tutto fa brodo – questa la voce del mondo). “Ah, se Erostrato il grande li ghermisse e facesse assaggiare a tutti i tiepidi il caldo estremo che raggela!” (la cultrea voce dal profondo).
E noi? Infine nudi nello spirito, ancora paludati nell’azione, palestrati nell’animo  continuiamo a nasconderci nelle segrete latebre delle lubriche piazze affollate. Per poi sbucare alla Kubrik nelle strade bucate e imbucarci, zampillanti e ludici come eroine zompanti, tra gli zombi nei corridoi sussurranti – riservando ai gorgoglianti portici le nostre residue ore aliene (è lì, nelle gallerie urbane, il nostro brodo di coltura).
Tuareg nel deserto che cresce, effimeri panici al galoppo, ossimorici lunatici grondanti gelide passioni; cammelli sgobbanti, leoni reboanti, fanciulli vocianti investiti da folate di sottile silenzio: questi noi siamo. L’ultimo uomo è appena nato e una donna sta per ucciderlo.

KILLING ME SOFTLY
Uccidimi dolcemente, ma uccidimi… Entra nel rovescio del mio mondo e affonda il tuo cultro lì dove gli altri hanno fallito. Trascrivo  febbrilmente  i  loghia  onirici,  battendo  sul  tempo  i famelici gargoyle del subconscio, spasmeggianti nevrilmente dalla brama d’ingoiarli nei lenti gorghi amnesici.  L’oceano  notturno  si  è  ormai  contratto  in un’anoressica  pozzanghera: solo i vortici di alcuni citri d’acqua dolce – i sogni che hanno bucato le porte di corno (quelli che verità li incorona se un mortale li vede) – sono sopravvissuti.
V’intingo la mia plume mentale, strappata all’uccello nottaiolo attardatosi a oziare sullo spoglio ramo dell’ultimo ramingo albero della fuggente selva dell’oblio e… fandango.
Because the night belongs to lovers, because the night belongs to lust, because the night belongs to us… È l’alba, la notte è scappata coi suoi amanti, i dardi aurorali scippati alla febica faretra hanno colpito a morte le mie effervescenti passioni ctonie (ma rivivranno allo scoccare della mezzanotte) e i gendarmi del mattino hanno ammanettato le mie voglie corsare (adieu fuitina stellare con Jessica Alba… ogni notte un trip diverso). It’s too late to apologize. Non ho più scuse. Dalla radiosveglia la voce velvet del sempre cool Timbaland mi riporta sulla battigia. It’s too late… Lascio Garden of nights (il Village da dreamer radical-chic – niente di particolarmente osé: solo Muse e qualche strip) e mi butto giù dal letto.
Della notte mi è rimasto solo il sorriso: lentamente passo per l’ultima volta il dito sulle sue labbra di sogno, prima che si assottiglino e sublimino, impalpabili come labili fili evanescenti, al balenare delle prime pallide luminescenze diurne. L’eco narcisa degli ultimi sparsi frammenti onirici cerca invano di raggiungermi, ma ammutolisce spaurita davanti all’alba sorgiva, sfiatando pudica nel lete delle memorie fuggitive. No pain no drama: ho già trascritto le stille essenziali, lascio senza magone le vaghe stelle dell’orsa.
Il telefono squilla (l’ultima, definitiva, rupture al notturno soffitto di cristallo – di lì, rapito, posso mirare l’epifania degli dèi). Squallida cocotte, vattene per la tua strada… io sono fedele al mio computer (e pensare che fino a qualche annetto fa manco me lo filavo…). Lascio a letto i miei clandestini philosophes prêt-à-porter (nouveaux o anciens, tutti mi fanno il filo, ma io mi fermo ai preliminari), snobbo la cornetta – di giorno sono fedele – e vado a tirare. Slash-flash: qualche strisciata di piccì, per tenermi su. Inizia la mia giornata.

E poi, sempre dal libro, dopo le precedenti esternazioni, di mia fattura (e 'frattura'), un po’ di citazioni ‘illuminanti’ (o ‘oscuranti’). Naturalmente, da ‘elaborare’. Tutto propedeutico alla tua ‘trasformazione’ (per usare la loquela heideggeriana, tras-formazione, ossia “passaggio di stato”: dal grossolano al sublime, ma sempre poggiato a terra).

“Via le scarpe basse, via le orride ballerine, via gli stivali rasoterra. Da oggi solo altezze aeree. Da oggi si sale su, ci si slancia e si ondeggia e si affonda di più sul cemento. Ché anche la musica la segui meglio e i capelli scivolano ondosi e la gonna trova quel perfetto punto della gamba in cui fermarsi e i tendini sparano in su e senti che potresti, davvero, arrivare dovunque, e tutti lo noterebbero, che arrivi. Le ginocchia così meravigliosamente elastiche. E la caviglia, sì, bellissima riflessa nello specchio del negozio sotto casa, fra il nero e la luce del sole e dell’ombra.”   
“Voglio saper tenere un bicchiere in mano in un certo modo. Avere linee del corpo allungate e nervose. Essere capace di deformarmi in un sorriso sghembo. Indossare solo sottovesti nere. Oppure fumare, inarcandomi lievemente di lato. Frequentare locali dove tipi in cravatte strane si appendono a sigari o tastiere di pianoforte. Voglio occhi bistrati di nero, unghie lunghissime e spalline che scivolano giù. Vite di meravigliosa autodistruzione o superficiale sciocca solitudine. Notti garrule e mattini disperanti, in qualche motel sperduto d’America. Oppure ovunque.”
(dal blog Le stanze di Gaia)

