mercoledì 30 marzo 2011

SAVE THE LAST DANCE


SAVE THE LAST DANCE


Danza macabra. Quella di questi giorni. (A proposito, sapete che ‘danza macabra’ significa danza del becchino, o danza dei Maccabei, in ricordo degli eroi ebrei martirizzati da Antioco di Siria?). Macabri e maccabei…
Stelle danzanti partorite dal caos? Fosse così… Sì, siamo in ballo ma imballati. Siamo al palo, ma ‘incollati’ sopra, neanche abbarbicati o serpicanti a mo’ di DNA o di ‘Ouroboros’, il serpens qui caudam devorat. Il tempo, la tigre che divora, ci sta mangiando: c’è rimasto poco tempo, a meno che…
Non ci sono più le lap-dance di una volta! Nostalgia del Berluska (quand’era ‘ska’, ora si limita a scalpitare o a scotennare) e delle ‘olgettine’? No, sempre più voglia di un ritorno al Nuovo, a una novità di vita che si scrolli di dosso tutte le banalità e i qualunquismi che ci riversano (o ci versiamo) quotidianamente addosso. Ma è possibile che la massa debba stare rintronoglita davanti a tivvù e discorsi alla Ecce Bombo?: Che famo? Che mangiamo? Che telefonamo? (a dire il vero il Michele del film morettiano era molto più interessante e propositivo: Ma tu, concretamente, che cosa fai? ...Come campi?» E la lei del momento: «Giro... vedo gente... mi muovo... conosco... faccio cose...»).
E famolo pure noi! Torniamo al muoverci, al conoscere, al vedere gente, al fare cose! Oppure, per volare più alto (basta coi polli in batteria), va bene pure un discorso da Gocce di pioggia a Jericoacoara:
«Pensi che l’amore sia uno svago? Nient’affatto, esso è un compito, e il più rude di tutti.» Sulla citazione da Emmanuelle, declamata a voce stentorea, quasi fosse un ordine, Gaia prese la bottiglia e la ributtò in mare.
«Getta via il contenitore, perché appartiene al passato remoto, quella parte del tuo vissuto che la corrente del presente deve portare al largo, lontano dal tuo futuro. Ma trattieni il foglio: è il tuo passato prossimo, quello che ha dato il via al tuo presente e al tuo futuro anteriore, anzi al tuo infinito. Non è un condizionale, è un imperativo!»
Bene. È un imperativo. Futuro, anzi, presente. Danziamo. Save the last dance ...and go with the next dance. Take a second chance!
Apro le danze, vi do un paio di spunti (il primo dal mio romanzo citato, il secondo da quello in progress). Meditate, non tanto sullo stralcio di trama, ma sulle parole, sui suoni, sulle sensazioni. Fatevi avvolgere dalla stimmung, fatevi penetrare dai rami… L’albero m’è penetrato nelle mani, la sua linfa m’è ascesa nelle braccia. L’albero m’è cresciuto nel seno profondo, i rami spuntano da me come braccia.” (Ezra Pound).
E poi cercatene, se c’è, la bellezza. Altrimenti, da una goccia di profumo risalite (o scendete) alla sua ‘essenza’: “Ricerco la gloria non il successo. Ricerco la bellezza, non la ricchezza. Ricerco la verità, non la menzogna. Io non scrivo libri per intrattenere i passanti, oppure me stessa, io scrivo perché ho una missione, sfondare porte.” (Isabella Santacroce).
Ok, partiamo, sfondiamo porte!

