CITTÀ COME STATI D’ANIMO
Cos’è
la città, se non un coacervo di esperienze, un cumulo di mattoni di vita.
Sedimenti
di passato, bollicine di presente, fumi di futuro... D’altronde, per dirla con
Saul Bellow, «le città
sono stati d’animo, stati emotivi, umori, per la maggior parte distorsioni
collettive…»
Nella
città, nella metropoli in particolare (quando non si avviano a diventare
‘necropoli’…), si avverte la disseminazione della cultura, costantemente
contrattata e in divenire. Naturalmente, non lì dove vi sono i ‘ghetti’: lì c’è
la massima, forzata, omogeneità in spazi anche grandi (ma il fuoco,
talora, soffia sotto le ceneri: parlo, per esempio, della vivacità sotterranea
di cultura e subcultura urbana in alcune realtà islamiche – v. in Iran – che
cercano di ravvivare l’antica dinamicità dell’Islam medievale e delle radici
arie e zoroastriane contaminandole di occidentalismo freelance).
Oggi, più che metropoli versus
città rurale, il dibattito è tra provincialismo, mondialismo omogeneizzante o
mondialismo liberatorio e libertario che non disdegna la diversità, la
specifica kultur (più che zivilisation), ossia tiene conto sia dei rami che si
protendono verso altre realtà (lo stesso mondialismo) sia delle radici
identitarie.
Insomma, un cosmopolitismo
localistico glocal.
Due realtà fisiche e due gestalt
– forme, strutture – che incidono diversamente sul modus viventi dei loro
abitanti. E sull’immaginario urbano.
Imago mundi. L’architettura
che ‘co-stringe’, fisicamente, psichicamente e ‘pneumaticamente’, i suoi
sudditi.
Architettura
da de-costruire, reset psico-territoriale, bouleversement creativo.
Ritmo veloce, giungla di stimoli, sensazioni e
immagini, versus ambiente rurale (o provincialismo urbano), dal ritmo
lento (anche quando corre…), più abitudinario e uniforme (e conforme).
«Più la folla è densa, più ci sentiamo soli», così Zygmunt Bauman ‘liquida’ la ‘città del troppo’
(altro che villaggio globale… Troppo annacquato: perciò i localismi stanno
tornando a galla). Ma anche del troppo poco, del troppo uguale,
dell’indistinto, dell’outlet, del ‘passaggio veloce’, del nulla – anche se
iper… (e quella di Marc Augè non è un’iperbole: passiamo la maggior parte della nostra esistenza in ‘non-luoghi’,
dove si consuma il presente e si abortisce l’avvenire).
«Nella grandezza smarrente delle metropoli americane ove il singolo –
‘nomade dell’asfalto’ – realizza la sua infinita nullità dinanzi alla quantità
immensa, ai gruppi, ai trusts e agli standards onnipotenti, alle selve
tentacolari di grattacieli e di fabbriche… In tutto ciò, il collettivo si
manifesta ancor di più senza volto che non nella tirannide asiatica del regime
sovietico». Così Julius Evola, no-global antelitteram,
liquida New York (e di conseguenza ogni omogeneizzazione, pur nella pluri-etnia:
in quanto auto-emarginantesi, etero-emarginata, assente, indifferente…).
La metropoli del denaro e di Mammona versus
la campagna del baratto (e della
mamma, quella con le tette gonfie di latte). Ma anche lo sfilacciamento del
tessuto comunitario – altro che manna – a vantaggio della scolorita ‘stoffa’
periurbana (le periferie anonime e suicido-file, ipermercati inclusi, per
quanto architettonicamente ben disegnati). Luoghi,
non-luoghi? Vita, non-vita? Il bello non ha prezzo.
Vita
tra i confini. Identità versus alterità. Ma ancor di più: alterità
nell’identità. Equilibrio in bilico. Città plurale, campagna singolare.
Spaesamento. Urbanizzazione selvaggia. Portici, shopping malls,
clochardization. Marginalità inclusiva, gentrification elitaria.
Minimal o segno ipergrafico. Fast-food versus
slow-food.
Boutique
versus ipermercato? Un po’ l’uno, un po’ l’altro. Ma con juicio.
Vivere tra i margini (e, spesso,
sconfinare…). Questo l’universo quotidiano. Ma anche l’intellettualità
sofisticata, la riservatezza fino alla ritrosia, il formalismo blasé e
il distacco anodino, il tempo che tutto scandisce e cronometra: questa la
metropoli e i suoi ‘numeri’.
Ma dietro il numero c’è Dio…
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