mercoledì 31 luglio 2019

READING FROM NEW YORK


READING FROM NEW YORK

Mela verde, New York, acerba, matura, marcia. Cucina dell’inferno, salotto del paradiso. Purgatorio. Lembi di limbo. Città lombrosiana, più che ambrosiana, psicanalizzava Lorenzo (che un po’ guru lo era) nelle sue esordienti promenade all’ombra dei grattacieli. Città fallica, ma non fallita. Folle. Frullata. La folla che viaggia a folle. Frange di tempo. Città senza frangia.
     “New York é una città brutta e sporca. Il suo clima é indecente. Le sue strategie politiche terrorizzerebbero qualsiasi bambino. Il suo traffico é una follia. La sua competitività é micidiale. Ma su una questione non vi sono dubbi: dopo essere vissuti a New York, dopo aver fatto della città la vostra casa, nessun altro luogo potrà più reggere il confronto.”
     Città di cui fare esperienza. Con innocenza. Da avventura culturale. E anche trend-setter. E Lorenzo aveva tentato il grande salto. Un progetto ‘tosto’ il suo, tostato al punto giusto. Ma su cui non avrebbe puntato un cent. Rien ne va plus. E la pallina si era fermato sul numero giusto. Zero (a proposito, Lorenzo era un fan dei 50 Cent. Forte per un cinquantenne…).
     “Le città sono stati d’animo, stati emotivi, umori.” Con o senza John Steinbeck e Saul Bellow. Città da abbandonare, ma per andare dove? “When you leave New York you ain’t going nowhere.” Eppure, “Living in New York is never easy” (e nemmeno leaving). Vivi e lascia vivere. Da svegli, dormendo o in fase rem, New York è assolutamente da vivere, fosse anche “vedi New York e poi muori...” E Lorenzo, che pure mai come in quello scorcio esistenziale (uno squarcio di vita autentica) voleva vivere, si fece ‘prendere’ dal gorgo macro-metropolitano (e dal suo gergo). Dal vortice tritarifiuti, dalla fonderia di corpi e anime, dal laboratorio alchemico.
     Reading from New York. Città biblica. Come la Bibbia: puoi rileggerla infinite volte e ogni volta scopri un senso nuovo. Settanta sensi. Città fucina, laboratorio di un futuro charming. E il presente? Il sole che sbanda sui muri di vetro, le pareti di mattoni che si fanno rubizze… New York, città di rubino, cristallo e porcellana (cinese). Paradiso, inferno, purgatorio… (il limbo era passato di moda). Chiasso generale tra i silenzi individuali. La musica? From the beginning, di Emerson, Lake e Palmer. Così  sentiva  (come sintesi) il ‘suono’ della metropoli in quel particolare stato d’animo (alla Emerson: non il pop-singer, ma Ralph Waldo, sempre lui, il filosofo del ‘divenire’, quello per cui “le preghiere degli uomini sono una malattia della volontà e i credi una malattia dell’intelletto”). Sì, questo il suo preludio nuiorchese. Un po’ alba di Pugnochiuso un po’ notti al Cairo. Una malattia e una preghiera. Ma lui ora era in convalescenza. E una volta guarito, avrebbe vissuto d’altro: di architettura, forse di preghiera…