E gira tutt’intorno la stanza mentre si danza…
     Arianna si svegliò come toccata dall’ala di un angelo. Si guardò intorno: era sola. Ma non solitaria. C’era presenza di vita. Autentica. Julim era nel bagno: sentiva chiaramente lo scroscio dell’acqua della doccia sulla sua pelle bronzea (pendant di quella di Tomás: ma per lei, ora, l’epidermide del gringo, qualche giorno prima così calamitante, e così calmante per i suoi bollori da donna caliente, era fredda. Untuosa al tatto, repellente al solo ricordo).
     Aveva dormito da sola, ma l’angelo (quello in carne e ossa, ben poco vegetale eppur verginale), toltesi le ali, e ripiegatele con cura sotto il cuscino, era rimasto alla fonda nella camera attigua. Nondimeno, si era ritrovata con una candida piuma addosso. Palombella rossa? Paloma? Palombaro? Pesce palombo? Unica certezza: la canzone di Battiato che, come un derviscio rotante, le girava nella testa.
     Il grosso pesce reticolare stilizzato, memore del fish di Alexander Calder – quello delle sculture mobiles – e delle pitture murali dei primi cristiani, dondolava appeso al soffitto, sospinto da ali invisibili (e dall’arietta che si faceva largo attraverso la finestra socchiusa). I ricordi di Jericoacoara si confondevano con le memorie giovanili, i sogni a occhi aperti duellavano con gl’incubi notturni, senza renderla succube. Si sentiva libera, riscattata. Accettata. La verità l’aveva resa libera, redenta. L’Hotel California aveva lasciato il posto a Vila Paraiso.
     Il getto d’acqua tiepida cominciò a distribuirsi generosamente ed equamente su dossi e curve. Scivolò, quindi, fin nelle cunette, non disdegnando le superfici piane (poche) e le valli fiorite. Toccò poi il fondo rugoso, deviando all’improvviso verso l’omphalos, per scomparire infine negli abissi. Acqua a fiotti, frettolosa, per masse fluttuanti. Acqua nei fiordi. Per Fiordaliso.
     Le pareti translucide, sia pur riottose, non poterono evitare il contatto bagnato che ne imperlava la superficie interna. E lo scontato scontro con le masse oscillanti. Anzi, queste parevano godere della situazione. E per ricambiare la cortesia, furono ben liete di fornire un esile ma volenteroso sostegno ai volumi dinamizzati. Diritti, flessi, combacianti, intricati. Il segreto e l’ignoto. Spazzolati. Cento colpi. Uno più, uno meno. Corpi scolpiti. Ben torniti. Vincolati, slegati, vincenti. Persi, costretti nel piccolo ambito, ma incuranti del contorno. Vibranti oltre i limiti di sicurezza (e della decenza). Bastevoli a se stessi, ma in procinto di tracimare.
     Silenzio prima di uscire, silenzio prima di entrare. In mezzo, una cascata di suoni. Il contatto delle masse e delle superfici, il fluire e il rifluire dell’acqua corrente, il perlage, l’aria vintage, il parlottio sincopato, quasi dopato. Forse metalinguistico. Tutto parlava. Tutto taceva nell’infittirsi dei suoni. E dei movimenti. Iniziali, al climax, finali. E al calare del sipario, ecco subentrare l’uscita trionfante dalla cabina della doccia e l’ingresso sottotono negli accappatoi impazienti…

Altro giro, altra corsa, altra danza (alla Billy Elliot o, meglio, alla Thomas Eliot: Giro attorno a Dio, alla torre antica dell'inizio, le giro attorno da migliaia di anni: e ancora non so: sono un falco, o una tempesta...)

