sabato 29 giugno 2019

GOCCE DI PIOGGIA A JERICOACOARA (start)



GOCCE DI PIOGGIA A JERICOACOARA

Oggi, in un momento di relax estivo, niente di meglio di una spiaggia brasiliana: Jericoacoara, tra le più belle del mondo (ma anche dalle mie parti non si scherza…). 
E per stare sul pezzo, ecco il primo capitolo del mio romanzo “premiato” Gocce di pioggia a Jericoacoara. Ovviamente, un romanzo a tutto sole (le piogge, più che altro, sono di benedizione. Anche se il romanzo ha più di cinquanta sfumature…).

L’INCONTRO


 È dolce la stagione della raccolta, quando
il guardiano è lontano.
Plutarco
1
«Ma quanto sei strana!»
     Il bronzeo addetto alla piscina irruppe da chissà quale anfratto, fiondandosi tra le sdraio e gli ombrelloni strapazzati dalla pioggia con la sfrontatezza di chi vuol battere sul tempo un sole paonazzo e pieno di voglie tanto improvvise quanto prevedibili.
     Poi il bay-watch prestato alla terraferma cambiò di colpo marcia e, ciondolando – caracollando – tra le pozzanghere, guadagnò il bordo-vasca col piglio di chi getta l’amo per adescare uno squalo.
     L’occhio umido (non solo di pioggia) prese a dardeggiare il fluttuante contorno sinuoso che dava un senso all’asettico rettangolo d’acqua, col fermo proposito di colpire il bersaglio mobile al primo colpo.
     «Solo la pioggia o la luna riescono a fare il miracolo. Solo loro riescono a farti tuffare...»
     Offuscando le parole-esca e mettendo a tacere gli ultimi vagiti meteo, il sorriso (invocato) di lei fece capolino tra le increspature e il cloro, complice e promettente. Nessun indizio, niente che facesse preludere all’epilogo politicamente scorretto. Non la gimcana di labbra sulla pelle che il bagnino aveva messo in conto tra i sogni nel cassetto (insieme a qualche tuffo con la bella naiade), ma solo una risposta da brivido blu:
     «Ho il cuore pieno di ceneri e di scorza di limone. Andrò solo dentro me stessa. Mi troverai sempre là...»
      Scagliato il dardo al curaro sul san Sebastiano di turno (il bagnino), paga dell’effetto sorpresa, la bionda ondina riguadagnò il bordo-piscina. Salì come da videoclip la scaletta cromata, schioccò un solare ‘ciao!’ da trailer al gallo cedrone dall’ala spezzata e, sfioratane l’epidermide bronzea (di colpo sbiancata), gli lasciò – sapore di sale – il chimerico assaggio di quel suo tatuaggio sfarfalleggiante sulla pelle bagnata.
     Gaia era fatta così: non solo tattoo ma anche taboo. Una vita esaltata da brevi ma intensi deliri, la magia di lunghi silenzi bruscamente interrotti da taglienti ossimori, paradossi, voli pindarici, esternazioni frappant. E se qualcuno (non pochi) sostava, rapito, davanti a quest’opera d’arte (e non da tre soldi...) – un taglio di Fontana sulla tela bianca della vita – veniva immancabilmente colpito da un’inattesa sindrome di Stendhal. 
     Gaia o dell’avventura dell’esistenza, un ossimoro vivente più che un paradosso. Tutto questo si sarebbe potuto dire – a posteriori – di Gaia (anche il nome). Ma ormai il fugace biondo oggetto del desiderio era fuori campo e a Lorenzo – il terzo silenzioso incomodo (convitato di pietra, nel vero senso del termine) – non rimase che rituffarsi nelle pagine appena lambite da una di quelle piogge lampo settembrine che il Gargano riservava ai suoi ultimi ospiti.
     Il turbine (anche sensoriale) era ormai passato, senza lasciare – così il buon Lorenzo pensava – tracce: lui di Gaia conosceva – e gl’importava – solo la Scienza…

