domenica 27 ottobre 2019

LA CASA PIÙ BELLA DEL MONDO


LA CASA PIÙ BELLA DEL MONDO

Era l’alba, il momento più degno per l’incontro cui tanto aveva anelato.
Si avvicinò al locus: il genio aveva ghestalticamente ricomposto le mille tessere in quarant’anni gelosamente serbate.
I have a dream si trasfigurò: la sua domus padana era lì, del sito proserpina, eppur ecumenica.
Nell’aura dai colori non ancora accesi, il portico audace tentò l’approccio, baroccamente giocoso, novecentescamente solenne.
Incuriosito, come bambino quarant’anni addietro, scartò la pur breve scalinata, infilò la rampa di sinistra, sospinse l’uscio ed entrò: una luce soffice lo accolse mentre s’incamminava incerto verso qualcosa che gli appariva un curioso dialogare tra reale e virtuale.
Scartò la scala di sinistra e acquisì la tattile consistenza cromatica che l’imago autre offriva di sé sulla flessuosa parete di destra: eterna diatriba tra essere e non essere, o forse qualcosa di più semplice? Scelse la prima ipotesi e, baldanzosamente attratto da sons et lumières, s’affacciò nella cavea ellittica.
Improvviso s’elevò un urrà di benvenuto: elfi e umani lo avevano per quarant’anni atteso e ora pubblicamente lo ringraziavano.
Ripresosi dallo stupore, gli parve persino di riconoscere figure settecentesche, perfettamente a proprio agio, così come cantava quel loro dialetto padano, così antico, eppur così vicino al suo.
Improvvisamente, vicino al camino, tra le griffe spuntò il figlio che se n’era andato appena grande, forse rientrato nei ranghi dopo anni di romitaggio esistenziale.
Lasciò le sequenze che l’ultimo videoclip affastellava sulla parete e, sentendo il desiderio di allontanarsi un po’ da quel clamore, volle ritirarsi nella stanza appena discosta dall’ingresso.
La porta era socchiusa; la sospinse, e si meravigliò assai vedendo lei, che l’aveva abbandonato, e i suoi vecchi, in un unico abbraccio.
Salutò con familiarità, quasi non avesse subito il distacco; prese lei per la mano e salì le scale, ma tale era lo stordimento, più di quanto volesse far credere, che salì per la rampa trompe l’oeil, accompagnato da chissà quale genio.
Superato l’ultimo gradino, si affacciò dall’alto sulla cavea ancor echeggiante e la immaginò vuota: in essa avrebbe potuto sistemare per sé, per la moglie e per il figlio, l’ufficio dell’operatore immobile, eppur collegato col villaggio ecumenico.
Per la sua intimità, e per i messaggi col villaggio cosmico, pensò invece a una sala al piano superiore, dove, nelle notti stellate, la cupola, una volta aperta dalla magia dell’elettronica, gli avrebbe dischiuso tutti i luoghi delle sue eterotopie.
S’immerse in queste digressioni, la mano di lei ancora stretta, la cupola ancora dischiusa sullo spazio irreale che virtualmente si apre oltre la coscienza, quando un improvviso temporale gl’inseminò il capo: pensò allora che forse una più stabile copertura, magari colorata d’azzurro, avrebbe garantito la pace domestica.