     «“I Vangeli e il Manifesto del partito comunista sbiadiscono; il futuro del mondo appartiene alla Coca-Cola e alla pornografia.”» Basta Gómez Dávila a chiudere il sermone di Diana (e a spegnere la luce sulla sarabanda dei miei pensieri). Meglio passare ad altro. La notte è lunga. L’oceano notturno si è ormai contratto in un’anoressica pozzanghera… V’intingo la mia plume mentale, strappata all’uccello nottaiolo… Because the night belongs to lovers, because the night belongs to lust, because the night belongs to us…
     Tonight will be fine. Di domani non v’è certezza. “Eravamo lì uno davanti all’altro, Tyler a massaggiarsi il collo e io a tenermi una mano sul petto, tutti e due coscienti di essere finiti in un posto dove non eravamo mai stati e, come il gatto e il topo nei disegni animati, eravamo ancora vivi e volevamo sapere fin dove saremmo potuti arrivare restando vivi.” Fiuto l’aria, le vibrazione del mio tempo, ne assaporo voluttuosamente le gocce di pioggia, danzando nudo come il folle Nietzsche all’ombra della Mole (e delle Molinette). “Io giro intorno a Dio, intorno all’antica torre – e giro per millenni – e ancora non so se sono un falco, una tempesta o un lungo canto.” Girare intorno a Dio, girare per millenni, e non curarsi di nient’altro. Giocare con le stelle… Sto cominciando a farlo con assiduità. Prima per aspera ad astra, ora astra ad libitum. Freie liebe! E Frei? Lui aveva partorito la stella danzante: «...di tutte le conoscenze che ho fatto, una delle più preziose e feconde è quella con Lou. Soltanto dopo averla frequentata sono stato maturo per il mio Zarathustra.»
     E anch’io sono maturo per il Progetto. È una sorpresa (almeno per me, ma anche gli altri erano ancora ai preliminari). Diana lo spacchetta, lo srotola, lo dipana, ce lo spalma addosso: «“Quando Tyler ha inventato il Progetto Caos, Tyler ha spiegato che lo scopo del Progetto Caos non aveva niente a che fare con il prossimo. A Tyler non importava se qualcun altro si faceva male o no. Lo scopo era far prendere coscienza a ciascun partecipante al progetto del potere che ha di controllare la storia. Noi, ciascuno di noi, possiamo assumere il controllo del mondo. È stato al fight club che Tyler ha inventato il Progetto Caos.”»      
     Niente è statico. Tutto va a pezzi. Evitiamo di cospargerci il capo di cenere: siamo troppo ebbri. E non voglio nemmeno dormire. “Per anni ho desiderato addormentarmi. Quella parte dell’addormentarsi che è spegnersi, rinuncia, disfacimento. Ora dormire è l’ultima cosa che voglio.” Sono in pieno  caos. Meglio… vuol dire che il parto (della stella) è ormai vicino. E io che credevo di essere sterile… Posso partire (anche senza bagagli – l’attrezzatura ce l’ho addosso). Passion flower.
     «“Non è la sensualità che allontana da Dio, ma l’astrazione.” – “La vera sensualità è brama d’eternità per il suo oggetto.”» (È vero! Un mio amico d’università una volta mi disse: Più mi sento spirituale più la mia carne urla…) «“Tutto scricchiola nel cuore degli altri uomini quando uno di loro si fa avanti di due passi, si stacca dalla fila e così foggia intorno a sé una barriera invarcabile di rispetto.”» È un continuo autocitarsi ed eterocitarsi (il che la eccita, ma anche noi siamo in piena ovazione). Riconosco l’ultima: è Jean Cau. Quello del Che. Fidel! E pensare che tutto è iniziato con: «Ma tu credi a Nietzsche?»
     Tutti noi siamo membra del Fight Club number seven. Tutta gente desiderosa di dare la vita per qualcosa.