     Era il Kairòs, il calvario era finito (dopo la salita, la discesa) e le lancette si erano fermate: a mezzogiorno. Prima l’est (Pugnochiuso: una porta, una delle tante, sull’Oriente), poi l’ovest (New York, un portone sull’Occidente). Un’oasi nel caos del tempo. Una sosta tra volontà e immaginazione. E dentro questa, un viaggio nella selva oscurata dagli skyscrapers, attraverso spazi, tempi, culture e identità differenti, ma incidenti, intersecatisi in un complesso network di rapporti ed effetti. E affetti.
     “New York è dove tutti vengono a farsi perdonare” confessa in Shortbus il vecchio gay, già sindaco (alla frutta) della Grande Mela. Sì, Shortbus, il gay-movie un po’ a Le fate ignoranti (ma oltre misura…), porno qui porno là, ma d’autore (film trans-portato al Festival di Cannes; portata un po’ indigesta…), che ben descrive la metropoli metrosexual. Alla Beckham.
     Posh. Qui, più che altrove, Lorenzo avvertiva la disseminazione della cultura, costantemente contrattata e in divenire. Eppure, era solo da un paio di giorni che camminava col naso in su. E senza puzza sotto le narici. La metropoli puzzava, la campagna odorava? Era tutto oro quel che luceva? La metropoli versus la città rurale. Due realtà sostanzialmente diverse secondo Georg Simmel, filosofo quanto mai attento alla realtà urbana (Lorenzo se n’era occupato ultimamente, in un breve saggio su un giornale locale. Discettando, una ciliegia tira l’altra, anche di Kevin Lynch, Kurt Lewin e, dulcis in fundo, della percezione-Gestalt dell’immagine urbana).
     Due realtà fisiche e due gestalt – forme, strutture – che incidono diversamente sul modus viventi dei loro abitanti. E sull’immaginario urbano. Imago mundi. L’architettura che ‘co-stringe’ fisicamente, psichicamente, ‘pneumaticamente’, i suoi sudditi. Architettura da de-costruire, reset psico-territoriale, bouleversement creativo.
     Punto di partenza, tra riva e ‘deriva’: la metropoli. Ritmo veloce, giungla di stimoli, sensazioni e immagini. Versus: l’ambiente rurale, dal ritmo lento, più abitudinario e uniforme. “Più la folla è densa, più ci sentiamo soli”, così Zygmunt Bauman ‘liquida’ la ‘città del troppo’ (altro che villaggio globale… Troppo annacquato: perciò i localismi stavano tornando a galla). Ma anche del troppo poco, del troppo uguale, dell’indistinto. E dell’outlet (e dei continui outing e coming out). Città-teatro-off, metropoli del ‘passaggio veloce’, del nulla – anche se iper… (e quella di Marc Augè non è un’iperbole: passiamo la maggior parte della nostra esistenza in ‘non-luoghi’, dove si consuma il presente e si abortisce l’avvenire).
     La metropoli del denaro e di Mammona versus la campagna del baratto (e della mamma, quella con le tette gonfie di latte). Ma anche lo sfilacciamento del tessuto comunitario – altro che manna – a vantaggio della scolorita ‘stoffa’ periurbana (le periferie anonime e suicidofile, ipermercati inclusi, per quanto architettonicamente ben disegnati). Luoghi, non-luoghi? Vita, non-vita? Il bello non ha prezzo.
     Vita tra i confini. Identità versus alterità. Ma ancor di più: alterità nell’identità. Equilibrio in bilico. Città plurale, campagna singolare. Spaesamento. Urbanizzazione selvaggia. Portici, shopping malls, clochardization. Marginalità inclusiva, gentrification elitaria. Minimal o segno ipergrafico. Fast-food versus slow-food. Boutique versus ipermercato? Un po’ l’uno un po’ l’altro. Ma con juicio.
     Adelante. Ingoiare, piluccare. Vivere, sopravvivere. Morire, sognare, svegliarsi, risvegliarsi. Fare del silenzio un’opportunità, un ‘possibile appuntamento’ per ricevere intuizioni dal superconscio. Il silenzio della natura che (tra cinguettii e fruscii) annacqua l’ebbrezza urbana. Vivere tra i margini (e, spesso, sconfinare…). Questo l’universo quotidiano. Ma anche l’intellettualità sofisticata, la riservatezza fino alla ritrosia, il formalismo blasé e il distacco anodino, il tempo che tutto scandisce e cronometra: questa la metropoli e i suoi ‘numeri’. Ma dietro il numero c’è Dio…
(Tratto da Gocce di pioggia a Jericoacoara)

