sabato 19 aprile 2014

PASQUA – De profundis clamo ad te



PASQUA

De profundis clamo ad te



No wonder many Italians worry that the stability that Mr. Letta is offering will turn out to be the stability of the graveyard.
(Simon Nixon, Wall Street Journal, 24 novembre 2013)

“Le zone interdette che caratterizzano e costellano il posto in cui abitiamo viviamo lavoriamo non sono solo e semplicemente fisiche (L’Aquila, Taranto, i CIE, la Val di Susa), ma più integralmente psichiche: a essere interdette, proibite, negate sono intere narrazioni, racconti storici, versioni di come sono andate le cose davvero: di come siamo arrivati a questo punto.
(E d’altra parte, il sequestro è il concetto-guida che ci accompagna regolarmente e che ci ossessiona segretamente da più di un trentennio: questo periodo inaugura se stesso con i due fantasmi rimossi che continuano a ritornare, Aldo Moro e Alfredo Rampi, le due figure della costrizione in spazi claustrofobici: una cella che è un interstizio e un pozzo profondo che è un cunicolo percettivo, le due capsule spaziotemporali in cui siamo rinchiusi ancora oggi, da cui stiamo tentando con fatica di uscire).
Il nostro – il luogo una volta conosciuto come “il Belpaese”, in cui il paesaggio aveva un ruolo così importante nella costruzione dell’identità individuale e collettiva, nel suo rapporto stretto con il contesto architettonico e urbanistico, al tempo stesso quinta teatrale su cui rappresentare l’io e proiezione dell’altro – è divenuto incredibilmente e indubbiamente un Paese “claustrofilico”, come afferma Giorgio Vasta.
Siamo intrappolati all’interno di narrazioni che ci sono state consegnate, ma che non ci appartengono. Versioni che conosciamo bene come finzionali e soprattutto atrocemente semplificanti, ma che non sappiamo ancora esattamente come disinnescare. Versioni imposte da generazioni precedenti, e presentate come le uniche esistenti, le uniche valide per interpretare il passato e soprattutto il presente (perché autocelebrative, autoassolutorie). (…) i racconti sono già tutti pronti, confezionati, ready-made. Il racconto del precariato; il racconto dell’Aquila; il racconto della crisi; il racconto della “fine della cultura”, della “fine dell’arte”, della “fine della letteratura”, della “fine della civiltà”.
Si fa molta fatica in genere a considerare che il tuo declino non è un torto che qualcun altro ti fa, non è un furto, né una maledizione divina, ma è proprio… il tuo declino. Del resto, il pensiero apocalittico de “l’Italia sta fallendo; tutto finisce, tutto è finito” è in fondo la consolazione ultima. Definitiva. È la più articolata – e al tempo stesso la più semplice – delle retoriche con cui ci avvolgiamo, nelle quali ci imbozzoliamo come in coperte sbrindellate e marcescenti. Perché permette di rimuovere il pensiero atroce e semplicissimo che tu sei finito, tu stai finendo, mentre il resto va avanti e andrà avanti, in forme che neanche riesci a immaginare. Che il nuovo inizio non ti riguarderà in alcun modo – come è perfettamente naturale che sia.
(…) In questo momento, è come se un linguaggio, un codice, un intero sistema di convenzioni elaborate in e da un’altra epoca (chiusa, conclusa per sempre) stesse cercando di raccontare un presente totalmente alieno, inedito, oscuro. Così facendo, se ne colgono ovviamente solo gli elementi terribili, spaventevoli, inquietanti, mai quelli interessanti (che sono – ovviamente – gli stessi).
Un unico punto di vista, per giunta incredibilmente piatto e noioso, non è in grado per definizione di generare nuove prospettive sulle situazioni che stiamo vivendo giorno per giorno, e che intessono a loro volta la nostra esperienza. Occorre imparare molto in fretta a fessurare costantemente questo presente e i racconti mainstream che lo dominano e lo imprigionano – rendendolo inerte, paralitico.
Una delle cose in assoluto peggiori che ci è stata insegnata è che occorreva e occorre a tutti i costi evitare ogni forma di conflitto. Ma senza conflitto, senza scontro culturale – che è scontro di visioni, di punti di vista, di prospettive, di interpretazioni, di sistemi morali – non esiste nulla: esistiamo solo noi in questa distopia realizzata, in questo spazio mentale claustrofobico e asfissiante. Esistiamo noi con questa persistente sensazione di sospensione, di estraneità. Finora può essere stata interessante (perfino divertente a tratti): adesso va infranta, lesionata, sbriciolata.”
Da Narrazioni interdette (Christian Caliandro sul blog minima & moralia).