lunedì 21 marzo 2011

GOCCE DI PIOGGIA A JERICOACOARA

 GOCCE DI PIOGGIA A JERICOACOARA


«Ma quanto sei strana!»
Il bronzeo addetto alla piscina irruppe da chissà quale anfratto, fiondandosi tra le sdraio e gli ombrelloni strapazzati dalla pioggia con la sfrontatezza di chi vuol battere sul tempo un sole paonazzo e pieno di voglie tanto improvvise quanto prevedibili. Poi il bay-watch prestato alla terraferma cambiò di colpo marcia e, ciondolando – caracollando – tra le pozzanghere, guadagnò il bordo-vasca col piglio di chi getta l’amo per adescare uno squalo.
L’occhio umido (non solo di pioggia) prese a dardeggiare il fluttuante contorno sinuoso che dava un senso all’asettico rettangolo d’acqua, col fermo proposito di colpire il bersaglio mobile al primo colpo.
«Solo la pioggia o la luna riescono a fare il miracolo. Solo loro riescono a farti tuffare...»
Offuscando le parole-esca e mettendo a tacere gli ultimi vagiti meteo, il sorriso (invocato) di lei fece capolino tra le increspature e il cloro, complice e promettente. Nessun indizio, niente che facesse preludere all’epilogo politicamente scorretto. Non la gimcana di labbra sulla pelle che il bagnino aveva messo in conto tra i sogni nel cassetto (insieme a qualche tuffo con la bella naiade), ma solo una risposta da brivido blu:
«Ho il cuore pieno di ceneri e di scorza di limone. Andrò solo dentro me stessa. Mi troverai sempre là...»
Scagliato il dardo al curaro sul san Sebastiano di turno (il bagnino), paga dell’effetto sorpresa, la bionda ondina riguadagnò il bordo-piscina. Salì come da videoclip la scaletta cromata, schioccò un solare ‘ciao!’ da trailer al gallo cedrone dall’ala spezzata e, sfioratane l’epidermide bronzea (di colpo sbiancata), gli lasciò – sapore di sale – il chimerico assaggio di quel suo tatuaggio sfarfalleggiante sulla pelle bagnata.
Gaia era fatta così: non solo tattoo ma anche taboo. Una vita esaltata da brevi ma intensi deliri, la magia di lunghi silenzi bruscamente interrotti da taglienti ossimori, paradossi, voli pindarici, esternazioni frappant. E se qualcuno (non pochi) sostava, rapito, davanti a quest’opera d’arte (e non da tre soldi...) – un taglio di Fontana sulla tela bianca della vita – veniva immancabilmente colpito da un’inattesa sindrome di Stendhal. 
Gaia o dell’avventura dell’esistenza, un ossimoro vivente più che un paradosso. Tutto questo si sarebbe potuto dire – a posteriori – di Gaia (anche il nome). Ma ormai il fugace biondo oggetto del desiderio era fuori campo e a Lorenzo – il terzo silenzioso incomodo (convitato di pietra, nel vero senso del termine) – non rimase che rituffarsi nelle pagine appena lambite da una di quelle piogge lampo settembrine che il Gargano riservava ai suoi ultimi ospiti.
Il turbine (anche sensoriale) era ormai passato, senza lasciare – così il buon Lorenzo pensava – tracce: lui di Gaia conosceva – e gl’importava – solo la Scienza…

