lunedì 27 dicembre 2021

Blow-up. Shut up and drive

Blow-up

Shut up and drive

“Quello che veramente ami rimane, il resto è scorie. Quello che veramente ami, non ti verrà strappato. Quello che veramente ami è la tua vera eredità.” Un flash su Ezra Pound e uno su … Lorenzo!

     Lo baciò con labbra riarse e ansiose. Astonished, stordita, stonata, si lasciò sommergere dall’emozione sottocutanea, riuscendo, tuttavia, a rimanere in apnea. Ape regina, come sempre. Vaccinata, mitridatizzata dagli eventi dell’ultimo mese, si lasciò andare senza chiedersi perché.

     Why? L’impatto con Lorenzo, scaturito dalle profondità del tempo e del cuore, fu ancor più fibrillante, ‘crono-cardiaco’, ma venne facilmente riassorbito da Arianna, quasi che lei fosse fatta di materiale pathos-assorbente (o ‘fatta’ di oppio, ma quello ‘puro’ – senza ‘tagli’ – di Emmanuelle a Bangkok).

     “Aprirai gli occhi all’improvviso e ti guarderai intorno e, nel caos dell’universo, guarderai qualcuno e ti renderai conto del fatto che voi due vi vedete e che tutto il resto è caos.Ben oltre la PNL di Richard Bandler, i neuroni e le lingue, non più programmati, si rincorsero e si sciolsero. Poi si riannodarono. Una folata improvvisa. Lusso emozionale, flusso irrazionale; colate laviche, dilavanti, dilaganti (la ragione in stand-by, i sensi al galoppo, la passione a bolina). Blow-up.

     Shut up and drive... Lorenzo scivolò in un abbraccio nodoso. Fluviale. Lei si fece lago. Loro stretti, tutti gli altri al largo. Nel silenzio iniziarono a correre. Cuore sacro (non solo cuori neri). E la passione montante cominciò a sgomitare tra la folla impazzita (sorpresa, gioia, alcol, droga, ebbrezza spirituale? Di tutto un po’. Manhattan sceccherato). I loro cervelli (soprattutto quelli della coppia vincente): nidi di rondine, volute allungate dall’assenzio alla Modì (pasteggiato durante il party), fate verdi, e ignoranti, vaganti in pieno deserto di serotonina. Amrita? Ciceone? Cicuta? Comunque, nettare degli dèi… Lei, armata dei suoi sogni, disarmante nella sua schietta passionalità. Lui, ormai uomo (super) capace di tirar fuori – dalla donna – la donna (super). Altro che softie. Un ‘duro’. In ogni caso: zitta e pedala!

    Parafrasando Whitman, tra i rumori della folla se ne stavano loro due, felici di essere insieme, parlando poco, forse nemmeno una parola… Silenzi, sospiri, solo il battito dei cuori (non solo i loro – c’è ancora vita sulla terra). Sursum corda, il nodo gordiano era stato tagliato. Scurdammoce ‘o passato. Era giunto il momento di godere. Di ogni cosa. I nodi erano venuti al pettine. E ora cominciavano i colpi di spazzola. L’ossitocina prese il volo (come la colomba di Noè) e con lei il testosterone, prima passero solitario poi aquila delle vette. Tornarono tutti (i pennuti) con orchidee selvagge: le acque del diluvio si erano ritirate ed era comparso l’asciutto (con loro spennati: effetto del party, un po’ lubrico un po’ kubrik). Another brick in the wall. La terraferma era all’orizzonte. In direzione oriente.

     “Nessuna sventura può colpirmi quando ella mi concede un bacio.” Le sue labbra stillavano latte e miele. Le colline era di nuovo in fiore. Le vette puntute raffrescate da folate di Spirito e bagnate da scrosci di Passione. L’Amore dell’Amore… I dirupi, dilavati da cascate di dionisiache voglie e apollinei chiarori. Venerei albori di luna sui corpi marziali, eroticamente belligeranti. Il ditirambo di sguardi aveva sostituito il mambo del diggei, virando sul più caliente tango, ma l’aria rimaneva pur sempre sciccosa. Anzi, sempre più. Colorata di Blue in green (le pennellate di Miles Davis, la tela, invece, offerta dalla ditta, la prodiga Archirama Do-It). Suggellata dalle note guitar da ultima Thule (o primo Eden) di Kyle Eastwood e del suo rugiadoso Iwo Jima. L’atmosfera c’era tutta, la realtà pure.

