lunedì 18 febbraio 2019

GETTA IL TUO PANE SULLE ACQUE


GETTA IL TUO PANE SULLE ACQUE

Lunedì, inizio della settimana lavorativa (anche per chi non lavora): lavorare per il pane quotidiano (anche per piacere, vocazione, condivisione di talenti)… 
E a proposito di “panem et circenses” (ma in versione più “alta”, non certo “plebea”), vi propongo un breve brano tratto dal mio romanzo Gocce di pioggia a Jericoacoara”).

Getta il tuo pane sulle acque, perché dopo molto tempo lo ritroverai.  Abbattuto il muro di cellofan, messa alla berlina ogni timidezza, la contiguità tra i due si fece comunione. E comunicarono.
Le parole tra lui e Gaia (il nome della ragazza non era più un segreto per Lorenzo: anche se avrebbe fatto più fino saperlo dopo...) si rincorrevano tra le balze dei loro territori ora senza più confini; i pochi silenzi sembravano fatti della stessa stoffa delle parole. Silenzi sempre più rarefatti, pronti però a riprendere, man mano, vigore.
Sintonizzati sulle stesse frequenze, Gaia e Lorenzo ebbero, contemporaneamente, la sensazione panica (nel senso bucolico) di essere un tutt’uno con l’erba, i fiori, i cespugli; con il vociare dei ragazzi e delle ragazze che percorrevano, proprio in quel magico istante, il sentiero sottostante. Col flautare della brezza settembrina, tutt’uno col battito del cuore della formica che dalla mano di lui era passata a quella di lei...
Il tempo, fino a quel momento acerbo, giunse a maturazione e stillò gocce di Kairòs: il tempo propizio pensò bene di fermare le lancette del Chronos, del tempo qualunque (e qualunquista).
Come può esserci Eros senza Imeros? Amore senza Desiderio? I due, ciascuno prima perso nel suo viaggio al termine della notte, si avvicinarono sempre più (la formica...), fino a sfiorarsi in più punti strategici. Un lieve, improvviso, fruscio d’aria increspò i capelli di lei, facendoli vibrare sul viso di lui. Furono uno: lo stesso misterioso montante desiderio, la stessa cruda sensualità che si offriva spontanea e naturale. Un’aspra dolcezza (l’ossimoro…) che fluiva sottopelle, come in rivoli sotterranei mai esplorati. Lo stupore e l’innocenza dei sensi. Complicità e confidenza tra i corpi e le menti (e il luogo). L’eros che si fa ethos.
Lorenzo e Gaia: il corpo di lei abbandonato accanto al suo, le vibrazioni del suo respiro che si accordavano armoniosamente con quelle delle sue membra. Una sinfonia di bassi, di acuti, di silenzi, che sembravano fatti della stessa organza dell’ambiente circostante. Magico, soprannaturale, ma vibrante di passione, di vita, carne e sangue...
Come può esserci Eros se non c’è Afrodite? Più che Laing poté Plutarco!