Bene, questo è l’incipit del mio primo romanzo – che peraltro precede, come (immacolata) concezione – i miei due saggi sulla PNL Prendi la PNL con Spirito! e Che cos'è la PNL.  Romanzo che, senza parto cesareo…, è appena nato e che sarà battezzato il primo aprile (anche se non credo nel ‘battesimo degli infanti’ – il pedobattesimo. Ma la mia creatura è nata già adulta…). Ed è nata sotto i migliori auspici. Quando stavo già sul punto di abortirla (non perché non la volessi, anzi… Solo che non aveva madre), ecco che una scrittrice ed editor piuttosto nota (e controversa – più caustica di uno Sgarbi in pieno Fuksas) mi e-maila (pardon per la mela marcia, ma mi piace il ‘verme’):
“Straordinario romanzo-rapsodia, fervido di vita e voci, di ritmi e canti e risa, dal profumo di ingenue aurore…” (così la sua prima lettrice, colta, di lingua tagliente né dolce di sale). Dallo stile (e stiletto) unico, affilato e morbido insieme: vorticoso nel suo ritmo da derviscio tournant, vibrante di tensione e trepidazione, ossimorico nei suoi dolci contrasti, dalla “scrittura vivace, geniale, estetizzante, ma tutt'altro che décadent, capace di affratellare Policleto e i Beatles. Un ‘panta rei’ entusiastico ed entusiasmante, un fluire di sapienze ed eresie (anche la ‘rifondazione’ della Chiesa Cattolica!), dall'oscillare inarrestabile, ebbro … una scrittura da giocoliere della parola e da funambolo della nuance.”
Sì, voci e silenzi, sussurri e grida. Un romanzo ‘ebbro’, invasato. D’altronde, per dirla con Nicolás Gómez Dávila: un libro che non abbia Dio, o l’assenza di Dio, come protagonista clandestino, è privo d'interesse.
La trama? Da tremare… anche remare – bassa marea: la baia danzante di una Pugnochiuso non ancora stile Bollywood, le spiagge infinite di Copacabana e Jericoacoara… Alta marea: la Manhattan ancora fumante da “Diavolo veste Prada”. Tutte legate da un filo rosso che tiene uniti passione, avventura e mistero. Un nastro sottile che, a ogni istante, rischia di essere tranciato dal filo tagliente degli eventi, ma che poi, magicamente, continua a riavvolgersi nello ‘spin’ del tempo: il ’68 dell’immaginazione al potere e del “fou rire”, gli anni ’80 dell’Italia da bere, Nietzsche e Marx che parlano insieme al bar, Beyoncé, Rhianna, Il Papa seduto al piano… Fino all’imprevedibile esito finale. Nulla si fanno mancare Lorenzo, Gaia, Arianna, Tomás, Julim, l’inquietante Galatea… Un viaggio al termine della notte, lì dove sono le sorgenti dell’alba. Notte fonda a Jericoacoara, bagliori di luce nella Grande Mela: una galassia di “particelle elementari” filanti senza direzione e senso, staccatesi da quel magma incandescente che è la vita. Ma che poi, tra Taranto, Roma e Firenze, “terza stella a destra”, cominciano a puntare dritte verso il traguardo…
Uno squarcio sulla cortina che separa il mondo reale da quello del ‘sogno’. Uno sfarfalleggiante battito d’ali che può, di tattoo in sweetest taboo, prevedibilmente trasformarsi in un concerto polifonico dagli esiti non ancora immaginabili.
Stop. Troppa carne a cuocere. Passiamo ora al dessert. Con champagne. Del resto Dalila/Orlane è spesso ospite di questo tripudio dei sensi (letterari – e oltre: il settimo senso, la settima sefira: Netzach: la Vittoria).

By Nicola Perchiazzi (moi)

 

Siamo solo noi 
  
                                                  Passano le età, e tu continui a versare, e ancora c'è spazio da riempire.
(Tagore)