     Al riparo, raccogliticcio, di uno dei pochi ombrelloni rimasti aperti, l’unico ‘abitato’, Lorenzo riprese la lettura, subito abortita: a braccetto col sole, ritornato master & commander del cielo, come un hobbit da pagina sei sbucò, impertinente, l’ossimoro, questo ‘carneade’ apparentemente fuori luogo in quel villaggio-vacanze così poco manzoniano (e neppure tanto tolkieniano).
     Queste paginette sfiorate dal pianto celeste erano la sua ultima conquista (libresca) – il tempo degli amori per Il Signore degli Anelli sembrava appartenere a un altro eone – e a Lorenzo non sembrò affatto un caso che il buon Raimon Panikkar – il teologo di frontiera (non solo Paul Tillich) cui stava facendo il filo tra un tuffo e l’altro – esordisse con quello strano termine, così calzante nell’occasione, per la bella del villaggio.
     Sì, ossimoro, oxymoron, questo stravagante matrimonio tra la bella oxys (affilata, appuntita e penetrante) e la bestia moros (ottusa, senza punta, molle, sciocca, folle...). Armonia fra i contrari, coincidenza degli opposti. Palintropia, concordia discors, polemos eracliteo, processo e stasi. In attesa della palingenesi.
     E tale, almeno da quel fugace mix di figura, situazione ed insinuante esternazione, gli era subito parsa la ragazza: affilata-spuntita nella sua follia penetrante, un punteruolo nella stupidità altrui. Insomma, la punta che perfora ciò che è molle
     In quel momento Lorenzo comprese anche come fosse facile passare da L’esperienza di Dio (il libro dell’ossimoro) all’esperienza di Gaia (dall’esperienza del cielo a quella della terra...). E così, rapito da questi volteggi della fantasia, ormai solo sul campo – il prato più o meno all’inglese che delimitava la piscina – e sospinto da chissà quale daimon, non trovò di meglio che tuffarsi nell’acqua solitaria ma ancora pulsante di vita: se al bagnino – ormai svanito nel nulla – la ragazza aveva prodotto l’effetto di uno shock termico, per lui, semplice e involontario spettatore del duetto, fu invece una salutare botta di vita (fosse stato Tinto Brass, sarebbe subito passato alla ‘botta d’allegria’…).
     Anestetizzato da questa sua sobria ebbrezza – l’ossimoro qui è d’obbligo – Lorenzo cominciò a nuotare, ora a stile libero, ora a rana, addirittura a farfalla, se non proprio a delfino (memore del luogo), incurante dell’acqua gelida, indifferente.
     Bracciata dopo bracciata, il suo corpo da algido (soprattutto nei sentimenti) prese a intiepidirsi, sciogliersi, rigenerarsi, mentre, accompagnati da ribollii e sfrigolii, risalivano a galla i sedimenti della misteriosa presenza di Gaia e l’eco delle sue parole sibilline. Così incomprensibili e disarmanti per il bagnino, ma così significative e pregnanti per lui: che c’entrava quel barbaglio di contro-cultura nella Pugnochiuso delle vacanze politically correct? Che ci azzeccava?
     Chi era quella ragazza così out? Una neo-esistenzialista post-histoire in vacanza single? Cascami di New Age tra barlumi di Next Age? Scampoli del Grande Fratello? Una velina in uscita libera? Una sciampista, una stagista, una staffista? Una veltroniana free-lance? Il cervello di Lorenzo fumava nell’acqua diaccia…
     Fatto è che le sue ‘vasche’ furono più piacevoli del solito. Rilassanti, da training autogeno, quasi ipnotiche. Da ipnosi regressiva: ripercorse a grandi balzi la sua varia quotidianità, dai picchi (rari) delle esperienze delle vette – era da poco scivolato giù dalla ‘piramide’ di Maslow – alle depressioni (varie) della banalità del suo Sitz im Leben, il suo ambiente vitale.
     Come un film a ritroso – di quelli che si dice veda chi è in punto di morte, quando la corda d’argento sta per essere tranciata –, davanti a lui cominciarono a scorrere veloci i fotogrammi delle tappe più significative della sua vita (e lui non era nel cast… la riflessione di Woody Allen gli calzava a pennello – ma c’era un buco nei pedalini di Lorenzo…).
     E così, tra un flash-back e l’altro, cominciò a togliersi le scaglie di dosso: in fin dei conti, non era poi tanto meno stravagante della sfarfalleggiante fanciulla! È vero, il ruolo sociale, i condizionamenti ambientali e i chiaroscuri del carattere ne avevano spesso frenato la libera espressione, ne ostruivano il libero sgorgare, ma non amava forse, anch’egli (alla faccia dei suoi invisibili ‘cinquanta’), il bagno sotto la pioggia? Non gigzagava, anche lui – malgré gli anta (ma solo quando i cascami di tempo libero glielo consentivano) , tra Mtv e zingarate?
     In ogni caso – e qui le sue bracciate cominciarono a perdere colpi –, più della ragassa in sé (che pur valeva una messa), ciò che intrigava il nostro era la sua personalità essenziale, messa a nudo da quell’esternazione fuori dal coro della banalità quotidiana. Un coming out (o un outing? – in fondo era stato il bagnino a ‘costringerla’ a rivelarsi) davvero inaspettato quello dell’ospite (non certo scema) del villaggio (Lorenzo, essendone un habitué, si riteneva quasi il padrone di casa).
     E poi... quell’uscita di scena, cui difficilmente avrebbe fatto seguito un secondo atto. Conclusione: la ragazza era piuttosto in alto nelle sfere…

