sabato 31 ottobre 2020

INCIPIT (SECONDA PARTE)

INCIPIT

(SECONDA PARTE)

Ieri la prima parte, oggi la seconda. Gocce, piogge, acquazzoni, di parole: fluide, solide, eteree… (sempre dal primo capitolo di Gocce di pioggia a Jericoacoara).

     Sì, la frase... Un lampo tra gli emisferi cerebrali (il fulmine lampeggiante della creazione: Madonna… come gli piaceva questa frase puro stile Qabbalah!) e l’appartamento vuoto s’illuminò, riempiendosi di presenza.

     Lorenzo era rientrato da pochi minuti nel residence – così sprofondato nei suoi pensieri da lasciare intonse le persiane, malgrado il saloncino-cucinino reclamasse impaziente un po’ di luce – ed eccolo, all’improvviso, assalito, quasi scaraventato a terra, dalla certezza di poter trovare la fonte delle arcane parole della ragazza. E di quella sua stimmung così intrigante, di quell’atmosfera così rarefatta. Ma che radeva il suolo.  

     Atterrato, non senza qualche scossone, sul letto, iniziò, guidato da mano invisibile (e dalla provvidenziale lampada sul comodino), a scartabellare fremente i libri (non c’erano solo Panikkar e Maslow, anema e core) che accompagnavano pazienti le sue ore monastiche nel villaggio-vacanza – Lorenzo si trovava da solo, né era in cerca di compagnia –, puntando infine diritto su un libricino nero, un po’ sgualcito e dall’aria démodé.

     Si soffermò ancora una volta – era da trent’anni che lo faceva – sulla copertina ‘vissuta’, retrò nel design ma dal messaggio ancora attuale. La scritta – La politica dell’esperienza – campeggiava in giallo su un fondo nero costellato da immagini smozzicate: mani, braccia, gambe, piedi, un occhio, un orecchio, un ventre... (l’assemblaggio, seppur sessantottino, occhieggiava a Hieronymus Bosch). E poi, scorrendo all’impazzata la densa copertina, quasi come sottotitolo: “Esiste per caso qualcosa come un uomo normale? Imparate a conoscere la vostra pazzia, le vostre nevrosi, e le camicie di forza che la società v’impone!”

     E non era finito… Ancora: “Noi che siamo ancora vivi per metà e abitiamo nel cuore alterato di un capitalismo decrepito, possiamo fare di meglio che riflettere lo sfacelo che è fuori e dentro di noi, e che cantare le nostre tristi canzoni di sconfitta?” 

     Ne era ormai certo (lo sentiva nello spirito, la ‘cantaride’ dell’anima): lo sconosciuto oggetto del desiderio non poteva aver attinto che dal libretto underground di Ronald D. Laing – strizzacervelli fuori rotta – che portava sempre con sé, quasi un Così parlò Zarathustra da viaggio (per lo spirito, e non solo, ci pensava la Bibbia pocket); ma anche, più prosaicamente, un vademecum di frasi a effetto da snocciolare in circoli radical-chic e dintorni (Lorenzo era un po’ à la page un po’ vintage, mai retrò).

     E così, dopo un attimo di sospensione, un tentativo di retromarcia, scavalcate le prime pagine del ‘breviario’, che conosceva ormai a memoria, imboccò a tavoletta la scorciatoia verso l’epilogo, lì dove i dialoghi da épater le bourgeois si facevano più frequenti e intensi. Tra un “Cristo mi perdona se Lo crocifiggo?” e “nel mio vagabondare d’un tratto m’imbattei in una delle mie molte fanciullezze conservate nell’oblio, per questo momento in cui più ce n’era bisogno”, finalmente si scontrò, a pagina 188, con la frase fatidica. Crash, ecco dove l’aveva scovata, la scippatrice radical-chic!