     E correndo m’incontrò lungo le scale: quasi nulla mi sembrò cambiato in lei. La tristezza poi ci avvolse come miele, per il tempo scivolato su noi due.” Mentre le parole di Colin Muset, poeta trovatore della Renaissance, continuavano a palpeggiare le furbe rotondità di Arianna – e Guccini si dava parimenti da fare per incastonare le sue perle da piano-osteria – Tomás e Galatea, sbucati dal nulla, si buttarono anche loro nell’agone. La coppia divenne ben presto un quartetto, un ottetto, una legione… E tutti, agognanti e agonizzanti, incantati e incartati, fecero bisboccia fino alle quattro del mattino. Poi di corsa alla chiesa Wonders ‘n Miracles.

Da Gocce di pioggia a Jericoacoara.

 


 

giovedì 23 dicembre 2021

SESSANTOTTO OTTO OTTO

 

SESSANTOTTO OTTO OTTO

 

“E come dicono piacesse a una fanciulla svelta il pomo dorato che le tolse l’impaccio della sua ritrosia, mi piace.” Di morso in morso, sempre più vicino al torsolo… Lorenzo, dimentico della Genesi (e memore di Catullo), clonò il suo sorriso: solo allora si rese conto – forzando un po’ i tempi – che due incontri casuali in così breve tempo facevano bingo (più che ambo) nel campo delle leggi statistiche (che lui ben conosceva, da un esame marginale del suo excursus universitario) e che, per l’ennesima volta, si accingeva a rientrare nell’accidentato territorio di Jung e delle sue sincronicità. La situazione non era però impilabile in quella della piscina: l’intreccio di libro e gambe configurava uno scenario ben diverso.

     «Conosci Laing? Mi riferisco a erredì Laing (Lorenzo calcò intenzionalmente sulle iniziali R. D. per giocarci un po’), il guru della pazzia...» Lorenzo non riuscì a trattenersi dall’arrotare la erre: una radical-sciccheria un po’ démodé, se si vuole, ma la ragazza valeva ben una messa (...in moto, di ogni sua risorsa). 

     «Sì, certo: Ronnie, il guru “strizza e mordi”: beh, sai, la posizione del loto stimola!» schioccò la bionda coinquilina (del fazzoletto erboso).

     «Touché!» lui di rimando.

     Scagliata la prima pietra, il tempo di un respiro, fatta una breccia nella muraglia, il nostro cominciò ad avvolgere (come non era solito fare) l’inerme fanciulla nelle sue spire. E lei, fanciulla svelta, sospirando (nel suo intimo), tolse l’impaccio della sua ritrosia,

     Ormai il contatto era on – l’anglicismo è qui d’obbligo in onore di Ronald – e la luce si accese su (e in) entrambi. Non particolarmente vivida, ma più che sufficiente a illuminare per una decina di minuti il percorso tra lo psicanalitico e lo spirituale che si era inaspettatamente avviato, complice Ronald David Laing, il guru scozzese dell’antipsichiatria, il mentore di Lorenzo. 

     «Di Laing, e parlo del ’68 – che qui da noi era poi il ’69, l’anno ‘sottosopra’ del mio debutto in una bollente Firenze (e dintorni, Pisa soprattutto) –, mi aveva colpito soprattutto il suo approccio esistenzialista. Mi sembrava quasi un Sartre più nauseato del solito, ma ciò che più mi attraeva era il suo côté metafisico, spirituale, al di là del velo.»

     Il fiotto delle parole fu quasi orgasmico. Lorenzo poteva, finalmente, permettersi di parlare alto.