     Sì, la frase... Un lampo tra gli emisferi cerebrali (il fulmine lampeggiante della creazione: Madonna… come gli piaceva questa frase puro stile ‘Qabbalah’!) e l’appartamento vuoto s’illuminò, riempiendosi di presenza.
     Lorenzo era rientrato da pochi minuti nel residence – così sprofondato nei suoi pensieri da lasciare intonse le persiane, malgrado il saloncino-cucinino reclamasse impaziente un po’ di luce – ed eccolo, all’improvviso, assalito, quasi scaraventato a terra, dalla certezza di poter trovare la fonte delle arcane parole della ragazza. E di quella sua stimmung così intrigante, di quell’atmosfera così rarefatta. Ma che radeva il suolo.  
     Atterrato, non senza qualche scossone, sul letto, iniziò, guidato da mano invisibile (e dalla provvidenziale lampada sul comodino), a scartabellare fremente i libri (non c’erano solo Panikkar e Maslow, anema e core) che accompagnavano pazienti le sue ore monastiche nel villaggio-vacanza – Lorenzo si trovava da solo, né era in cerca di compagnia –, puntando infine diritto su un libricino nero, un po’ sgualcito e dall’aria démodé.
     Si soffermò ancora una volta – era da trent’anni che lo faceva – sulla copertina ‘vissuta’, retrò nel design ma dal messaggio ancora attuale. La scritta – La politica dell’esperienza – campeggiava in giallo su un fondo nero costellato da immagini smozzicate: mani, braccia, gambe, piedi, un occhio, un orecchio, un ventre... (l’assemblaggio, seppur sessantottino, occhieggiava a Hieronymus Bosch). E poi, scorrendo all’impazzata la densa copertina, quasi come sottotitolo: “Esiste per caso qualcosa come un uomo normale? Imparate a conoscere la vostra pazzia, le vostre nevrosi, e le camicie di forza che la società v’impone!”
     E non era finito… Ancora: “Noi che siamo ancora vivi per metà e abitiamo nel cuore alterato di un capitalismo decrepito, possiamo fare di meglio che riflettere lo sfacelo che è fuori e dentro di noi, e che cantare le nostre tristi canzoni di sconfitta?” 
     Ne era ormai certo (lo sentiva nello spirito, la ‘cantaride’ dell’anima): lo sconosciuto oggetto del desiderio non poteva aver attinto che dal libretto underground di Ronald D. Laing – strizzacervelli fuori rotta – che portava sempre con sé, quasi un Così parlò Zarathustra da viaggio (per lo spirito, e non solo, ci pensava la Bibbia pocket); ma anche, più prosaicamente, un vademecum di frasi a effetto da snocciolare in circoli radical-chic e dintorni (lui era un po’ à la page un po’ vintage, mai retrò).
     E così, dopo un attimo di sospensione, un tentativo di retromarcia, scavalcate le prime pagine del ‘breviario’, che conosceva ormai a memoria, imboccò a tavoletta la scorciatoia verso l’epilogo, lì dove i dialoghi da épater le bourgeois si facevano più frequenti e intensi. Tra un “Cristo mi perdona se Lo crocifiggo?” e “nel mio vagabondare d’un tratto m’imbattei in una delle mie molte fanciullezze conservate nell’oblio, per questo momento in cui più ce n’era bisogno”, finalmente si scontrò, a pagina 188, con la frase fatidica. Crash, ecco dove l’aveva scovata, la scippatrice radical-chic!