 

     Fatta chiarezza dentro di sé, momentaneamente soddisfatto, rabbonito, placato, Lorenzo si sentì blandire dalla voglia di abbandonare il campo di battaglia e andarsene in giro per il villaggio. Il luogo meritava, la carne reclamava, lo spirito scalpitava. Aveva smesso di piovere da un paio d’ore: lame di luce tagliavano, tra i residui delle pozzanghere, le aree pavimentate sottostanti alla terrazza, sfrigolii e luccichii s’insinuavano tra l’erba bagnata.

     Affacciatosi con aria imbambolata – aveva finalmente aperto le persiane –, intorpidito dalla mancata, consueta, siesta pomeridiana, d’incanto i sensi rattrappiti si sciolsero, cosa per lui inconsueta, davanti al panorama, che pur frequentava da oltre un decennio. Il prato, la piscina, i cespugli, il mare, il cielo, ogni cosa gli parve nuova, viva, vivace.

     Ancora a torso nudo e costume al cloro, risparmiato dai morsi della fame (mangiava solo per sfizio o dovere sociale, pur non disdegnando le abbuffate conviviali), ricaricatosi e rivivificatosi Lorenzo si fiondò di colpo verso la porta (non aprire quella porta…), quasi alla ricerca di un qualcosa d’indefinito che riuscisse a lenire quel suo bisogno interiore. L’ineffabile voleva esprimersi, la sua dynamis interiore (sprigionata dal suo daimon – il suo angelo) premeva con insistenza sulla ‘corazza’, chiedendo solo di ‘scatenarsi’: l’animale era pronto a entrare nel palcoscenico.

     Un fugace scalpitio, rimbalzante gommoso tra i gradini della breve ma ripida scala, e poi uno sfrigolio metallico di passi frettolosi sulla stradina sottostante gli fecero da apripista. Catturato dalla foga di uscire, in apnea tra mille pensieri e bolle blu (tendenti al rosa: la malinconia stava svaporando), non se ne curò affatto – era poco curioso, piuttosto superficiale e todo modo distratto – e aprì senza fretta, e apparentemente senza frutto, la porta, poco interessato a scoprire chi avesse deflorato la quiete, non solo pomeridiana ma anche domenicale, del residence. Tutt’intorno, verginale, il silenzio.

     Sounds of silence. Solo qualche timido, malcelato, clandestino sonoro approccio da parte di sons et lumiéres: un inizio di petting ai fianchi delle ore sul viale del tramonto. La piscina vuota, l’appartamento di fianco altrettanto.

     La sua riottosità verso i dettagli – la mente di Lorenzo era più sintetica che analitica – non gl’impedì, tuttavia, di soffermarsi su di un particolare su cui aveva glissato al rientro dal fatale buen ritiro in piscina (non per nonchalance, o perché ‘fatto’ dalla musica ‘suicida’ dei Joy Division – dead men walking sul suo sempre vivo walkman –, ma in quanto il ‘particolare’ era assente: di questo era certo): vergati sulla parete sinistra del pianerottolo, appena sopra al campanello, campeggiavano, dramatically, tre numeri – un vistoso 666 e due più minuscoli 13 e 18.

     Questione di attimi: la parete, fattasi improvvisamente concava, occupò tutta la sua visuale e lo circondò. Comprimendolo, quasi soffocandolo nella stretta delle sue spire, bloccando ogni suo tentativo di fuga dal residence.

     Frastornato e impedito nei movimenti, la stringente sensazione di un black-out totale – in sincronia col calare a ghigliottina della notte più tetra che la magica Pugnochiuso dai venerei chiarori di luna tra brillii di stelle avesse mai conosciuto – Lorenzo si ‘spense’ anche lui, afflosciandosi devitalizzato sull’esiguo pianerottolo, contraendosi more and more, fino a diventare un puntino nero.

     Polvere, pulviscolo, pula al vento…

 

 


 

venerdì 30 ottobre 2020

INCIPIT (PRIMA PARTE)

INCIPIT

(PRIMA PARTE)

 L’incipit di un romanzo è essenziale, come e forse più del finale. Tra gli esempi più conosciuti: Cent’anni di Solitudine (G.G. Marquez) – Anna Karenina (L. Tolstoj) – Lolita (V. Nabokov) – Sulla strada (J. Kerouac) – Fahrenheit 451 (R. Bradbury) – Il giovane Holden, J.D. Salinger). Qui, senza volermi mettere in lizza, vi posto quello del mio Gocce di pioggia a Jericoacoara.