     Era da un bel po’ di tempo che non usava il sermo compositus per titillare e avvincere, se non convincere, gli interlocutori (le ultime frequentazioni di casa-chiesa-lavoro – gente spesso alla buona o ground zero – e quel che rimaneva dei suoi cerchi di amicizie avevano abbassato il suo ‘tono’). Lorenzo amava la varietas e la mutatio. E riusciva a passare, in un battito d’ali, dal sublime al terra terra (con un effetto ‘farfalla’ che poteva scatenare uragani polemici anche al di là del suo ‘cerchio’ – li aveva sperimentati soprattutto nel decennio ‘politico’ ’68-78). Così in alto così in basso (e viceversa). Ma quel che più detestava era l’analfabetismo culturale, il balbettio o la logorrea senza ratio pneuma. E i palloni gonfiati. Ma soprattutto, i talenti sotterrati. Non riusciva proprio a comprendere come si potesse vivere senza cultural literacy. Lui valutava le case, e le persone, dalle loro librerie…

     «Certo, Laing. Se non fosse stato per lui, anch’io sarei rimasta al muto cicaleccio quotidiano. Oppure, all’happy hour, al brunch, al grunge... Niente di male, per carità. C’è il tempo per i voli pindarici e quello per le scivolate e le bischerate (qui Gaia toccò le corde del Lorenzo alla fiorentina, già a mezza cottura…). C’è il tempo per il rock e per il lounge, per il trash e per il fashion, per il dolce(vita) e per la gabbana… Poi, un paio di anni fa, il turning point: volli, non solo conoscere, ma sapere. Penetrare nelle cose. Scandagliarle, coglierne l’essenza. Pistis e Sophia, fede e sapienza. Ed ecco che, in un incidente di percorso, andai a sbattere contro Ronald. Se sei pronto, il maestro non si farà attendere… E lui mi venne incontro. Come ti ho detto, più che un incontro, fu uno scontro. Uno sgambetto, un colpo a tradimento. Un deragliamento dal binario delle mie robotiche certezze. Prima robuste, poi indebolite. Se non fossi inciampata in Ronnie, avrei continuato a bighellonare tra vetrine e display, tra summercard e scatto alla risposta. Oppure sarei rimasta in sosta, al palo o da velina (il massimo immaginabile, ma c’è pure il minimo…), in quel grande parco-macchine che è il mondo. Magari girando e girando in cerca di un posto… Una gogo girl tra tanti gogo boys. Ma lui era dietro l’angolo e mi colpì alla testa.»

     Gaia finse di massaggiarsi la tempia destra (il ‘cervello destro’?) e continuò la corsa, premendo l’acceleratore.

     «Un libro. Sì, è stato proprio un libretto a cambiarmi la vita. A introdurmi in nuovi territori, inesplorati. Con strani abitanti. A farmi navigare su mari lontani, e pericolosi. Una cosa tra le cose, un volume affondato nell’oceanica biblioteca di Babele di questo caotico cosmo quotidiano (un caos calmo, una platitude…). L’ossimoro che si fa emozione, lo squalo tigre della ‘persuasione’ contro la ‘platessa’ della ‘rettorica’ – mi riferisco ovviamente alle ‘categorie’ di Michelstaedter, che tu certo conosci – la bellezza che dà ossigeno all’anoressica realtà… Insomma, quel libretto – un po’ ‘rosso’ un po’ ‘nero’, a suo modo stendhaliano – è stato per me una flebo di vita ‘autentica’ per disintossicarsi dalla tisica quotidianità. Un libro trans contro l’anossia dell’esistenza. Un libro trans-formante: mi portò in trance. Diciamo pure in sindrome di Stendhal. Spruzzi e sprazzi di vernice spray sul muro bianco della mia vita (anche se ho letto da qualche parte che “L’uomo è un foglio bianco, su cui l’ambiente e la società incidono delle linee precise). Insomma, La politica dell’esperienza, il libro che tu ben conosci, trovato per caso (ma il ‘caso’ è il ‘cacio sui maccheroni’ della quotidianità) su una bancarella di libri usati, fu proprio una mazzata. Una scossa, in particolare la sua chiusa: “Se solo potessi convertirvi, condurvi fuori dalle vostre meschine menti, se potessi comunicare con voi, allora sapreste.”  E io seppi, ma non mi fermai lì, andai oltre…»

     Solo un attimo di sospensione, e poi la stoccata finale.