lunedì 29 luglio 2019

NEW YORK, NEW YORK


NEW YORK, NEW YORK

“Non vedi come soffrono le coppie? Già quando l’amore è felice e i corpi si congiungono, non riescono a saldarsi, a confondersi in un solo essere. Così nasce la lotta. Ci logoriamo, consumiamo le forze, passiamo i giorni sotto il capriccio altrui.” 
     Sì, New York era quanto mai affascinante nei contrasti. Proprio come gl’innamorati tormentati di Lucrezio. Città bellicosa, ma anche capricciosa: uomo, donna, giovane, bambina, un po’ granny. Smemorata. Stratificata, sedimentata, eppur sempre nuova. Da grammy award. Contemporanea. Da logorio della vita moderna (e sempre vive, mai morte, le memorie logorroiche del passato – mai remoto). Una città transazionale (oltre che, lapalisse, trans-nazionale). Una Lipstick Jungle. Una città alla Ken Wilber (il guru della Nuova Era Integrale): Sex Ecology Spirituality.
     S.E.S. Sex and the City. 911. SOS. Città alfanumerica. Santa e santona. Alfa e omega. Una Woodstock alla Andy Warhol, moltiplicata e diluita. Un po’ Marilyn, un po’ Manson, un po’ Santa Claus. Con tracce diffuse di Micromega (gli intellettuali radical-chic non si erano ancora defilati, tutt’altro). Megagalattica, colta, città da cult movie e dai mille culti (in questo le ricordava Rio e, pur non avendola toccate, se non con le mani di Tomás, San Paolo e Brasilia). Città da assaggiare, centellinare, pasteggiare e poi vivere di corsa. Mai in clausura.
     Una blade runner spuntata ma ancora capace di radere. E tagliare. Mani di forbice. Arianna, dacci un taglio! Take it easy. Sì, lei poteva… ma non se ne era mai resa, realmente, conto (lo stesso poteva dirsi per Lorenzo: i due, nella stessa città, nello stesso quartiere, nello stesso ‘maxi-progetto’. Ma su ‘piani’ diversi – almeno all’inizio).
     Per sintonizzarsi con l’ambiente, Arianna fece il tour di rito tra le vestigia del postmoderno: innanzi tutto, l’AT&T, in Madison Avenue, svettante tra la 55th e la 56th Street; poi, of course (e di corsa), il sexy Lipstick, il rossetto per le labbra carnose di New York (tre costruzioni in granito rosa, ciascuna di trentacinque piani, all’intersezione tra la Third Avenue e la 53rd Street); di seguito, più alla mano, il grattacielo della IBM, dalla grande hall vetrata; infine, più giù, verso la downtown di Manhattan, tra la 34th e la 38th, vicino alle sponde dell’Hudson, lo Jacob Javits Convention Center. Una cascata di cristallo che non mancò di bagnarla, quasi sommergerla (lei che era sopravvissuta a quelle dell’Iguaçu – bagnatasi solo col pensiero).
     Ancor umida, un’ultima vasca: la Trump Tower, al cui interno un architetto italiano – così aveva letto da qualche parte (ma non si ricordava il nome, né della rivista né del collega – ormai anche lei era del giro…) – aveva realizzato un appartamento fabulous, con altrettanto affaccio gorgeous su Central Park.
     Questo il safari di Arianna nella Lipstick Jungle (e qualche avanzo di savana). Bungle in the jungle. Senza bunga bunga. Insomma, più o meno lo stesso tour di Lorenzo, ma non sincronizzato. Two italians in New York.