Oggi la prima metà del capitolo 1 (dei 67...), domani la seconda.

 

 «Ma quanto sei strana!»

     Il bronzeo addetto alla piscina irruppe da chissà quale anfratto, fiondandosi tra le sdraio e gli ombrelloni strapazzati dalla pioggia con la sfrontatezza di chi vuol battere sul tempo un sole paonazzo e pieno di voglie tanto improvvise quanto prevedibili. Poi il bay-watch prestato alla terraferma cambiò di colpo marcia e, ciondolando – caracollando – tra le pozzanghere, guadagnò il bordo-vasca col piglio di chi getta l’amo per adescare uno squalo.

     L’occhio umido (non solo di pioggia) prese a dardeggiare il fluttuante contorno sinuoso che dava un senso all’asettico rettangolo d’acqua, col fermo proposito di colpire il bersaglio mobile al primo colpo.

     «Solo la pioggia o la luna riescono a fare il miracolo. Solo loro riescono a farti tuffare...»

     Offuscando le parole-esca e mettendo a tacere gli ultimi vagiti meteo, il sorriso (invocato) di lei fece capolino tra le increspature e il cloro, complice e promettente. Nessun indizio, niente che facesse preludere all’epilogo politicamente scorretto. Non la gimcana di labbra sulla pelle che il bagnino aveva messo in conto tra i sogni nel cassetto (insieme a qualche tuffo con la bella naiade), ma solo una risposta da brivido blu:

     «Ho il cuore pieno di ceneri e di scorza di limone. Andrò solo dentro me stessa. Mi troverai sempre là...»

      Scagliato il dardo al curaro sul san Sebastiano di turno (il bagnino), paga dell’effetto sorpresa, la bionda ondina riguadagnò il bordo-piscina. Salì come da videoclip la scaletta cromata, schioccò un solare ‘ciao!’ da trailer al gallo cedrone dall’ala spezzata e, sfioratane l’epidermide bronzea (di colpo sbiancata), gli lasciò – sapore di sale – il chimerico assaggio di quel suo tatuaggio sfarfalleggiante sulla pelle bagnata.

     Gaia era fatta così: non solo tattoo ma anche taboo. Una vita esaltata da brevi ma intensi deliri, la magia di lunghi silenzi bruscamente interrotti da taglienti ossimori, paradossi, voli pindarici, esternazioni frappant. E se qualcuno (non pochi) sostava, rapito, davanti a quest’opera d’arte (e non da tre soldi...) – un taglio di Fontana sulla tela bianca della vita – veniva immancabilmente colpito da un’inattesa sindrome di Stendhal. 

     Gaia o dell’avventura dell’esistenza, un ossimoro vivente più che un paradosso. Tutto questo si sarebbe potuto dire – a posteriori – di Gaia (anche il nome). Ma ormai il fugace biondo oggetto del desiderio era fuori campo e a Lorenzo – il terzo silenzioso incomodo (convitato di pietra, nel vero senso del termine) – non rimase che rituffarsi nelle pagine appena lambite da una di quelle piogge lampo settembrine che il Gargano riservava ai suoi ultimi ospiti.

     Il turbine (anche sensoriale) era ormai passato, senza lasciare – così il buon Lorenzo pensava – tracce: lui di Gaia conosceva – e gl’importava – solo la Scienza…

 

     Al riparo, raccogliticcio, di uno dei pochi ombrelloni rimasti aperti, l’unico ‘abitato’, Lorenzo riprese la lettura, subito abortita: a braccetto col sole, ritornato master & commander del cielo, come un hobbit da pagina sei sbucò, impertinente, l’ossimoro, questo ‘carneade’ apparentemente fuori luogo in quel villaggio-vacanze così poco manzoniano (e neppure tanto tolkieniano).