    «A proposito, se incontri il maestro, abbraccialo, bacialo e poi… uccidilo.»

 

Tratto da Gocce di pioggia a Jericoacoara.

 


 

lunedì 6 dicembre 2021

RADICAL CHIC/CHOC

RADICAL CHIC/CHOC

Because the night belongs to lovers, because the night belongs to lust, because the night belongs to us… È l’alba, la notte è scappata coi suoi amanti, i dardi aurorali scippati alla febica faretra hanno colpito a morte le mie effervescenti passioni ctonie (ma rivivranno allo scoccare della mezzanotte) e i gendarmi del mattino hanno ammanettato le mie voglie corsare (adieu fuitina stellare con Jessica Alba… ogni notte un trip diverso). It’s too late to apologize. Non ho più scuse. Dalla radiosveglia la voce velvet del sempre cool Timbaland mi riporta sulla battigia. It’s too late… Lascio Garden of nights (il Village da dreamer radical-chic – niente di particolarmente osé: solo Muse e qualche strip) e mi butto giù dal letto.

   Della notte mi è rimasto solo il sorriso: lentamente passo per l’ultima volta il dito sulle sue labbra di sogno, prima che si assottiglino e sublimino, impalpabili come labili fili evanescenti, al balenare delle prime pallide luminescenze diurne. L’eco narcisa degli ultimi sparsi frammenti onirici cerca invano di raggiungermi, ma ammutolisce spaurita davanti all’alba sorgiva, sfiatando pudica nel lete delle memorie fuggitive. No pain, no drama: ho già trascritto le stille essenziali, lascio senza magone le vaghe stelle dell’orsa.

   Il telefono squilla. L’ultima, definitiva, rupture al notturno soffitto di cristallo: di lì, rapito, posso mirare l’epifania degli dèi. Squallida cocotte, vattene per la tua strada… io sono fedele al mio computer (e pensare che fino a qualche annetto fa manco me lo filavo…). Lascio a letto i miei clandestini philosophes prêt-à-porter (nouveaux o anciens, tutti mi fanno il filo, ma io mi fermo ai preliminari), snobbo la cornetta – di giorno sono fedele – e vado a tirare. Slash-flash: qualche strisciata di piccì, per tenermi su. Inizia la mia giornata. Chic et Choc.

O viva morte o dilettoso male. Se non fosse stato per il libro, il computer poteva pure andarsene in cancrena. Kissenefrega. Datemi i libri e vi solleverò il mondo, ma il computer… Polvere e pula al vento (questo il mio primo soft impact, anni fa, e neanche tanti. Sono tardo, e lento, quanto a tecnologia). Eppure, mio malgrado, me lo devo sorbire. Kiss kiss. E si sa, la mano, il braccio… e poi, chiodo scaccia chiodo.

Libri ‘inchiodati’? Jamais! Books, booklets, penguin classics, livres de poche, pocket, tascabili, purché libri… (anche e-books. Ammazza… – amazon – che bibliofilo!). Li compulsava, slinguava, odorava, sniffava e poi vi ci si tuffava. Anche a occhi chiusi.   

   Sono un junkie, un drogato (di fogli stampati, non di cartine), un book-addicted: avevo più d’una scimmia sulla spalla (e mi facevano pure le linguacce). A proposito, pour parler: da bookworm (ma anche movieworm), fluivo in english, galleggiavo in tedesco – avevo fatto, c’era una volta, uno stage nazi-runico –, davo delle belle unghiate french. E poi ogni tanto stillavo, specie quando scrivevo, gocce d’umor pagano dall’Olimpo e dai Sette Colli; un po’ di ‘vento divino’ dal Sinai per la par condicio e, sursum corda, sciacqui nel Gange (qui c’è un mix tra il me reale e l’avatar…).

   Croce e delizia. Le parole schiodate dal mio libro m’inchiodano a Lorenzo (il mio alter-ego di carta, un ribelle sempre meno virtuale). Lui il crociato, io la pietra filosofale; loro, gli ipsissima verba, il martello: il triangolo perfetto per incidere nella realtà (e non solo per ballare sul mondo). Diapason, flauto, arpa, siringa… Ago che inietta vita: senza strumenti musica nuda la parola produce.