      Ave Madison, la moda sia con te… Compressa tra la Fifth e la Park Avenue, la Madison Avenue si era fatta strada ed era diventata l’epicentro della haute couture. Di lusso, in particolare nei blocks tra la 58th e la 68th street. Da visitare, magari solo per (as)saggiare l’ultimo trend in tema di store-design. Armani, Hermès, Saint Laurent, ma anche Tod’s, Pomellato, Etro. Non solo Little Italy… Un cashmere da Loro Piana per Lorenzo? Delle scarpe su misura da Berluti? Ma che idee le venivano in testa… Frullato di pasta frolla. Dai, Arianna, non farti mettere in berlina, ributtati tra la folla!
     E così fu. Ma sempre nella Madison. Gorgeous (entrambe, lei e la avenue). A ritmo di hully-gully tra le limousine in attesa del rientro dalla spesa e le mamme-shopping con annesso carrozzino. Del resto, quel che più l’intrigava, le gallerie d’arte, non latitavano certo (e nemmeno le jewelries – Arianna in the sky with diamonds).
     Latte fresco per la sua gola d’artista. Riuscì a farsi Gagosian e Acquavella, due delle gallerie più al top, ma lo Whitney Museum avrebbe dovuto attendere il prossimo stop di Arianna, tutta zigzagante tra impegni e svaghi da marciapiede. Magari dopo aver piluccato qualcosa a uno dei tavolini all’aperto di La Goulue (un must: ma per lei, poco gourmand, i peccati di gola culinari erano solo veniali). Oppure, solo un caffè espresso al Sant’Ambroeus.
     Dopo la corsa a ostacoli, un salto (indietro) a Prada (l’aveva involontariamente glissato): un virtuale omaggio a Rem Koolhaas, il ‘suo’ progettista d’interni, quello del quasi trentennale Delirious New York’ – manifesto retroattivo per Manhattan – e del freschissimo scandalous ‘Junkspace’. Più per sorbirsi l’’onda’ che per acquistare un vestito (il diavolo veste Prada, ma lei, la proda? In ogni caso, al diavolo piace anche dolce…).
     E poi, fatto lo spelling di Alphabet City (già ghetto con accenti bohèmien, ora yuppy-do), in piena trebisonda un tuffo a Soho, per qualche Basquiat sui muri. Infine, back al suo loft di Tribeca (un miniappartamento temporaneo solo per lei – courtesy della firm – ricavato all’apice di un loft: nei suoi anni in fiore aveva fatto pure il sofa-surfing, ma ora era più stanziale).
     Gettato nel ‘canale’ il ‘triangolo’ stra-cult (Tribeca) – ma non prima di aver cenato (questa volta non con l’immaginazione) in un lounge-restaurant nel cuore di Nolita, il quartiere cool, il più amato dai fashionist –, passò dall’empireo a nord di Little Italy (NoLIta) agl’inferi di Chinatown, sempre facendosi trasportare dalla corrente. Finché approdò. Strano, per un felino come lei, quest’amore per l’acqua. E in questo lei era una ‘gatta’: indipendente, free cat (ex fricchettona), spirito libero ma pur capace di relazioni intense. In the cut. In grado di mantenere il giusto distacco. E di passare dalla banchina al cat-walk e poi giù fino agli abissi con la massima nonchalance. Cutty Sark.
     Anche lei un po’ strega (o fata?), avviluppata da quell’aura che (cir)confonde le donne e le rende magiche e magnetiche (ahimè, non tutte). Circonfusa da un alone di mistero, esploratrice nella giungla dell’esistenza, osservatrice capace di adattarsi alle situazioni e all’ambiente. Pronta a mangiarsi i momenti di piacere. Lentamente, senza fretta, senza stress. Cute shark.
     Nella metropoli della fretta (ma andiamoci piano…) Arianna passeggiava, nel vero senso della parola. Camminava lentamente, sorbendosi marciapiedi, negozi, case, persone, con aria un po’ svogliata e indolente. In controtendenza rispetto alla montante fretta, non solo delle macchine, ma pure dei pedoni (che ormai, si sa, ‘viaggiano’ con un incremento di velocità del dieci per cento rispetto a qualche decennio fa. Ma New York rimaneva stabile nei suoi ritmi e lei contribuiva a questo). Tutto in Arianna era antico ma anche maledettamente moderno, cutting edge.
     Ogni tanto si fermava, si guardava intorno, in alto, in basso… Chiacchierava con lo sconosciuto di turno, e non solo per rinfrescarsi la lingua (yankee). Frenetica nello scopo ma placida nell’azione. Decisa, motivata, ma work-sober, quasi astemia. Come sempre (all over the world: ma le mancava l’Oceania; quanto all’Africa, solo una palpatina alla Tunisia), piluccava, sgranocchiava, centellinava i posti e la gente. Sapidamente, lentamente, con sapienza e coscienza. Ed era pure in grado di capire quando occorreva intervenire e quando doveva mettersi da parte. Capace di emozioni (nel dare e nel ricevere), ma anche attenta a quelle degli altri. Sempre in equilibrio tra ragione e sentimento (un cavo teso su cui Lorenzo spesso rischiava di scivolare. Ma anche lei era caduta un paio di volte. E meno male che c’era la rete…).
     Arianna, non solo esploratrice, ma ricettiva ed esperta comunicatrice. Un libro aperto. Una pietra angolare.
     