     Queste paginette sfiorate dal pianto celeste erano la sua ultima conquista (libresca) – il tempo degli amori per Il Signore degli Anelli sembrava appartenere a un altro eone – e a Lorenzo non sembrò affatto un caso che il buon Raimon Panikkar – il teologo di frontiera (non solo Paul Tillich) cui stava facendo il filo tra un tuffo e l’altro – esordisse con quello strano termine, così calzante nell’occasione, per la bella del villaggio.

     Sì, ossimoro, oxymoron, questo stravagante matrimonio tra la bella oxys (affilata, appuntita e penetrante) e la bestia moros (ottusa, senza punta, molle, sciocca, folle...). Armonia fra i contrari, coincidenza degli opposti. Palintropia, concordia discors, polemos eracliteo, processo e stasi. In attesa della palingenesi.

     E tale, almeno da quel fugace mix di figura, situazione ed insinuante esternazione, gli era subito parsa la ragazza: affilata-spuntita nella sua follia penetrante, un punteruolo nella stupidità altrui. Insomma, la punta che perfora ciò che è molle

     In quel momento Lorenzo comprese anche come fosse facile passare da L’esperienza di Dio (il libro dell’ossimoro) all’esperienza di Gaia (dall’esperienza del cielo a quella della terra...). E così, rapito da questi volteggi della fantasia, ormai solo sul campo – il prato più o meno all’inglese che delimitava la piscina – e sospinto da chissà quale daimon, non trovò di meglio che tuffarsi nell’acqua solitaria ma ancora pulsante di vita: se al bagnino – ormai svanito nel nulla – la ragazza aveva prodotto l’effetto di uno shock termico, per lui, semplice e involontario spettatore del duetto, fu invece una salutare botta di vita (fosse stato Tinto Brass, sarebbe subito passato alla ‘botta d’allegria’…).

     Anestetizzato da questa sua sobria ebbrezza – l’ossimoro qui è d’obbligo – Lorenzo cominciò a nuotare, ora a stile libero, ora a rana, addirittura a farfalla, se non proprio a delfino (memore del luogo), incurante dell’acqua gelida, indifferente.

     Bracciata dopo bracciata, il suo corpo da algido (soprattutto nei sentimenti) prese a intiepidirsi, sciogliersi, rigenerarsi, mentre, accompagnati da ribollii e sfrigolii, risalivano a galla i sedimenti della misteriosa presenza di Gaia e l’eco delle sue parole sibilline. Così incomprensibili e disarmanti per il bagnino, ma così significative e pregnanti per lui: che c’entrava quel barbaglio di contro-cultura nella garganica Pugnochiuso delle vacanze politically correct? Che ci azzeccava?

     Chi era quella ragazza così out? Una neo-esistenzialista post-histoire in vacanza single? Cascami di New Age tra barlumi di Next Age? Scampoli del Grande Fratello? Una velina in uscita libera? Una sciampista, una stagista, una staffista? Una veltroniana free-lance? (con un Veltroni ormai infeltrito…). Infin che ’l veltro verrà… Il cervello di Lorenzo fumava nell’acqua diaccia.

     Fatto è che le sue ‘vasche’ furono più piacevoli del solito. Rilassanti, da training autogeno, quasi ipnotiche. Da ipnosi regressiva: ripercorse a grandi balzi la sua varia quotidianità, dai picchi (rari) delle esperienze delle vette – era da poco scivolato giù dalla ‘piramide’ di Maslow e vedeva tutto nero – alle depressioni (varie) della banalità del suo Sitz im Leben, il suo ambiente vitale.

     Come un film a ritroso – di quelli che si dice veda chi è in punto di morte, quando la corda d’argento sta per essere tranciata –, davanti a lui cominciarono a scorrere veloci i fotogrammi delle tappe più significative della sua vita (e lui non era nel cast: la riflessione di Woody Allen gli calzava a pennello – ma c’era un buco nei fantasmini di Lorenzo…).