Fatti e misfatti. Verba volant (et volunt). Sì, il linguaggio che si fa parola, la parola che si fa atto: “nessuna cosa è dove la parola manca” – questo uno dei miei motti preferiti (soffiato a Heidegger, ma da lui stillato, con ‘cura’, da ‘Das Wort’, poesia di Stefan George – lingua vergine, ‘virgo mater’ del sacro cerchio). La parola che nomina le cose, le contrassegna, le crea. “Basta la parola…”

   Parola coessenziale all’azione. Parola in movimento, in divenire, in estasi. Versi intessuti, carmi circolari, parola in cammino. Parola ‘attiva’. Più che ‘parola’, ‘verbo’, azione che si attende una re-azione. Action now. Parola dinamica, scoppiettante. Parola che grida quando più tace. Parola che canta, sussurra, piange. Nella parola balugina la spiritualità dell’anima. E questa si fa corpo. Per accoppiarsi e poi scoppiare. È la parola che dà sostanza, essere, alla ‘res’. Logos lex: la parola è legge. Logos Rex: la parola è re, anzi regina, e di questo logos ero diventato padrone.

       Suona la parola la malvestita realtà… Parolibere ancheggianti, ossimori frenati o rutilanti, specchi autoriflettentesi, un po’ narcisi un po’ Eco. Un romanzo-carillon il mio – i fatti come lame rotanti, i pensieri come trottole vorticose, e in cima a ciascuna di esse le parole come dervisci tournants sulla capocchia di uno spillo.

    “Romanzo-rapsodia, fervido di vita e voci, di ritmi e canti e risa, dal profumo di ingenue aurore … vorticoso nel suo ritmo da derviscio tournant, vibrante di tensione e trepidazione, ossimorico nei suoi dolci contrasti, dalla scrittura vivace, geniale, estetizzante, ma tutt'altro che décadent, capace di affratellare Policleto e i Beatles. Un ‘panta rei’ entusiastico ed entusiasmante, un fluire di sapienze ed eresie, dall'oscillare inarrestabile, ebbro … una scrittura da giocoliere della parola e da funambolo della nuance.” (a parere, e sentimento, della scrittrice e filologa “ariana”, quella con la K: mia prima fan – malgrado mi sia dissociato da molte delle sue opinioni …ma scrive in maniera sublime).

    Io, servo della parola. E lei mia schiava. Romanzo à la carte: antipasto, primo e secondo della mia vita (ero alla frutta). Io audioslave. Mi piace la musica gospel, battere i chiodi col martello e parlare in lingue. Non è la prima volta che sconfino in lande straniere…    E ‘l naufragar m’è dolce in questo mare… E dopo aver scampato tremendi pericoli, dopo qualche beccheggio ero finito nella rete. Senza rendermene conto. Passato, quanto ai libri (quando bucavo la rete e tornavo sulla ‘carta-ferma’), dall’insostenibile leggerezza dell’essere all’alito pesante del drago che butta fuoco (quello del contropelo).

    L’ultima del diavolo? No, tutta colpa di Lorenzo, il mio biblio-avatar (lo junkie, il book-addicted, bookworm e movieworm…). Uno che, anche se solo ‘di carta’ o ‘sulla carta’, conoscevo bene, biblicamente (un tocco di gayezza? Forse l’onda lunga di Stefan George e gay-bardi dis-correndo – quanto alla literacy non mi faccio mai mancare nulla).