Una stanza, una pipa, un’agenda e tre cervelli. L’indolenza di un venerdì-domenica. È il centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia e noi, tra il tabacco alla liquirizia e “L’aurora” di Mosole, ci ritroviamo a parlare di Tutto. No, non siamo cazzeggioni in procinto di esplicitare sommamente qualunquismo ideologico o perbenismo cittadino, solo cazzeggioni che si interrogano sull’essenza dell’Universo. Sul senso-non senso dell’esistenza, sulla molteplicità degli stati dell'essere e sulle innumerevoli vite nel cosmo. Non abbiamo neanche bevuto. No, nessuna canna. Sarà il tabacco speziato o l’odore di umido misto al miasma nicotinico, sarà il contrasto del sole all’esterno e del semibuio all’interno della stanza, ma è esplosa, così – senza consapevolezza iniziale alcuna – la disquisizione più illuminante degli ultimi … 150 anni (e va bé, ci toccava citarli).
Almeno, per noi. D’altronde, poi, dopo la pasta al ragù e gli involtini al sugo e un caffè sul lungomare, cosa avremmo mai potuto pensare di fare? Un giretto per negozi? Chiusi. Una partita alla Play? Già fatta. Una passeggiata in litoranea? Delirio. Ebbene no, abbiamo preferito parlare del perché esistiamo, del motivo per il quale, molto spesso, ci ritroviamo proprio dinanzi alle situazioni che più di tutte ci spaventano. E allora la domanda, quasi sempre, è “perché proprio a me?”, magari alzando gli occhi al cielo, in cerca di qualche risposta chiarificatrice.
“Perché siamo noi a sceglierlo” dice uno dei tre e, vi assicuro, non sono stata io. So cosa state pensando, il solito discorso da quattro soldi del “se vuoi, puoi”. Ma non è così, altrimenti saremmo andati a fare un giro in litoranea, no?!
“Noi scegliamo la nostra vita”. Non vuol dire semplicemente, banalmente e unicamente “homo faber fortunae suae”, ma che noi nasciamo e moriamo un’infinità di volte e, ad ogni rinascita, scegliamo chi essere.
Per questo, molto spesso, sembra che siano proprio le cose di cui abbiamo più paura a manifestarsi, oppure ci ritroviamo in situazioni che mai avremmo considerato possibili o realizzabili. Senza considerare un principio naturale, cosmico, totale e assoluto per il quale tutto quello che fai, in qualche modo, ti ritornerà. Siamo alle solite: no, nessun detto popolare. Sì, lo so che ricorda tanto “ciò che semini raccogli”, ma il senso è un tantino più ampio.
“Perdiamo la memoria umana e acquistiamo la memoria cosmica”, sicché, quando ci troviamo al cospetto di Dio, dell’Uno, del Tutto, scegliamo di diventare – nella vita che verrà – un prete, un mascalzone, un traditore o un marinaio.
Avete mai avuto la sensazione di essere naturalmente bravi in qualche attività o disciplina, pur senza averla mai praticata? Oppure che una persona appena conosciuta vi sia stranamente familiare?
La pipa, il fumo, il sole al di fuori, gli occhi negli occhi, l’Unità d’Italia, il senso del senso, il Mondo, l’uomo,l’Uomo, Dio, noi, noi, Dio, l’Universo. Facciamo parte di tutto questo, siamo gocce divine che si stagliano sempre, quotidianamente, tra il cielo e la terra, nella naturale ed innata bontà della Vita. Che è tutto. Che è bella.
Dalila Micaglio


martedì 8 marzo 2011

OTTO MARZO. FLY… FEMME FATALE


FLY… FEMME FATALE

Vola donna vola… via il velo: il fato è con te! Ovviamente, non: via i veli. Di bunga bunga ne abbiamo ormai fin sopra i capelli. Via il velo, semmai. Con tutto il rispetto per l’Islam che, almeno quello di Rabia e Rumi, del velo sa e può farne tranquillamente a meno, senza per questo tradire il pensiero originario di Muhammad.
Donna: l’infinito svelato. E che l’otto e il tre (marzo) siano, rispettivamente, segni (e tracce) d’infinito è senz’altro emblematico.
Fire! Fire! Fire! Bessie la russa, Peppina e Concetta le italiane, Fannie l’ucraina. Sono solo alcune delle centoventinove ragazze morte nel rogo della camiceria Triangle Shirtwaist a New York. Era il 25 marzo 1911 (certo che il 9 e l’11 si ripetono un po’ troppo spesso nella Grande Mela – sarà il verme?). Sì, centoventinove donne fatali: queste sì femmes fatales. E pensare che, se maschio significherebbe ‘maiuscolo’, ‘foemina’ varrebbe ‘minuscola’; più precisamente: fede minima (fides minus). Semmai, fidei munus (dono della fede). E poi le donne non hanno fede, hanno certezze…
E a proposito di donne, non posso che passare il flabello (quello di Margherita Porete, la mistica. Ma il suo, come in ogni donna, è un flagello – nel senso di frusta, per flagellare, non tanto il pensiero debole, quanto i deboli di pensiero. “Siate caldi oppure freddi: ma i tiepidi li vomiterò nella Geenna.”) alla mia amica Dalila (la Orlane di qualche mio vecchio post). Non prima, però, di avervi soffiato un mio breve pensiero ‘femmineo’ – nel senso di passionale, galvanizzante, velvetizzante…