     E così, tra un flash-back e l’altro, cominciò a togliersi le scaglie di dosso: in fin dei conti, non era poi tanto meno stravagante della sfarfalleggiante fanciulla! È vero, il ruolo sociale, i condizionamenti ambientali e i chiaroscuri del carattere ne avevano spesso frenato la libera espressione, ne ostruivano il libero sgorgare, ma non amava forse, anch’egli (alla faccia dei suoi invisibili ‘cinquanta’), il bagno sotto la pioggia? Non gigzagava, anche lui – malgré gli anta (ma solo quando i cascami di tempo libero glielo consentivano) , tra Mtv e zingarate? Il sapere è una farfalla notturna…

     In ogni caso – e qui le sue bracciate cominciarono a perdere colpi –, più della ragassa in sé (che pur valeva una messa), ciò che intrigava il nostro era la sua personalità essenziale, messa a nudo da quell’esternazione fuori dal coro della banalità quotidiana. Un coming out (o un outing? – in fondo era stato il bagnino a ‘costringerla’ a rivelarsi) davvero inaspettato quello dell’ospite (non certo scema) del villaggio (Lorenzo, essendone un habitué, si riteneva quasi il padrone di casa).

     E poi... quell’uscita di scena, cui difficilmente avrebbe fatto seguito un secondo atto. Conclusione: la ragazza era piuttosto in alto nelle sfere…

 

 

 

 


 

lunedì 26 ottobre 2020

ARKITEKTONICA

        

  ARKITEKTONICA

Blog multilivello e multitasking, Dal caos la stella danzante. Tuttavia, nei suoi primi anni, batteva principalmente le strade dell’Architettura, tanto da essere segnalato tra i migliori in circolazione.

Ed ecco, sul tema, due “passeggiate” nel mitico Gocce di pioggia a Jericoacoara (mitico nel senso che percorre il Mito, oltre che la Realtà, con qualche escursione nel fantasy e nel visionaire – e soprattutto, nel “mondo immaginale”, Corbin, Jung e Hillman permettendo…).

 

Erano arrivati alla villa alle undici di sera (l’orologio Cavalli di Arianna, quello dal cinturino rosso, lo confermava senza tema di smentita). Freschi, riposati, motivati (lei incuriosita, per niente spaventata: eppure, una cerimonia magica non era certo cosa di tutti i giorni). Il quartiere residenziale, mollemente adagiato su una leggera altura, ridondava di costruzioni di lusso, in stile moderno, prevalentemente ‘razionalista’. Solo qualche villa post-modern (in qualche caso, post-mortem) o dernier cri. Quella ‘deputata’, la location del surprise party, si stagliava piena di carisma, emergendo dalle onde di flora, fauna e cemento.

Il suo biancore (o meglio ancora: l’albeggiante luccicanza – questa l’espressione di Tomás, rubacchiata da chissà quale libro), messo ancor più in risalto dall’illuminazione grandangolare, e il suo quasi flottare e fluttuare nell’aria, tersa ma come carica di elettricità statica, la rendevano unica, degna del luogo. E di Niemeyer o di Reidy (che non ci fosse lo zampino di uno dei due? D’altronde, la escuela era quella). Forse risalente agli anni ‘60, con un che, pure, del primo Richard Meier (quello migliore, il più ‘stagionato’) e dei suoi epigoni californiani (e – perché no? – australiani. Harry Seidler era tra gl’ispiratori di Arianna: e il suo progetto per il concorso ‘americano’ ne aveva un po’ le stimmate). Insomma, non l’avrebbe certo colta di sorpresa vederla campeggiare su una di quelle riviste di architettura – Domus per dirne una – che bazzicava volentieri tra una lezione e l’altra, quand’era ancora una pischella all’università (in seguito sarebbe stata più incostante, e non solo in quello…).

Aveva appena finito di piovere. La camicetta, in crespo di seta con ruches, trasparente bianco lascito di Jericoacoara (e del galante Tomás, moro di Rio), lasciava passare, attraverso il finestrino abbassato, i residui ectoplasmi delle gocce che ancora si libravano nell’aria, rinfrescandole la pelle ogni giorno più vellutata.

