lunedì 26 ottobre 2020

ARKITEKTONICA

        

  ARKITEKTONICA

Blog multilivello e multitasking, Dal caos la stella danzante. Tuttavia, nei suoi primi anni, batteva principalmente le strade dell’Architettura, tanto da essere segnalato tra i migliori in circolazione.

Ed ecco, sul tema, due “passeggiate” nel mitico Gocce di pioggia a Jericoacoara (mitico nel senso che percorre il Mito, oltre che la Realtà, con qualche escursione nel fantasy e nel visionaire – e soprattutto, nel “mondo immaginale”, Corbin, Jung e Hillman permettendo…).

 

Erano arrivati alla villa alle undici di sera (l’orologio Cavalli di Arianna, quello dal cinturino rosso, lo confermava senza tema di smentita). Freschi, riposati, motivati (lei incuriosita, per niente spaventata: eppure, una cerimonia magica non era certo cosa di tutti i giorni). Il quartiere residenziale, mollemente adagiato su una leggera altura, ridondava di costruzioni di lusso, in stile moderno, prevalentemente ‘razionalista’. Solo qualche villa post-modern (in qualche caso, post-mortem) o dernier cri. Quella ‘deputata’, la location del surprise party, si stagliava piena di carisma, emergendo dalle onde di flora, fauna e cemento.

Il suo biancore (o meglio ancora: l’albeggiante luccicanza – questa l’espressione di Tomás, rubacchiata da chissà quale libro), messo ancor più in risalto dall’illuminazione grandangolare, e il suo quasi flottare e fluttuare nell’aria, tersa ma come carica di elettricità statica, la rendevano unica, degna del luogo. E di Niemeyer o di Reidy (che non ci fosse lo zampino di uno dei due? D’altronde, la escuela era quella). Forse risalente agli anni ‘60, con un che, pure, del primo Richard Meier (quello migliore, il più ‘stagionato’) e dei suoi epigoni californiani (e – perché no? – australiani. Harry Seidler era tra gl’ispiratori di Arianna: e il suo progetto per il concorso ‘americano’ ne aveva un po’ le stimmate). Insomma, non l’avrebbe certo colta di sorpresa vederla campeggiare su una di quelle riviste di architettura – Domus per dirne una – che bazzicava volentieri tra una lezione e l’altra, quand’era ancora una pischella all’università (in seguito sarebbe stata più incostante, e non solo in quello…).

Aveva appena finito di piovere. La camicetta, in crespo di seta con ruches, trasparente bianco lascito di Jericoacoara (e del galante Tomás, moro di Rio), lasciava passare, attraverso il finestrino abbassato, i residui ectoplasmi delle gocce che ancora si libravano nell’aria, rinfrescandole la pelle ogni giorno più vellutata.

Velvet underground. Profumo di vetiver. E di sandalo. L’atmosfera da saudade stava per lasciare il posto, e il segno, a una stimmung erotica, subsonica, arcana. Da scandalo (alla luna). Tutto lo faceva presagire. Ne pregustava le vibrations. Di colpo, l’ossimoro. Un sottile suono di silenzio... Strano, data la città.

Silenzio assordante, continuo, persistente; buio accecante, rischiarato all’improvviso da una luce diffusa, prima fioca poi sempre più vivida. L’atmosfera fiacca si vivacizzò. Stille di eros trasudavano dai pori della villa. Grande, superdimensionata, surreale. Distesa. Maya desnuda (o ‘denuda’? E poi c’è la ‘vestida’ …o ‘vestuda’?). Protesa verso di loro. Pronta a suggere. E ruggire. Senza (apparente) contesa. Attesa…

Gli spigoli retti che si alternavano alle curve, se da un lato li attraevano, dall’altro sembravano respingerli. Ma la forza d’attrazione alla fine prevalse (Eros versus Tanathos) e li fece quasi scontrare con il cancello (peraltro magneticamente chiuso). Eppure la magione aveva tutta l’aria di un focoso amante che l’attendeva a braccia aperte. Ma che si guardava discretamente attorno.

E lei complice, sospettosa, fremente. In attesa spasmodica. Con la leggera brezza che, dispettosa, continuava a scompigliarle la chioma fresca di sciampo, sempre più biondeggiante, ma anche le ciglia dell’anima, rutilante, subissata da fremiti di voglie e brame inconfessabili.

Titillata da timore e tremore, Arianna si guardò intorno. La notte incombeva. Si lasciò avviluppare dal suo mantello. E la chiamano estate…

 

“Un falso monumento architettonico (attività economiche private vestite in abito monumentale e ospitate in pilastri sepolcrali, totem ... e così via) è divenuto un autentico monumento commemorativo solo attraverso la sua distruzione. Tramite la sua dissoluzione corporea ha guadagnato l’anima (immortale) che fino ad ora gli mancava.” Questo il pensiero di Leon Krier, architetto contra (ma piace pure al principe Carlo). E Lorenzo lo condivideva. Lui era insieme emittente e ricevente (alla Barthes). E quel che contava non era tanto quello che voleva dire, quanto la ricezione da parte del destinatario.

Uccidi il mittente. Trova il mandante… Introduci in circuito idee ‘avvelenate’. Dice (sussurra e, più spesso, grida) Roberto Saviano, l’indomito scrittore contro (ogni ‘camarilla’): “Se devo scrivere devo farlo in emergenza, dove le bestemmie sono più sincere delle preghiere. E dove la realtà ha slabbrature maggiormente in grado di mostrare verità. (…) Molta scrittura invece sembra fare tarantelle intorno alle questioni centrali del nostro vivere. Tutto sommato non mi interessa far evadere il lettore. Mi interessa invaderlo. E mi interessa la letteratura più simile al morso di vipera che ad un acquerello di fantasie.”