UBI FOEMINA-MAIOR MINUS-MACHO CESSAT

Pesanti gocce d’ardore e afrore sfiorarono le ardue tempie, rotolando, doce doce, sulle guance. Le dita, guadando sui rivi affioranti su ogni lembo di pelle, guadagnavano posizioni sulla terraferma (e sui corpi in movimento), tracciando segnature e marcando territori. Mischiati, uniti, complici: la spada di lui affilata, di nuovo nella guaina dopo volteggi solo aerei; lei, la foemina: lancia in resta.
La terra bruciava. Il vomere ricominciava a tracciare solchi, il terreno franava sotto i loro piedi. Sorgeva il sole invitto e la luna, sconfitta, impallidiva. Di nuovo albeggiava, dopo il tramonto, l’effimero, l’ossimoro con la esse blesa e la ‘o’ blasé. Nessun freno, nessuna remora, nessuna esitazione: il treno del desiderio si lanciò a fari spenti nella prima galleria.
L’universo fisico si fermò. Ma non il flusso erotico, anche eretico, in piena risorgiva, né lo slancio – élan vital – del furor fanico (fanatico e sexy: anche qui l’ossimoro sacro-profano non fa una piega). Il monte (di Venere) franò, preso dal panico. Prima brividi a briciole, poi tremiti a valanga: la passione prese a correre nuda sopra (e sotto) i corpi, scavalcando ogni ostacolo, scivolandoci sotto (e sopra). Come sopra così sotto. Anche dietro (l’angolo). Ma sempre in avanscoperta (e sottocoperta).
L’albero m’è penetrato nelle mani, la sua linfa m’è ascesa nelle braccia. L’albero m’è cresciuto nel seno profondo, i rami spuntano da me come braccia.” Sorrisi, gocce, origami. I rivi si fecero torrenti, poi fiumi, infine laghi, ma sempre tempestosi. Alla Ezra Pound. Cime tempestose, valli fiorite. Eros gentile. Fior da fiore, le sinapsi del circuito dell’Eros (esisteranno pure?) si moltiplicavano indefinitamente, creando nuovi circuiti primari e secondari, by-pass e collegamenti volanti. Senza rispettare regole e norme: a rischio di black-out.
Pensiero stupendo. Nasce un poco strisciando. Si potrebbe trattare di bisogno d’amore. Meglio non dire… La stanza s’illuminò di botto: tante lucciole (vere o virtuali) avevano invaso l’ambiente, sia pur chiuso, moltiplicando i lux. In un fiat. Una voce sottile, quasi di silenzio, lambiva le pareti. Come paracadutata dal cielo. Le carezzava, vellicava, titillava, permeandole e spremendo bolle e bollicine, togliendo i punti neri e disincagliando pori occlusi da troppo tempo, per poi affacciarsi timidamente nella camera e fondersi, ossimoricamente, coi fiati di lui e di lei.
“Questi amanti incorporei s’incontrarono, un cielo nello sguardo, cielo dei cieli a ognuno il privilegio di contemplare gli occhi dell’altro.” Prima Ivan Segreto, poi Kazu Matsui, ora Mark Almond a farli veleggiare sulla spuma del suo Cruising. E i versi della Dickinson, onde sempre più spumose, ma vieppiù dolci, nu babà…
“Vi furono mai Nozze come queste? Un Paradiso li ospitava. E Cherubini e Serafini furono i rispettosi invitati.” La costa era vicina. Il suono delle sirene del porto (delle nebbie) li invitava ad approdare. Le vele ammainate, i remi in barca, i sensi nella stiva. Ma il canto di altre sirene, flautato, dolce, invitante, ludico, innocentemente lubrico, iniziò a pervadere la stanza.
E tu ancora. E noi ancora. E le donne: sempre.