Velvet underground. Profumo di vetiver. E di sandalo. L’atmosfera da saudade stava per lasciare il posto, e il segno, a una stimmung erotica, subsonica, arcana. Da scandalo (alla luna). Tutto lo faceva presagire. Ne pregustava le vibrations. Di colpo, l’ossimoro. Un sottile suono di silenzio... Strano, data la città.

Silenzio assordante, continuo, persistente; buio accecante, rischiarato all’improvviso da una luce diffusa, prima fioca poi sempre più vivida. L’atmosfera fiacca si vivacizzò. Stille di eros trasudavano dai pori della villa. Grande, superdimensionata, surreale. Distesa. Maya desnuda (o ‘denuda’? E poi c’è la ‘vestida’ …o ‘vestuda’?). Protesa verso di loro. Pronta a suggere. E ruggire. Senza (apparente) contesa. Attesa…

Gli spigoli retti che si alternavano alle curve, se da un lato li attraevano, dall’altro sembravano respingerli. Ma la forza d’attrazione alla fine prevalse (Eros versus Tanathos) e li fece quasi scontrare con il cancello (peraltro magneticamente chiuso). Eppure la magione aveva tutta l’aria di un focoso amante che l’attendeva a braccia aperte. Ma che si guardava discretamente attorno.

E lei complice, sospettosa, fremente. In attesa spasmodica. Con la leggera brezza che, dispettosa, continuava a scompigliarle la chioma fresca di sciampo, sempre più biondeggiante, ma anche le ciglia dell’anima, rutilante, subissata da fremiti di voglie e brame inconfessabili.

Titillata da timore e tremore, Arianna si guardò intorno. La notte incombeva. Si lasciò avviluppare dal suo mantello. E la chiamano estate…

 

“Un falso monumento architettonico (attività economiche private vestite in abito monumentale e ospitate in pilastri sepolcrali, totem ... e così via) è divenuto un autentico monumento commemorativo solo attraverso la sua distruzione. Tramite la sua dissoluzione corporea ha guadagnato l’anima (immortale) che fino ad ora gli mancava.” Questo il pensiero di Leon Krier, architetto contra (ma piace pure al principe Carlo). E Lorenzo lo condivideva. Lui era insieme emittente e ricevente (alla Barthes). E quel che contava non era tanto quello che voleva dire, quanto la ricezione da parte del destinatario.

Uccidi il mittente. Trova il mandante… Introduci in circuito idee ‘avvelenate’. Dice (sussurra e, più spesso, grida) Roberto Saviano, l’indomito scrittore contro (ogni ‘camarilla’): “Se devo scrivere devo farlo in emergenza, dove le bestemmie sono più sincere delle preghiere. E dove la realtà ha slabbrature maggiormente in grado di mostrare verità. (…) Molta scrittura invece sembra fare tarantelle intorno alle questioni centrali del nostro vivere. Tutto sommato non mi interessa far evadere il lettore. Mi interessa invaderlo. E mi interessa la letteratura più simile al morso di vipera che ad un acquerello di fantasie.”

Lorenzo voleva che il fruitore della sua architettura, la comunità, il semplice cittadino, ‘invaso’ (forse, invasato) da essa ‘evadesse’ dalla ‘gomorra’ quotidiana. Parafrasando Battisti (l’’emissario’ – che ai tempi dell’università aveva, stranamente, trascurato – ma era un ‘cult’ per Arianna: anche questo strano per una sinistrofila d’allora), Lorenzo voleva che lui e la gente andassero “ancora ancor più su planando sopra boschi di braccia tese.” Per poi scendere dalla ‘collina dei ciliegi’, con “un sorriso che non ha né più un volto né più un’età e respirando brezze che dilagano su terre senza limiti e confini.” Con le mani levate nel ‘canto libero’ e i piedi scalcianti alla Céline. 