     Fatta chiarezza dentro di sé, momentaneamente soddisfatto, rabbonito, placato, Lorenzo si sentì blandire dalla voglia di abbandonare il campo di battaglia e andarsene in giro per il villaggio. Il luogo meritava, la carne reclamava, lo spirito scalpitava.
     Aveva smesso di piovere da un paio d’ore; lame di luce tagliavano, tra i residui delle pozzanghere, le aree pavimentate sottostanti alla terrazza, sfrigolii e luccichii s’insinuavano tra l’erba bagnata.
     Affacciatosi con aria imbambolata – aveva finalmente aperto le persiane –, intorpidito dalla mancata, consueta, siesta pomeridiana, d’incanto i sensi rattrappiti si sciolsero, cosa per lui inconsueta, davanti al panorama, che pur frequentava da oltre un decennio. Il prato, la piscina, i cespugli, il mare, il cielo, ogni cosa gli parve nuova, viva, vivace.
     Ancora a torso nudo e costume al cloro, risparmiato dai morsi della fame (mangiava solo per sfizio o dovere sociale, pur non disdegnando le abbuffate conviviali), ricaricatosi e rivivificatosi Lorenzo si fiondò di colpo verso la porta, quasi alla ricerca di un qualcosa d’indefinito che riuscisse a lenire quel suo bisogno interiore. L’ineffabile voleva esprimersi, la sua dynamis interiore premeva con insistenza sulla ‘corazza’, chiedendo solo di sprigionarsi: l’animale era pronto a entrare nel palcoscenico.
     Un fugace scalpitio, rimbalzante gommoso tra i gradini della breve ma ripida scala, e poi uno sfrigolio metallico di passi frettolosi sulla stradina sottostante gli fecero da apripista. Catturato dalla foga di uscire, in apnea tra mille pensieri e bolle blu (tendenti al rosa: la malinconia stava svaporando), non se ne curò affatto – era poco curioso, piuttosto superficiale e todo modo distratto – e aprì senza fretta, e apparentemente senza frutto, la porta, poco interessato a scoprire chi avesse deflorato la quiete, non solo pomeridiana ma anche domenicale, del residence. Tutt’intorno, verginale, il silenzio.
     Sounds of silence. Solo qualche timido, malcelato, clandestino sonoro approccio da parte di sons et lumiéres: un inizio di petting ai fianchi delle ore sul viale del tramonto. La piscina vuota, l’appartamento di fianco altrettanto.
     La sua riottosità verso i dettagli – la mente di Lorenzo era più sintetica che analitica – non gl’impedì, tuttavia, di soffermarsi su di un particolare su cui aveva glissato al rientro dal fatale buen ritiro in piscina (non per nonchalance, o perché ‘fatto’ dalla musica ‘suicida’ dei Joy Division, dead men walking sul suo sempre vivo walkman, ma in quanto assente: di questo era certo): vergati sulla parete (di) sinistra del pianerottolo, appena sopra al campanello, campeggiavano, dramatically, tre numeri – un vistoso 666 e due più minuscoli 13 e 18.
     Questione di attimi: la parete, fattasi improvvisamente concava, occupò tutta la sua visuale e lo circondò. Comprimendolo, quasi soffocandolo nella stretta delle sue spire, bloccando ogni suo tentativo di fuga dal residence.
     Frastornato e impedito nei movimenti, la stringente sensazione di un black-out totale – in sincronia col calare a ghigliottina della notte più tetra che la magica Pugnochiuso dai venerei chiarori di luna tra brillii di stelle avesse mai conosciuto – Lorenzo si ‘spense’ anche lui, afflosciandosi devitalizzato sull’esiguo pianerottolo, contraendosi more and more, fino a diventare un puntino nero.
     Polvere, pulviscolo, pula al vento…

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