     Lorenzo raggelò. Preso da una sensazione di stordimento, sdilinquimento, per alcuni versi paragonabile a quella provata sul prato delle mandragole. Anche se qui era tutto piatto e spoglio: si trovava, infatti, con Gaia su una di quelle piattaforme a mezzacosta sottostanti la passeggiata ‘alta’ che collega il centro di Pugnochiuso col residence di Portopiatto. A interrompere la traversata coast to coast, più che la curiosità di leggere il messaggio – anche se qualcosa in lui vibrava – valse l’impaccio nel trascinare a nuoto la bottiglia.
     Erano, infatti, appena usciti dalla baia di Pugnochiuso propriamente detta, allorché, dopo la virata di circa sessanta gradi a sinistra, i due botti (il love-boat e la mystery-bottle) ne avevano frenato il volo ad ali spiegate (l’aquila che non si credeva più un pollo e la bella gabbianella) sulla direttrice della baia di Portopiatto: scorta la prima scaletta cromata che dalla scogliera lanciava sfottente i suoi luccichii, Lorenzo e Gaia avevano smesso di nuotare e si erano inerpicati sulla piattaforma più vicina.
     «Naturalmente, a meno che tu non sia ateo o agnostico, non puoi chiudere gli occhi davanti alla realtà metafisica. Prima o poi te la ritrovi dinanzi, magari in modalità diverse, confusa tra gli oggetti del tuo quotidiano (ma è lei il vero soggetto). Talvolta si scontra con te e fa il botto. E non solo, ma anche il botulino…» 
     Gaia, come al solito aveva lanciato il sasso e nascosto la mano.
     «Il botulino?» scoppiettò Lorenzo, che per il momento il botox non aveva ancora pensato di spararselo in faccia (rughe e rughette erano ancora, più o meno, underskin – comunque, qualche cremina la usava – l’acido ialuronico cominciava a tirare).
     «Sì, il botulino, il botox, non mi dire che non hai mai visto in tivvù quei due fichetti di Nip e Tuck darci dentro con bisturi e aghi! O hai zumato solo sui loro volteggi erotici? O forse ti ha distratto la life coach androgina, quella che si faceva il figlio del meno figo dei due? Comunque, botulino-hard o acido ialuronico-soft che sia, spesso ci si ferma in superficie, o nemmeno su quella, non si va veramente sottocute. Non si dà credito alla capacità della realtà metafisica di incidere e operare sulla realtà sensibile. Ma con te i giochi sono fatti: sei arrivato alla fine del ponte, si sono irreversibilmente attivati i più nascosti meccanismi operativi della realtà metafisica e hanno dato un colpo di vela al corso degli eventi. Anche se siamo sottovento…»
     Indubbiamente, la capacità di Gaia di volteggiare tra Pindaro e Zelig era extralarge. A far da pendant al suo bikini bicolore, che, seppur non tanga, viaggiava a scartamento ridotto.
     Acqua in bocca, Lorenzo, centellinato uno dei sermoni più brevi e dal retrogusto più sapido che gli avessero mai offerto, si accostò a Gaia, marcandola stretta, mentre con rinnovata gioia ripercorreva gli ultimi magic moments della giornata: il contatto con la brusca scogliera, i primi ostici gradini metallici, quindi quelli ricavati nella roccia, infine la breve sosta, nuda e cruda, sulla piattaforma naturally-correct. Qui Gaia (si era offerta di farlo lei) aveva stappato la bottiglia. E dopo un botto almeno simbolico, quello era il contenuto: la ‘domus padana’. Letto da lei, con la sua voce angelica, ma non eterea, con quel che di sexy e di fata che si confaceva al sito (e alla situazione). E dalla dizione perfetta, ma non impostata, priva di sussiego – come in ogni altro suo atteggiamento – e di cromatismi vocali padani che ne confermassero gli asseriti natali. Sulla faccia posteriore del foglio i grafici di una villa, tra l’avveniristico, il simbolico, il fantastico. Foglietto nel foglio, una breve introduzione:
   
Oggi, 1 agosto 2005, linea di partenza la Baia delle Zagare, sulla litoranea per Vieste (FG), io, Sara, di Milano, 23 anni, affido alle acque questo breve racconto onirico. Non è mio, ma è la copia, da me ribattuta al computer, dell’introduzione al progetto per il concorso internazionale d’architettura La casa più bella del mondo (del 1988) fatta dallo stesso progettista, Lorenzo, un architetto. Ormai per me, anche se non lo conosco e non ho avuto ancora, non so perché, il coraggio di contattarlo, è come se fosse un amico, per cui lo chiamo solo per nome. Comunque, il suo cognome è in calce alla fotocopia del progetto, in formato mignon, tratto dal libro-catalogo dei progetti. Quest’ultimo l’ho trovato, insieme ai grafici, nella biblioteca di mio padre, mentre stavo facendo delle ricerche per la mia tesi di Architettura. Lui era membro della giuria del concorso e, anche se questo progetto non era entrato nella rosa dei finalisti, gli era piaciuto molto. Era rimasto molto colpito anche da quest’introduzione, tanto da conservarla insieme ai disegni. A me la scoperta nella biblioteca ha portato bene. Non solo mi ha dato degli spunti originali per la tesi, che è stata ritenuta brillante dal relatore, e non solo da lui, ma, non so perché, è coincisa con una svolta decisiva della mia vita, quasi una nuova nascita. Sono sicura che sarà lo stesso per chi troverà questa bottiglia!