Una nave ‘omerica’ finita in secca? Un moderno altare a Poseidone? Una casa del futuro – o del passato preistorico? Una casa surrealista? Una casa fascista? O un rifugio ‘tiberiano’? Da un mondo impazzito? È la casa del dandy e del burlone professionale, l’’arcitaliano’, come lo chiamavano gli amici – o del malinconico romantico tedesco celato sotto la maschera? La ‘pura’ casa di un asceta? O l’inquieto teatro privo di un insaziabile Casanova?… Le parole di Bruce Chatwin, il ‘viaggiatore’, rullanti su Casa Malaparte, ben si attagliavano a Lorenzo e al suo building. Lorenzo come Curzio (o Kurt?)… Quel Malaparte (‘malacarne’) che già aveva indicato in Mussolini “un restauratore dell’autorità, della fede, del dogma, dell’eroismo, contro lo spirito critico, scettico, razionalista e illuminista dell’Occidente.” Casa vorticista, la casa caprese di quel grand’esteta del Curzio (e della gaia Capri di Krupp e armerie omo-amatoriali varie): fascista, archeofuturista, vulcanica (vulcanista?), ossimorica…

L’imagismo e il verticismo, un vortice di stili e passioni in cui si fondevano astrattismo fotografico, futurismo, neo-orfismo e cubismo. Per poi ricomporsi e di nuovo liquefarsi in fluidità e prospettive multiple, alla Bernard Tschumi e alla Zaha Hadid. Proprio come, virtualmente (e talvolta concretamente), in Lorenzo (altalenante, in architettura – e non solo –, tra l’’albino’ Terragni e gli ipercolorati Arquitectonica, quelli del complesso The Atlantis di Miami-vice. Ma con un occhio, ipermetrope, al gruppo SITE, con le loro facciate frastagliate, scollate e scollacciate).

Sempre lui, incollato ai margini del pensare corrente, sempre borderline negl’intenti, spesso allineato nei fatti. Oltre il ‘fenomeno’ – tutto ciò che è labile e caduco –, in marcia verso il ‘fenomenale’ (tutto ciò che è oltre – ma anche l’effimero poteva andar bene…). E con quella sua ambigua, eclettica, eccentrica fascinazione verso il fascismo, da filosofo postmoderno (almeno secondo Richard Wolin). Simbolo ed emozione che si congiungono, forma e materia tutte d’un plesso (solare): ecco che l’archetipo stava per partorire il gigante (dopo il topolino). Una tensione olimpica verso la creazione di un universo artistico (senza nani e ballerine – senz’offesa per entrambi). Cosmo sì, ma con un po’ di caos (la ‘stella danzante’ nicciana). Libertà dionisiaca e fulgore apollineo. A proposito, che tipo Adalberto Libera, l’architetto di Casa Malaparte!

Lorenzo aveva conosciuto – sulla carta – Adalberto Libera (e Ignazio Gardella, il progettista del ‘suo’ residence in quel di Pugnochiuso) tramite John Hejduk, l’architetto-critico che guardava all’architettura con gli occhi del fanciullo (e la sua Bye House, monella olandese era lì a testimoniarlo). Il quale, riferendosi all’esperienza americana d’isolamento e frammentazione, sosteneva che, se l’architettura e lo spazio urbano in Europa sono sempre stati connessi, il ‘fenomeno americano’ era, invece, il prodotto del dividersi dell’unità, del suo trasformarsi in oggetti, del suo frammentarsi (eppure, sono Stati Uniti…).

In questo Lorenzo era diverso: più che di cose si occupava di razionalità (ma con fantasia, ai limiti dell’iperbole). E, ovviamente, di case (anche di interni – ma qui Arianna era più addentrata). In lui, come in Hejduk, c’erano il ‘rito’ e la maschera, l’eclettico collage di motivi letterari e metafisici, il teatro dell’assurdo e l’esistenzialismo, il nouveau roman di Robbe-Grillet e le liriche di Rilke (e Stefan George, perché no?), il surrealismo e il dadà. Kafka e Calvino, la scolastica medievale, la mistica renana, Lutero e Böhme.

Questo il suo nudo pasto quotidiano (anche Stirner, anarchici e individualisti vari). Starter, primo e secondo. E l’architettura come frutto della passione…

Nuove Sintesi o Nuove Organicità. Antichi sapori.