The show (lo slow) must go on. Dopo la mia esternazione, passiamo a quella, dura (non sempre le donne sono sofà), di Dalila/Orlane. È riferita a un fatto locale, ma la portata (una bella ‘insalatona’) è per tutti.

TARANTO, DIOSSINA E DERIVATI

Si pensa come si vive. (Demostene)
Saranno state le pappardelle agli scampi scampati alla pattumiera. Saranno state le bollicine rincarate del malvasia o l’atmosfera retrò delle sedie in simil legno. Ma, scomodamente, irriverentemente, ermeneuticamente, è nata. La teorizzazione meta-empirica sui fondamenti del comportamento umano tipico degli abitanti del sud e, perché no, dei tarantini. Un’afflizione lamentosa e continua, costantemente presente ed un senso di insoddisfazione permanente. Senso di insoddisfazione che mai si placherebbe, quand’anche al posto dell’Ilva ci fosse una distesa verdeggiante, quand’anche nelle università ci fossero i termosifoni d’inverno e l’aria condizionata d’estate, quand’anche possedessimo tutti il famigerato “posso fisso” (il “posto fisso”: entità esterna e oggettuale anelata, ricercata, posseduta e custodita gelosamente per accendere un bel mutuo – sempre in accordo con i suoceri, però, perché “ci deve essere lo spazio per i bambini e per gli ospiti”). “Che” poi, questi ospiti, non li ho mai visti in vita mia, senza contare che mia nonna non ci faceva sedere neanche sui divani, “ per non sporcarli”.
Io, ne ho viste di cose che voi umani, non potreste immaginarvi:
...piagnistei continui, mancanza di lavoro, oppressione dei genitori, mancanza di stimoli, Ilva di merda, mal di testa, mal di pancia. Ginocchio della lavandaia. Mal di vivere. E basta! Accade quello che noi vogliamo far accadere. Non me ne voglia il buon Demostene, ma più che si pensa come si vive”, la formula corretta sarebbe “si vive come si pensa”. La mente ha un potere eccezionale. A Taranto e dintorni, eccezionale negativamente.
gente arrovellarsi in relazioni amorose che di amoroso avevano solo il nome, dinamiche masochistiche e “coazioni a ripetere” infinite. Ho visto donne ingravidate dallo stesso boia scelto accuratamente con cura da mamma e papà, giocare al bingo gli assegni familiari per la frustrazione. Ho visto uomini assoggettati a mogli-mamme portare le paste la domenica mattina a casa dei suoceri, ho visto mariti fumare sigari di nascosto nelle bische di quartiere. Ma la cosa più triste è che ho visto ragazzi e ragazze lamentarsi dell’oppressione di questo posto, dell’eccessiva presenza dei genitori (ed i genitori lamentarsi di noi figli-bamboccioni”grazie Schioppa), dell’assenza di stimoli, della diossina, della disoccupazione, dell’amianto, della mentalità chiusa, dei morti di tumore, delle discoteche tutte uguali.
Una volta una persona mi disse “se non risolvi il problema, è perché quel problema ti crea un vantaggio”. Ed io gli risi in faccia. Oggi capisco e dico, vi dico, mi dico che i due mari, nel loro costante e mortale abbraccio, ci fanno sentire al sicuro in qualche modo, ci offrono la possibilità di lamentarci senza trovare il modo di alzare il culo dalla sedia e prendere il volo. Taranto, mamma, papà, figli, disoccupazione, amore, odio, ciclo, fumo, diossina, cielo, mare, cibo, litoranea, discotutteuguali, mutuo, suoceri, mal di testa, cane e giardino. Sindrome di Stoccolma.
Siamo tutti innamorati del nostro boia.