“Bisogna fiutare il diavolo da lontano... in tutti gli angoli... attraverso il mondo... tra i sottili paragrafi di qualsiasi fatto quotidiano apparentemente innocente... il segno del pollice, furtivo... appoggiato... segnaletico... la parola favorevole... lusingatrice... la messa in valore, francamente pubblicitaria... il denigramento sedicente imparziale... Nulla è indifferente.”
(citazione da Céline)

“I fatti sono semplici, i fatti sono fatti / I fatti sono pigri, i fatti sono matti / I fatti dipendono dal punto di vista / Se non fai attenzione ti portano fuori pista.”  
“Ti versi una bella riga sul dorso della mano. Ti porti la mano al naso e la boccetta ti sfugge e va a cadere con nauseabonda precisione nella tazza. Rimbalza una volta contro la porcellana, poi affonda con un tonfo insolente che sembra il rumore prodotto da una grossissima trota per sputare una minuscola esca finta accuratamente preparata.”  
(da Le mille luci di New York, di Jay McInerney)

“Dovunque vado c’è la carcassa bruciata e ammucchiata di una macchina ad attendermi. So dove sono tutti gli scheletri. Vedetelo come la mia garanzia d’impiego.”
(da Fight Club, di Chuck Palahniuk)

Il punto è: devi davvero fare le cose perché vuoi farle, perché quello è il tuo sogno. Perché è l’amore della tua vita. Devi appassionarti. Perlomeno, è così che ho fatto io. Non mi è mai interessato vivere l’avventura di un altro. Volevo la mia personale avventura, il mio viaggio. Non volevo montare in sella al sogno di qualcun altro.”
(citazione da Billy Idol, che quand’era sobrio ci menava)

Quanti libri si fanno senza scopo / Lo studio è troppo / La carne si rattrista / La parola ora tace.”
“Nel rapporto fondamentale con sé stessi gli esseri umani sono prevalentemente dei narratori… amano il succedersi ordinato dei fatti perché assomiglia ad una necessità, e l’impressione che la loro vita abbia un ‘corso’ li fa sentire come protetti in mezzo al caos.”
“Scrivere significa distrarsi dei propri rimorsi e dei propri rancori, vomitare i propri segreti. Lo scrittore è uno squilibrato che si serve di quelle finzioni che sono le parole per guarirsi.”
(rispettivamente, Ceronetti, Krysinkim e Cioran).

E per chiudere (tutto mio).
Sentiva nella ghianda dell’anima che c’era something new in the air. Qualcosa di nuovo stava per accadere: su di sé, intorno a sé, dentro di sé, sentiva good vibrations. Sentì vibrare il nucleo, il cuore, l’antro sotterraneo che si celava dentro: un desiderio violento lo pervase, come magma pronto a eruttare che la crosta esterna comprimeva, tratteneva, faceva muraglia tutt’intorno. Bramose voglie in cerca di un significato, aneliti vulcanici, ma spesso degradati a basic instincts senza profondità vitale. 
Nondimeno, dal mondo del sogno – il Tjukurrpa aborigeno in cui spesso si rifugiava, e da sempre (già nel ventre materno – così gli sussurrava l’Io subliminale) – più di una volta era riuscito a tirar fuori il ‘nucleo immaginale immanente’ (frase a effetto esplosa da Lorenzo in una delle conferenze amatoriali del suo periodo rosa), cioè la qualità ‘numinosa’ che lo sottendeva. In pratica, aveva dato corpo (nel vero senso del termine) ai voli della sua immaginazione.
Quel bisogno di creatività, di fuga dal mondo, di fantasie da realizzare, che può creare sia il gigante sia il mostro. Ma Lorenzo non era riuscito a essere né l’uno né l’altro; se non a sprazzi o, nel migliore dei casi, in maniera discontinua, frammentata. Arenato, frenato, appesantito dall’io sociale che non lasciava correre il suo io reale. Eppure la voce tiranna Krishnamurti dixit – gridava...
E come strillava! Munch… Sussurri e grida. Un urlo sul ponte. 
Ginsberg… che urlo! Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa…” Anche Lorenzo arrancava, ma senza strillare. Non più nero di rabbia. Solo frenato. Senza remi, con molte remore. Ramingo.
Freni interni ed esterni. Per rompere i quali, e catapultarsi nella vita, aveva cercato – pensando che fosse lì il problema – d’integrare il puer con il senex (quest’ultimo, in lui, pressoché assente), affinché si riconciliassero e passeggiassero insieme. Ma il fanciullo aveva avuto sempre la meglio.
Aveva, infine (passo decisivo), compreso che il suo malessere esistenziale derivava da un bisogno inespresso di esplorare le contrade del mondo dello spirito, le città invisibili: un mal-essere che solo un rivolgimento completo del suo essere, una metànoia, avrebbe potuto dissolvere.

Bene, sei a passo dalla metànoia: tutto il resto è noia…



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