“E un giorno esce sul giornale di una squadra di uomini vestiti di nero che hanno fatto irruzione nel salone di un concessionario di macchine di lusso in un quartiere elegante sfondando a colpi di mazza da baseball i paraurti anteriori delle macchine per far esplodere gli airbag in imbrattanti nuvole di polvere nel fracasso spaventoso degli antifurto. E una notte nel giardino di una piazza cittadina un altro gruppo di uomini ha versato benzina sotto tutti gli alberi e da albero ad albero ha appiccato un perfetto piccolo incendio boschivo.”
Ci vengono addosso i fari, sempre più grandi e più grandi, clacson che strillano, e il meccanico allunga il collo nel riverbero e nel fragore e grida: «Tu non sei le tue speranze». Nessuno gli fa eco. Questa volta la macchina che ci sta venendo addosso sterza in tempo e ci salva. Ce ne viene addosso un’altra, lampeggia, abbaglianti anabbaglianti, clacson a tutta, e il meccanico grida: «Tu non sarai salvato». Il meccanico non sterza, ma sterza l’altra macchina. Ne arriva un’altra e il meccanico grida: «Tutti noi moriremo, un giorno o l’altro.»
(Fight Club, Chuck Palahniuk)

Sì, tutto sembra cospirare affinché la tomba (il graveyard dell’incipit) sia la nostra destinazione, ma, come la Pasqua insegna, il sepolcro è solo temporaneo: ognuno di noi è un potenziale Lazzaro "risvegliato" (alla faccia del lazzaroni e dei caciaroni cianciaroni fancazzisti del can-can mediatico).

Bene, svestito l’uovo di Pasqua (il re è nudo), vediamo di romperlo: infrangiamo le convenzioni cui siamo asserviti, come afferma, a ragione, l’articolo, e scartiamo il regalo.
Sì, perché un regalo c’è: dietro ogni piagnisteo, sia pure legittimo, ci dev’essere una risata (un fou rire, una risata folle alla Nietzsche: "Coloro che leggono Nietzsche senza ridere, e senza ridere molto, senza ridere spesso, colti talvolta da un fou rire, è come se non leggessero Nietzsche" - Gilles Deleuze).
La Pasqua è anche questo: un Dio che, dopo un pianto a folle, si fa una risata folle della Sua morte… perché sa che, morendo, dà la vita.

L’angelo della morte sta passando davanti alle porte di tanti uomini, famiglie, aziende, città, nazioni, ma va oltre la porta di chi è “uscito dalla narrazione” imposta (pur con le sue ragioni e i suoi effetti, palpabili) ed è passato a una nuova narrazione, anche se questa all’inizio può essere solo una finzione, un agire “come se” (fosse davvero così): se rompi l’uovo del “come è” imposto dai media (che puntano al “minimo”) e agisci “come se” – ossia agisci al massimo, sia pure solo nelle intenzioni la tua Pasqua non sarà quella banalizzata delle masse e della stessa chiesa (quella della "moralina", del mercato e del supermercato), ossia un rito senza profondità, né alterità, né altezza e profondità, ma si dimostrerà una Pasqua di Risurrezione (anche di insurrezione, nel senso di “rivolta ideale”).

J'implore ta pitié, Toi, l'unique que j'aime, Du fond du gouffre obscur où mon coeur est tombé. C'est un univers morne à l'horizon plombé …
(Baudelaire, Les fleurs du Mal)

Sì, c’è un chiarore oltre l’orizzonte (quello “orizzontale” della quotidianità). Che questa Pasqua sia, dunque, un salto nella Luce: dagl’inferi al terzo cielo, e poi di nuovo giù, ma a metà strada, sulla terra, nell’acqua, nelle case, dentro e fuori di te.
Acqua e Spirito: il vento della Ruah (femminile), dello Pneuma (neutro), dello Spirito (maschile), comincerà a soffiare sull’Abisso. Sentirai sempre più il flusso della vera vita, le sue onde… perché la vita è “liturgia”, non quella esangue (talvolta da sanguisughe) propinata in questi giorni:
“La liturgia è come una grande onda del mare. Due sono i nuotatori. Uno, vedendo arrivare l’onda, raddoppia i suoi sforzi per restare a galla. E ci riesce anche; però si stanca e alla fine è contento di ritornare a terra. L’altro si abbandona all’acqua e si lascia portare dalle onde. Per lui non c’è nulla di più bello che un’onda grande che porta lontano. Egli ama la sensazione di essere portato, di essere tutt’uno con l’onda, la sensazione dei ruscelli di acqua fresca che massaggiano la pelle, la luce del sole che brilla e che si rispecchia in un mare di cristallo mescolato con fuoco... La liturgia è come una grande onda del mare.” 
(Dieter Kampen).
Lasciati andare, onda su onda… 
E mangiati l’uovo!