    “Si tratta di arrivare all’ignoto mediante la sregolatezza di tutti i sensi.” Amo gli eccessi (a parole, quando mi spingo giù sino ai poeti maledetti) ed eccedo negli amori (anche qui, verbis non factis). “Voglio essere poeta, e lavoro a rendermi Veggente.” Ho sposato la prosa, ma la tradisco con la poesia (sono single). E ci sono altre Muse che spingono per entrare: fuori piove…

 N.B. C’è del reale nel personaggio “fiction” (Lorenzo, una delle “primedonne” del mio romanzo di tras-formazione), e c’è della fiction nel personaggio reale (Nicola)…


 

sabato 4 dicembre 2021

PARTICELLE ELEMENTARI

PARTICELLE ELEMENTARI

Verba volant (come stringhe cosmiche), scripta manent (come quark plutonici). Macchie uraniche d’inchiostro sotto vetro (il display del computer), esprit irenico, platonico, ironico, forse iranico (Zarathustra?). Particelle elementari, staccatesi da un magma incandescente e filanti senza direzione e senso. Pensieri e parole coagulatesi in stringhe cosmiche (anche comiche), corde vibranti del mio pluriverso (canone inverso): stringhe aperte sull’universo per connettere le estremità di pensieri a folle, stringhe chiuse sull’introverso per accalappiare idee occhieggianti dall’ultramondo (il mio castello interiore, l’empireo, la Sophia divina, la Scienza gaia?). Thriller… Con quanti denti le parole mi mordevano! Ma ciò che più incidevano nel romanzo erano i silenzi: “sguardi senza patria quaggiù, silenzi più remoti dell’uranico vento…” Nondimeno, erano le parole a de-cidere, ad agire, a in-cidere sui miei sentimenti. Sono loro – verba, logoi, loghia, rhemata – a configurare e a dare espressione alla mia necessità interiore (in attesa di trasfigurarla, di trovare la mia ‘dimensione’, la mia necessità più alta – insomma, diventare ciò che sono).

Vir bonus dicendi peritus? Più che altro, sono un malato – quasi allo stadio terminale – di parole, specie di quelle fatte di silenzio (quanto al bonus ne avrei fatto volentieri a meno. Non voglio sconti, figuriamoci regali…). Parole silenti. (“Chi parla non conosce. Chi conosce non parla.” È il Tao Te Ching a dirlo). Dal sottile suono di silenzio al rombo del tuono (il ruggito della scrittura – e poi, come graffia…): come Ildegarda la mistica, sapevo scrutare le viscere della memoria e il ventre dell’universo. E col forcipe dello spirito avevo reciso le sbarre dell’anima. Il terribile era avvenuto.

    Thor. Parole tonanti o sussurranti, fluenti a cascata (mai stagnanti), corpose ed eteriche, arcaiche ed estatiche (extase à deux), estetizzanti, escatologiche e frivole, nouveaux o déjà vu, sempre in bilico sul borderline tra greve e sublime. Mi denotavano, connotavano, erano insieme referend e symbol, signifié e signifiant, langue e parole, “suono su una faccia, e pensiero sull’altra”. E lasciavano il segno: Guance arrossate, traccia inequivocabile di un contropelo troppo duro...” Speravo solo che incidessero nella realtà, fossero spade a doppio taglio, non solo spilli per inc… mosche (e per decenza non diciamo di più, direbbe il siculo Buttafuoco, dimentico del franco Céline).

“La parola è un tremendo pericolo, soprattutto per chi l’adopera, ed è scritto che di ciascuna dovremo render conto.” Sì, ero un topo di biblioteca (ultima scoperta, Cristina Campo – nella mia anima, scampata agli spaventi del giorno, già da tempo albeggiavano i suoi silenzi remoti trafitti dai dardi verso il cielo); e ora, col mouse, anche scrittore (ancora in vitro, leggermente scheggiato). Echeggiante (all’inizio, boccheggiante. Nessuna Eco, solo un sottile suono di silenzio…). Un po’ randagio un po’ domestico (badante?). Eppure, voglio essere selvaggio: voglio scagliare come dardo la mia necessitante volontà e ferire l’orecchio di Dio! Voglio inferire, infierire…

E ‘l naufragar m’è dolce in questo mare… E dopo aver scampato tremendi pericoli (parole, parole, parole…), dopo qualche beccheggio ero finito nella rete. Senza rendermene conto. Passato, quanto ai libri (quando bucavo la rete e tornavo sulla ‘carta-ferma’ – che giravo freneticamente), dall’insostenibile leggerezza dell’essere all’alito pesante del drago che butta fuoco (quello del contropelo).