sabato 2 febbraio 2019

CAOS & COSMOS – DE ARCHITECTURA


CAOS & COSMOS
Il nostro tempo (post-liquido? sublimato?) cerca una nuova solidità ‘sublime’ in costruzioni sempre più decostruite, in un funambolico vorticoso tentativo di ri-creare un nuovo ordine (s)oggettivo.
La verità non è venuta nel mondo nuda, ma è venuta in simboli ed immagini: il mondo non la riceverà in altra maniera. C’è una rigenerazione e un’immagine di rigenerazione. Ed è veramente necessario che si sia rigenerati attraverso l’immagine…” (dal Vangelo di Filippo)
Gesù disse loro: Quando farete di due uno e quando farete che l’interiore sia come l’esteriore e l’esteriore come l’interiore, e ciò che sta sopra come ciò che sta sotto, e quando farete che maschio e femmina siano una sola cosa, così che il maschio non sarà maschio e la femmina non sarà femmina, e farete che occhi siano al posto di un occhio, e una mano al posto di una mano, e un piede al posto di un piede, e un’immagine al posto di un’immagine, allora entrerete nel Regno.” (dal Vangelo di Tommaso)
Verità, simboli, immagini… L’architettura è la materializzazione (tekton) del principio (arké), è il rivestimento dell’’idea’ (la verità: ἰδέα da ἰδεῖν, vedere). E come si sa, l’abito non serve solo a proteggere dal freddo, ma è anche ‘esibizione’ di sé… È quindi naturale (è nella natura delle cose) che, a fronte di tanta architettura (o solo ‘edilizia’) ‘organica’ o comunque ‘eteroreferenziale, ci siano architetture autoreferenziali, egomaniache, de-contestualizzate, sempre diverse le une dalle altre ma tutte eguali nell’impossibilità di poter trovare un criterio di giudizio se non di tipo esclusivamente individuale(Pietro Pagliardini in “LPP:Star-system da bocciare? Si, forse, anzi no”, su De Architectura).
Architettura ‘bella’, architettura ‘brutta’? È nella natura delle cose… Il problema è che, mentre un vestito lo si può togliere o eliminare tout-court, l’architettura ha anche, e soprattutto, un corpo e l’eliminazione del suo ‘vestito’ quasi sempre non risolve il problema: l’impatto visivo e la risonanza di un ‘fatto’ di architettura ‘disturbante’ può avere effetti, non solo sul singolo passante o utente, ma anche, e soprattutto, sull’immagine e sull’idea di città; e il genius loci, sempre in allerta, può reagire rigettandola (a livello subliminale probabilmente ciò può incidere negativamente in chi frequenta certi luoghi, sommandosi così al ‘disturbo’ percettivo e ‘somatizzandolo’). L’unico fatto positivo, sempre alla Kevin Lynch, è che un’architettura ‘esibizionista’ può fungere da riferimento e orientamento, essendo un oggetto dello spazio velocemente identificabile anche a distanza.
Fatto è che l’architettura è soggetta anch’essa all’unità dinamica, e per questo conflittuale, tra Super-Io ed Es, ossia tra continuità e discontinuità nel tempo e nello spazio (integrazione o dis-integrazione nel tessuto urbano), con l’Io che dovrebbe fungere da ars combinatoria, nel tentativo di contemperare la fuga da (fuga dalla ‘storia’, dalla ‘tradizione’, dall’’usuale’, ecc.) con l’accanto a(contestualizzazione, integrazione).
Diceva Pierluigi Nicolin (in Lotus 1984/2): L’architettura contemporanea va alla ricerca della figurazione in aperta polemica con l’astrattismo degli anni passati; ma questo avviene in quella circostanza che Lyotard ha chiamato la fine delle grandi narrazioni. Per l’architettura si verifica un’altra più specifica circostanza, che possiamo chiamare la fine della progettazione per modelli (nozione spesso confusa con quella della tipologia). Una fine confermata anche dai progetti di architetti che per essere legati a questo concetto sono costretti dai fatti a realizzare i loro edifici come unità infrante…”
Firmitas, utilitas, venustas, propinquitas Fine dei ‘modelli’, destandardizzazione, unità infrante.
La casa romana fu l’esito di complesse sedimentazioni e di ri-definizione o ri-orientamento del significato stesso di ‘abitazione’. Ulteriori sedimentazioni e articolazioni hanno attraversato tutta l’architettura fino a oggi, in un connubio, non sempre felice ma comunque vitale, tra mythos e logos (il mito tace, il logos parla). Parole e silenzi, idee senza parole… Il mito è il ‘vivaio’ delle idee d’architettura, in quanto racconta sempre la stessa cosa – essendo la matrice di ogni forma culturale e simbolica, con forte valenza estetica – ma in modo sempre diverso. Il logos, logos endiathetos – discorso interiore – e logos prophorikos, è il tentativo dell’idea di farsi ‘fatto’, ‘evento’ ‘avvenimento’. Il mito è il ‘silenzio’ dell’architetto che, nel farsi parola, provoca la ‘scintilla’ (il ‘fiat lux’/Big Bang) che muta il Caos in Cosmos (il caos – nel ‘cuore’ dell’architetto – partorisce la stella danzante). Ma sempre più spesso si sentono balbettii, o urla… (ma anche qualche vox clamantis in deserto).
Cade il grande stile’, o lo stile tout-court basato sulla concinnitas (armonia, simmetria, equilibrio, eleganza, bellezza, proporzione). E si batte la via della ‘dissoluzione della totalità’ e della sua ricostruzione ‘soggettiva’, caotica, disorganica (pur con la pretesa di puntare a un presunto organicismo, ossimoricamente disorganico, della natura): ciò può partorire il monstrum (nel senso, latino, di prodigio – i molti capolavori in circolazione; o, altrettanto spesso, mostri veri e propri, nel senso comune del termine).
Ma perché tanti monstra? Dimostrazione di bravura o desiderio di migliorare il mondo? Esibizionismo dal basso o lo Zarathustra che scende dal mondo a portare i suoi doni? Più che altro, il desiderio dell’architetto contemporaneo di abbracciare anche nel più breve brano la totalità del mondo. Se la sintesi medioevale lasciava spazio alla differenziazione (il tutto nel frammento) e la modernità assumeva la totalità indifferenziata, riflessa nel progressivo depauperamento e sradicamento dell'individuo (la sua dis-animazione) – mentre il post-modern (post-mortem?) tutto dissolveva (e continua a dissolvere) in una tiepida liquidità scongelante – il nostro tempo (post-liquido? sublimato?) cerca una nuova solidità ‘sublime’ in costruzioni sempre più decostruite, in un funambolico vorticoso tentativo di ri-creare un nuovo ordine (s)oggettivo, frantumando così l’idea progettuale in un fantomatico (fantasmatico, talvolta fantastico) flusso di segmenti di realtà. In una società (post)liquida come la nostra l’architettura rischia, dunque, di perdere la sua ‘solidità’, senza per questo ‘sublimarsi’. Per dirla alla Spengler: idee senza parole è l’unica cosa che garantisce la solidità dell’avvenire”. Come contraltare:
educare l’uomo è impedirgli la “libera espressione della sua personalità‘reagisce’ Nicolás Gómez Dávila, dall’alto della sua ‘turris eburnea’. Nondimeno, ‘incatenando’ l’architetto, ‘educandolo’, si avranno città forse vivibili, ma senza respiro ‘sacro’. E io – e qui sto con Dávila – respiro male in un mondo non attraversato da ombre sacre...