     «Nooo, dai… ci mancava pure questo!»
     Lorenzo, che sino ad allora era riuscito, con grande sforzo, a tenere a freno le sue emozioni, specie dopo l’apertura del ‘rotolo’ (di Qumran? Beh, un po’ di Mar Morto c’era…), gettando tutto nel ‘lete’ dei ricordi (“anch’egli aveva mangiato del loto il dolcissimo frutto…”) e sopportando obtorto collo lo sbobinamento del rullino di istantanee di vita di quei due giorni, non poté più trattenersi e sbottò.
     Ma la sua era una sorpresa consapevole. Qui l’ossimoro è d’obbligo: già da oltre un’ora – più o meno il tempo trascorso dal passaggio della formica dalla mano di Lorenzo a quella di Gaia – egli viveva in piena consapevolezza: sveglio, vigile, reveillé. Lasciato il suo robot a occuparsi solo delle funzioni vitali essenziali, aveva preso lui stesso – il suo vero Sé – il timone della propria vita (il volante l’avrebbe preso una volta tornato sulla terraferma). Era ormai solo, identificato con il suo sé spirituale: l’essenza. Disidentificato da tutto il resto, aveva trovato il suo centro di gravità permanente: la sua residua legione interiore era affogata con i porci di Gadara. Annegata nella baia di Pugnochiuso.
     «You make me feel brand new. I sing this song for you.»
      Gaia s’intromise con una vocina sensuale, quasi clone di quella originale (il vocalist degli Stylistics faceva andare in estasi Lorenzo, anche più del rosso Simply Red; ma era il pezzo, oltre che il turning point anni ’70-80, Arianna tutto compreso, a fargli fare il trip).
     «Mi fai sentire ogni momento nuova, nuova di zecca. Sei una continua sorpresa...»
     Poi dalla cover passò – turn-over – direttamente al Terzo Millennio, colpendo ancora nel segno.
     «No matter what I do. All I think about is you.»
     Quasi sapesse che Dilemma era il brano che aveva accompagnato gli ultimi giorni felici di lui e Arianna prima della fresca débâcle.
     «Di te certo non potrei dire come del proprietario del caffè – sai, la Nausea di Sartre – ”Nelle ore in cui il suo locale si vuota, si vuota anche la sua testa”; oppure, come di suo padre: ”Quando guardava dentro di sé, trovava il deserto.”»
     E il deserto rifiorì e fece posto a una foresta di ricordi. Una boscaglia, una selva, una giungla… E gli esploratori? Il progettista dell’hotel ‘Il Faro’, il luminare su cui si era scottato a causa della scintilla del post-modern (l’architettura alla Graves e Moore, da Lorenzo fieramente difesa in un acceso dibattito). Poi, l’ancor più famoso, e anziano, progettista del suo residence, l’architetto su cui, sempre nel turning point hippy-yuppy, aveva scritto su di un foglio locale un articolo più politically correct, barcamenandosi tra Scilla (Bruno Zevi) e Cariddi (Paolo Portoghesi). Infine, terzo esploratore (più che altro, uno sherpa), lui, il Lorenzo che, più volte dopo il suo turning point spirituale – the day after (tre anni dopo) La casa più bella del mondo , aveva meditato sui tanti segni premonitori disseminati tra i disegni e le parole di quel suo progetto. Neo-palladiano, organico, wrightiano, eppure, ecco ancora l’ossimoro, irrazionalmente fedele a Corbù. Beccheggiante – alla Tigerman – tra post-modern e new age (d’altronde, Lorenzo era una sintesi di tutto questo). Ma in cui vibrava, in embrione, l’anima pentecostale (l’esprit des anges).
     Non ultimo sign il fatto che, come aveva poi casualmente scoperto, anche l’architetto del progetto a contatto di gomito sul catalogo (un apulo-ionico come lui – anche se Lorenzo era fiorentino d’adozione) aveva avuto il suo, analogo, turning point, tre anni dopo il suo…

Dal mio romanzo Gocce di pioggia a Jericoacoara.
N.B. Il brano iniziale accompagnava il mio progetto al concorso d’architettura “La casa più bella del mondo”, esattamente trent’anni fa (un progetto “fantastico”, in puro stile postmoderno), inserito nel catalogo pubblicato dei progetti.


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