giovedì 30 maggio 2019

KILLING ME SOFTLY – Dalla via crucis alla via pacis


KILLING ME SOFTLY

Dalla via crucis alla via pacis
(cover)

Sto buttando giù le ultime pagine del mio ultimo libro, e dando gli ultimi ritocchi, e rintocchi (lavoro in contemporanea su più fronti, il vento – e lo spirito – soffia dove, e come, vuole…). Quindi, per il mese di maggio una cover, riveduta e corretta, di un mio vecchio post.

Stromin' my pain with his fingers
Singin' my life with his words
Killing me softly with his song
Telling my whole life with his words
Killing me softly with his song
I felt all flushed with fever
Embarrased by the crowd
I felt he found my letters and read each one out loud
I pray that he would finish
But he just kept right on
I pray that he would finish. 

Canzoni, febbre, folla, folli… Fever: il momento è caldo, ma di un caldo ‘finto’, farlocco, fake
“Siate caldi oppure freddi: ma i tiepidi li vomiterò nella Geenna” c’è scritto nell’Apocalisse di Giovanni. È quello di questi giorni un calore (a corrente alternata) che stenta a scaldare il tiepidume delle nostre anime raffreddate, diacce, anchilosate.
“Se la psiche è l’anima, e l’anima è il mondo della nostra esperienza, come sostiene Aristotele, essa ci fa paura. Non ne vogliamo troppa o troppe varietà. La vogliamo ridotta a percezione e a immaginazione terrene, niente sogni a colori.” (Ronald Laing).
Sì, niente sogni a colori. Se noi stentiamo a sognare – e se sogniamo, tutto appare cellofanato – i sogni dei terroristi odierni (non chiamateli kamikaze, per carità: quelli, pur nellinaccettabilità di quel che facevano, avevano almeno un ideale vero), le marionette “manchuriane”, sono sogni in nero, e pure di plastica.
Tuttavia, stiamo attenti alle categorizzazioni (a stelle e strisce – anche di coca): se la “sindrome nipponica” aveva almeno l’haiku, il wu wei, Mishima e l’iki, la “sindrome araba” ha anche le altezze e profondità di Rumi (a dire il vero iranico, e qualche volta ironico), di Rabia (la poetessa), dei Sufi e di Mullah Nasruddin, quello dei racconti sufi; e volendo avvicinarci, di Guénon e Corbin (e che dire, senza esagerare, di Pietrangelo Buttafuoco?).
Si può volare basso (nella palude e con qualsiasi paludamento) e volare alto, lì dove volano le aquile, gli angeli e i veri uomini-e-donne.
Per decollare, ecco, ancora una volta, l’incipit del mio inedito (ma per volare ancora più alto, vi dirotto sui miei saggi e sul mio romanzo).
D’altronde, la Storia c’insegna (non solo il Mito) che, dopo la via crucis (e l’insurrezione), c’è la risurrezione: sursum corda e per aspera ad astra! Non solo Asterix…