L’ultima del diavolo? No, tutta colpa di Lorenzo, il mio biblio-avatar (lo junkie, il book-addicted, bookworm e movieworm…). Uno che, anche se solo ‘di carta’ o ‘sulla carta’ (a dire il vero neanche quella: il libro era corposo sì, ma di lui aleggiava solo l’anima – non era stato ancora edito), conoscevo bene, biblicamente (un tocco di gayezza? Forse l’onda lunga di Stefan George e gay-bardi dis-correndo – quanto alla literacy non mi faccio mai mancare nulla).

“Si tratta di arrivare all’ignoto mediante la sregolatezza di tutti i sensi.” Amo gli eccessi (a parole, quando mi spingo giù sino ai ‘poeti maledetti’) ed eccedo negli amori (anche qui, verbis non factis). “Voglio essere poeta, e lavoro a rendermi Veggente.” Ho sposato la prosa, ma la tradisco con la poesia (sono single). E ci sono altre Muse che spingono per entrare: fuori piove…

    Gocce di pioggia a Jericoacoara: questo il titolo del romanzo. Anche lui multilivello, olografico, animico. “Romanzo-rapsodia, fervido di vita e voci, di ritmi e canti e risa, dal profumo di ingenue aurore … vorticoso nel suo ritmo da derviscio tournant, vibrante di tensione e trepidazione, ossimorico nei suoi dolci contrasti, dalla scrittura vivace, geniale, estetizzante, ma tutt'altro che décadent, capace di affratellare Policleto e i Beatles. Un ‘panta rei’ entusiastico ed entusiasmante, un fluire di sapienze ed eresie, dall'oscillare inarrestabile, ebbro … una scrittura da giocoliere della parola e da funambolo della nuance.” Così la scrittrice arya, quella che maneggia la penna come un cultro (o una katana).

Lost (era la mia ultima spiaggia). Fiera delle vanità o vanto della fierezza? Ricerca di senso o senso della ricerca? Spazio in cerca di forma, simbolo dietro il segno? Ai posteri l’ardua sentenza (nel frattempo, ero in languida attesa del colpo di derrière la fortuna aiuta gli audaci; ma anche, più titanicamente, i violenti s’impadroniscono dell’Olimpo…). Ne ero comunque fiero. Vanità delle vanità. E poi, avevo voglia d’interferire…

Una ferita nell’epidermide del mondo; poi… più dentro, sempre più giù, fino al nocciolo. Volevo penetrare. E non solo nel mondo. In corpore vivi. Mi sentivo investito da una missione (e sotto il vestito? Niente. Volevo correre nudo alla meta). Sì, era giunto il momento. “Sono un uomo d’oggi, Sono solo. Ma ho ancora gli dèi, al massimo Dio” (e forse anche qualche idea…). Mon Drieu! (La Rochelle – non sono solo rocchettaro). Il tempo era ormai maturo (il tempo, questa tigre che divora…): il chronos aveva scandito il kairòs (e questo aveva battuto sul tempo l’aion). Non avevo mangiato la mela acerba e non mi sfagiolava certo la frutta andata. Aspetto la frutta di stagione… Time passes by.

I tempi… Mesi, settimane, giorni. Voglio essere considerato un poeta jazz che suona un lungo blues in una jam session d’una domenica pomeriggio.  Dal fiat lux al punto omega, l’alfa ne aveva fatta di strada per arrivare al traguardo (l’epilogo del romanzo). Se Jack Kerouac ci aveva messo solo tre settimane (da raccontare) per buttar giù le trecento pagine rollanti sui quaranta metri di carta da telescrivente, il mio viaggio era stato (un) mosaico. “Ho ripreso la penna ed ho cercato di rimettermi al lavoro; ne avevo fin sopra i capelli di tutte queste riflessioni sul passato, sul presente, sul mondo. Non domandavo che una cosa: che mi si lasciasse finire in pace il mio libro.” Sartre, che nausea… Ma alla fine la carovana aveva raggiunto l’oasi (e vicino c’è il mar morto – a quando il bosco?).