Lorenzo voleva che il fruitore della sua architettura, la comunità, il semplice cittadino, ‘invaso’ (forse, invasato) da essa ‘evadesse’ dalla ‘gomorra’ quotidiana. Parafrasando Battisti (l’’emissario’ – che ai tempi dell’università aveva, stranamente, trascurato – ma era un ‘cult’ per Arianna: anche questo strano per una sinistrofila d’allora), Lorenzo voleva che lui e la gente andassero “ancora ancor più su planando sopra boschi di braccia tese.” Per poi scendere dalla ‘collina dei ciliegi’, con “un sorriso che non ha né più un volto né più un’età e respirando brezze che dilagano su terre senza limiti e confini.” Con le mani levate nel ‘canto libero’ e i piedi scalcianti alla Céline. 

Una nave ‘omerica’ finita in secca? Un moderno altare a Poseidone? Una casa del futuro – o del passato preistorico? Una casa surrealista? Una casa fascista? O un rifugio ‘tiberiano’? Da un mondo impazzito? È la casa del dandy e del burlone professionale, l’’arcitaliano’, come lo chiamavano gli amici – o del malinconico romantico tedesco celato sotto la maschera? La ‘pura’ casa di un asceta? O l’inquieto teatro privo di un insaziabile Casanova?… Le parole di Bruce Chatwin, il ‘viaggiatore’, rullanti su Casa Malaparte, ben si attagliavano a Lorenzo e al suo building. Lorenzo come Curzio (o Kurt?)… Quel Malaparte (‘malacarne’) che già aveva indicato in Mussolini “un restauratore dell’autorità, della fede, del dogma, dell’eroismo, contro lo spirito critico, scettico, razionalista e illuminista dell’Occidente.” Casa vorticista, la casa caprese di quel grand’esteta del Curzio (e della gaia Capri di Krupp e armerie omo-amatoriali varie): fascista, archeofuturista, vulcanica (vulcanista?), ossimorica…

L’imagismo e il verticismo, un vortice di stili e passioni in cui si fondevano astrattismo fotografico, futurismo, neo-orfismo e cubismo. Per poi ricomporsi e di nuovo liquefarsi in fluidità e prospettive multiple, alla Bernard Tschumi e alla Zaha Hadid. Proprio come, virtualmente (e talvolta concretamente), in Lorenzo (altalenante, in architettura – e non solo –, tra l’’albino’ Terragni e gli ipercolorati Arquitectonica, quelli del complesso The Atlantis di Miami-vice. Ma con un occhio, ipermetrope, al gruppo SITE, con le loro facciate frastagliate, scollate e scollacciate).

Sempre lui, incollato ai margini del pensare corrente, sempre borderline negl’intenti, spesso allineato nei fatti. Oltre il ‘fenomeno’ – tutto ciò che è labile e caduco –, in marcia verso il ‘fenomenale’ (tutto ciò che è oltre – ma anche l’effimero poteva andar bene…). E con quella sua ambigua, eclettica, eccentrica fascinazione verso il fascismo, da filosofo postmoderno (almeno secondo Richard Wolin). Simbolo ed emozione che si congiungono, forma e materia tutte d’un plesso (solare): ecco che l’archetipo stava per partorire il gigante (dopo il topolino). Una tensione olimpica verso la creazione di un universo artistico (senza nani e ballerine – senz’offesa per entrambi). Cosmo sì, ma con un po’ di caos (la ‘stella danzante’ nicciana). Libertà dionisiaca e fulgore apollineo. A proposito, che tipo Adalberto Libera, l’architetto di Casa Malaparte!

Lorenzo aveva conosciuto – sulla carta – Adalberto Libera (e Ignazio Gardella, il progettista del ‘suo’ residence in quel di Pugnochiuso) tramite John Hejduk, l’architetto-critico che guardava all’architettura con gli occhi del fanciullo (e la sua Bye House, monella olandese era lì a testimoniarlo). Il quale, riferendosi all’esperienza americana d’isolamento e frammentazione, sosteneva che, se l’architettura e lo spazio urbano in Europa sono sempre stati connessi, il ‘fenomeno americano’ era, invece, il prodotto del dividersi dell’unità, del suo trasformarsi in oggetti, del suo frammentarsi (eppure, sono Stati Uniti…).

In questo Lorenzo era diverso: più che di cose si occupava di razionalità (ma con fantasia, ai limiti dell’iperbole). E, ovviamente, di case (anche di interni – ma qui Arianna era più addentrata). In lui, come in Hejduk, c’erano il ‘rito’ e la maschera, l’eclettico collage di motivi letterari e metafisici, il teatro dell’assurdo e l’esistenzialismo, il nouveau roman di Robbe-Grillet e le liriche di Rilke (e Stefan George, perché no?), il surrealismo e il dadà. Kafka e Calvino, la scolastica medievale, la mistica renana, Lutero e Böhme.

Questo il suo nudo pasto quotidiano (anche Stirner, anarchici e individualisti vari). Starter, primo e secondo. E l’architettura come frutto della passione…

Nuove Sintesi o Nuove Organicità. Antichi sapori.

 


 

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