MORULE

Ci incontriamo agli angoli delle strade. A coppie, a grappoli, a stringhe sempre meno sottili. Cresciamo all’ombra dei portici, come batteri, morule, embrioni di future miriadi, angeli sparsi in cerca di paradisi possibili.
Siamo le membrane plasmatiche del centro e delle periferie urbane, giunzioni occludenti il vuoto delle menti e delle anime, teurgi plastici in cerca di corpi da rigenerare. Col forcipe dello spirito recidiamo le sbarre dell’anima e liberiamo dai ceppi impazienti i dèmoni dormienti. I nostri e gli altrui.
Senza addomesticarli li mandiamo allo sbaraglio tra i ‘petits bourgeois’ della ‘comédie humaine’ (dèmoni versus demòni: slitta l’accentazione cambia l’eone). Randomizzati vagano impacciati ma indomiti nelle piazze, nelle case, nelle menti, nelle paludi del caravanserraglio globale – dove sbuffa behemot, gingillo degli dèi e trastullo dei titani, e striscia il leviatano, un po’ biscione un po’ caimano.
Bariamo sui numeri (ma nel frattempo cresciamo a dismisura), saltiamo sui corpi, puntiamo sulle anime (e lo spirito? Sotto sale). Ci arrampichiamo sui muri, scivoliamo nei sottotetti, glissiamo sui salotti buoni. Ma verrà anche il loro turno – tour e retour.
E allora, che aspettate? Il turn-over? Tornite e guarnite le tartine al caviale, la pallina sta per fermarsi! Là bas.
Rien va plus. Il gioco si fa duro. E scivoloso. Ma dolce è l’attesa (meno le doglie). Arde il rovo, la voce chiama… “Siate caldi oppure freddi: ma i tiepidi li vomiterò nella Geenna.” Caos calmo, ciechi spasmi, miasmi cosmici: l’universo attende con ansia l’epifania teandrica – non sa cosa vuole, ma vuole qualcosa!
Alta marea: la terracquea arena è lì che aspetta, vociante, torbida, ondeggiante. Bassa marea: nella platitude vacua vaticina torpida la platea (e non è il Vaticano). Ogni tribuna e tribuno è in tiepida attesa di un messia o di una miss (tutto fa brodo – questa la voce del mondo). “Ah, se Erostrato il grande li ghermisse e facesse assaggiare a tutti i tiepidi il caldo estremo che raggela!” (la cultrea voce dal profondo).
E noi? Infine nudi nello spirito, ancora paludati nell’azione, palestrati nell’animo  continuiamo a nasconderci nelle segrete latebre delle lubriche piazze affollate. Per poi sbucare alla Kubrik nelle strade bucate e imbucarci, zampillanti e ludici come eroine zompanti, tra gli zombi nei corridoi sussurranti – riservando ai gorgoglianti portici le nostre residue ore aliene (è lì, nelle gallerie urbane, il nostro brodo di coltura).
Tuareg nel deserto che cresce, effimeri panici al galoppo, ossimorici lunatici grondanti gelide passioni; cammelli sgobbanti, leoni reboanti, fanciulli vocianti investiti da folate di sottile silenzio: questi noi siamo. L’ultimo uomo è appena nato e una donna sta per ucciderlo.

KILLING ME SOFTLY

Uccidimi dolcemente, ma uccidimi… Entra nel rovescio del mio mondo e affonda il tuo cultro lì dove gli altri hanno fallito. Trascrivo febbrilmente i loghia onirici, battendo sul tempo i famelici gargoyle del subconscio, spasmeggianti nevrilmente dalla brama d’ingoiarli nei lenti gorghi amnesici. L’oceano notturno si è ormai contratto in un’anoressica pozzanghera: solo i vortici di alcuni citri d’acqua dolce – i sogni che hanno bucato le porte di corno (quelli che verità li incorona se un mortale li vede) – sono sopravvissuti. V’intingo la mia plume mentale, strappata all’uccello nottaiolo attardatosi a oziare sullo spoglio ramo dell’ultimo ramingo albero della fuggente selva dell’oblio e… fandango.
     Because the night belongs to lovers, because the night belongs to lust, because the night belongs to us… È l’alba, la notte è scappata coi suoi amanti, i dardi aurorali scippati alla febica faretra hanno colpito a morte le mie effervescenti passioni ctonie (ma rivivranno allo scoccare della mezzanotte) e i gendarmi del mattino hanno ammanettato le mie voglie corsare (adieu fuitina stellare con Jessica Alba… ogni notte un trip diverso). It’s too late to apologize. Non ho più scuse. Dalla radiosveglia la voce velvet del sempre cool Timbaland mi riporta sulla battigia. It’s too late… Lascio Garden of nights (il Village da dreamer radical-chic – niente di particolarmente osé: solo Muse e qualche strip) e mi butto giù dal letto.
     Della notte mi è rimasto solo il sorriso: lentamente passo per l’ultima volta il dito sulle sue labbra di sogno, prima che si assottiglino e sublimino, impalpabili come labili fili evanescenti, al balenare delle prime pallide luminescenze diurne. L’eco narcisa degli ultimi sparsi frammenti onirici cerca invano di raggiungermi, ma ammutolisce spaurita davanti all’alba sorgiva, sfiatando pudica nel lete delle memorie fuggitive. No pain no drama: ho già trascritto le stille essenziali, lascio senza magone le vaghe stelle dell’orsa.
     Il telefono squilla (l’ultima, definitiva, rupture al notturno soffitto di cristallo – di lì, rapito, posso mirare l’epifania degli dèi). Squallida cocotte, vattene per la tua strada… io sono fedele al mio computer (e pensare che fino a qualche annetto fa manco me lo filavo…). Lascio a letto i miei clandestini philosophes prêt-à-porter (nouveaux o anciens, tutti mi fanno il filo, ma io mi fermo ai preliminari), snobbo la cornetta – di giorno sono fedele – e vado a tirare. Slash-flash: qualche strisciata di piccì, per tenermi su. Inizia la mia giornata.