The beat goes on. “Devo andare e non fermarmi finché non sono arrivato. Andare dove? Non lo so, ma devo  andare... Di eone in eone, il cammello si era fatto leone… Così canticchiava il mio fanciullino subliminale (“È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi … ma lagrime ancora e tripudi suoi”). E mai invecchiava il pargolo, si rigenerava di aion in aion (negli abissi della mia interiorità il tempo, nelle sue varie coniugazioni, e congiunzioni, scorreva molto più velocemente che all’esterno – il mondo immaginale ha i suoi ritmi, le sue pause, le sue frenesie. E poi, cominciava a intravedersi l’eterno ritorno: Getta il tuo pane sulle acque, perché dopo molto tempo lo ritroverai).

    “L’inchiostro è la mia arma. Si, violenza e lirismo, amore e rabbia, dolcezza e morte...” Sì, morte a credito. Mi sentivo in debito col mondo – che noia… volevo uccidere la noia annoiando la morte e la vita mi stava nauseando. Volevo vincere cantando più forte, ed ero rimasto senza voce. “Il bisogno di conoscermi, anzi, di dilaniarmi, mi prese con violenza.” Non potevo più nicchiare. Basta con Popper e Mary Poppins (va già meglio). Nietzsche, sulla soglia, occhieggiava con l’occhio destro. Destroy. Con l’animo a fette e sempre più fitte nell’anima (e il cervello destro che faceva da cavallo di troia alle dissennate fantasie al galoppo – nel frattempo il terzo occhio cominciava a sbattere le palpebre). Meno male che c’era lui.

“La penna e la spada sono temporaneamente separate, ma alla fine devono unirsi in un’unica strada.” Il libro come arma e come flabello (anche, flagello), un po’ Mishima un po’ iki. “Lo slancio dell’agire-contro, la decantazione del pensare-contro e del sentire-contro attraverso il libro. Il perfezionamento di una visione del mondo completamente ‘altra’.” (Così la vestale shaolin del filosofo col martello – da lui stesso avataricamente ‘investita’, e non solo platonicamente. Lui la conosceva bene… e viceversa.) Il libro, quello delle voci arcaiche, attente all’assoluto e non alle mode, è ben più della somma delle sue parole – ma la parola è la summa del libro.

Chiacchiera heideggerriana o parola imputtanita (un flash di Gurdjieff), minimal o gorgeous, virtù del segno o precipitato del simbolo, sgargiante, erotica, eretica, serica o graffiante, l’importante era la parola. Quanto più la parola scritta. Specie ora che scrivo libri. Sono loro la mia griffe (per il momento, un pezzo unico – e pure gratis). Il mio libro: alchimia di parole, ma anche graffi della mia esperienza di vita, loro specchio (snellente), ma anche un athanor – un forno di digestione alchemica (oltre che un avatar disceso dal cielo) – per realizzare in me l’uomo nuovo (con l’aggiunta del soffio dello Spirito e della fiamma della Passione).

Passion flower. Contenuto e forma (del libro e dell’uomo: io e il mio romanzo) dissolti e coagulati in un unicum – ossimorico, eufonico nelle dissonanze, disfonico nelle consonanze, ‘fanatico’. Mai fané. Diretto dal Dio della danza cosmica, tra pulsare del tempo e silenzio (avevo letto anche il libro di Pulsatilla, la book-squinzia emergente, anzi ormai emersa e sommersa. Sono eclettico e ossimorico – anche moro di chioma e politikon: vado back & forth dagli spot a Trainspotting). Voglio anch’io il mio fan club!

Bridge over troubled water. Sono un ponte sospeso sul mondo (e con i piloni fondati sull’abisso – e non faccio ancora parte dello star-system). Miro (al)le stelle (specie poi da quando sono approdato su certi ‘siti’: dapprima, quello di Miro il ‘fascio’; poi sempre più in alto, li dove danzano le spade e infierisce il cultro). L’uomo, ‘pontiggia’ Pennac, “scrive libri perché si sa mortale. Vive in gruppo perché è gregario, ma legge perché è solo…” E io voglio essere immortale e libero come uno steppenwolf. Ma cerco compagnia…

     Tratto dall’inedito Nietzsche: sneakers o tacchi a spillo.