     Quel che più intrigò Arianna del ristorante non fu tanto il cibo (pur ottimo: non ricordava che a New York si mangiasse così bene: ma, sai, i tempi…) – bistronomique, ristorante d’haute cuisine – o lo shot di mojito alla Hemingway sulle onde di Come with me, quanto la stimmung del locale: non solo ristorante, wine room, bar dall’atmosfera (e musica) lounge e alla Norah Jones, ma soprattutto library, un po’ loft un po’ soft. Il posto giusto prima del can-can hard degli incontri di lavoro che l’avrebbero fatto ballare (non da sola) sin dal giorno dopo, non si sa fino a quando. Minimale nel design. Il ristorante in questo era l’opposto del suo progetto: spettacolare (solo ora l’aveva capito), reboante ma non ridondante. Dondolante tra architettura next-age (oltre il New Age) e decostruttivista. Nondimeno, asciutto, pur nella sua esuberanza creativa. Senza inutili fronzoli. E soprattutto, non spettacolo da reality (l’impoverimento, la schiavizzazione mediatica, la negazione della vita reale...).
     Uscì dal ristorante. Senza fretta. Sazia ma leggera. A frotte, scaglionate, bionde e brune taglia trentotto (dietro cui si nascondevano le ‘quarantadue’), stilettanti e marziali, quasi sempre running, uscivano una dietro l’altra da uno skyscraper fashion alla Runway. Glamourous, semplicemente glam (il grattacielo e le valkirie: black and/or white, ma sempre valchirie). Poca la gente qualunque, predominavano le donne: belle, alte, magre, anche quando fluttuavano sugli sneakers (ma Arianna – oscillante tra il quarantaquattro e il quarantasei – sospettava che fossero compari delle Ferragamo-style: solo che le stilose ma comode Gisele & co. avevano fatto lo scambio di scarpe una volta fuggite dalla gabbia dorata).
     Dolce & Gabbana, Armani, Versace. Gucci, Fiorucci… Ucci ucci, che belli ‘sti cristianucci. Le sembrò pure di vedere, sommerso dalle (bi)onde schiumeggianti, emergente dalle folate di rimmel, Travis Trimmel, quel gran pezzo dell’Ubaldo – capelli lunghi e biondi, a far pendant ai suoi, e dispari con quelli di Lorenzo –, il modello a piedi nudi e jeans Calvin Klein (sempre lui, ma lei preferiva i profumi di Ralph Lauren e i denim di Tommy Hilfiger: sì, quello della ‘scivolata’ razzista – di questo l’avevano accusato –, ma Tommy aveva chiarito, black & white). D’altronde, il luogo era quello che era, giusto che il Q. F. (il quoziente di fascino, non sempre in sintonia col Q. I.) fosse particolarmente alto.
     A fare da strampalato (shocking, non tanto rosa) contraltare, un gruppo di freegan, rebels di nuova generazione, stazionava davanti al supermarket di fronte al ristorante (forse tra loro qualche squatter: Arianna aveva studiato, nella fase di passaggio dal ‘cucchiaio alla città’, il fenomeno dei giovani ‘abusivi’. Anche New York aveva la sua ‘ombra’: la comunità See Squat del Lower East Side, quartiere supertramp ma anche trendissimo). In agguato, pronti a raccogliere cibo gratis. Il loro quotidiano trash tour: rimedio (commedia – tragica) da Terzo Mondo allo spreco imperante (nel Primo Mondo). Il momento glorioso del dumpster diving per arraffare sempre più. La manna non viene sempre dal cielo… (e un appena sopraggiunto gruppo di cristiani punk e Jesus freaks lo confermava).
    Jesus freaks, out in the street, handing tickets out for God. Un mimo completamente bianco – tiny dancer – chiudeva (in bellezza) la scena. Completamente immobile. A far da pendant alla valkiria (ancor più bella) tacchi a spillo e braccio evocatore di taxi costantemente alzato (e le gambe da cerbiatto in perenne valzer).
     New York, ombelico (con piercing) del mondo.
(Tratto da Gocce di pioggia a Jericoacoara)

domenica 7 luglio 2019

PENTECOSTAGE


PENTECOSTAGE

Il sole batte. Per rinfrescarsi, un po’ di lettura. Impegnativa, forse, ma utile, soprattutto allo spirito. E se il sole batte lì dove duole, lo spirito soffia dove e come vuole…
P.S. Se la volta scorsa avevo postato il primo capitolo, ora posto la seconda metà del capitolo 42 del mio “Gocce di pioggia Jericoacoara” (il romanzo ha 67 capitoli…).

«“La vera arte della scoperta consiste non nel trovare nuove terre ma nel vedere con occhi nuovi” – sono parole di Marcel Proust (e Lorenzo le ripeteva spesso. Qui servirono a dare un po’ di respiro alla sua tirata). Gli errori sono buoni, utili, ci aiutano a imparare e crescere: più profonda è la valle, più alta la cima. Cerca l’esperienza delle vette! Ogni persona è, potenzialmente, unica e valida; e non è retorica, o populismo buonista. Il mondo ha bisogno di te. E qui divento predestinazionalista: tu stessa hai detto di essere stato prescelta (ma Lorenzo non aveva ancora compreso – o faceva solo finta? – di che pasta fosse Galatea). Ogni accadimento della tua vita ti ha portato una lezione: c’è una benedizione in ogni maledizione, una maledizione in ogni benedizione. Ogni cristiano, ogni nuovo nato nello Spirito, ha ricevuto la promessa senza prezzo di una vita gioiosa e abbondante, ma quasi mai scopre come viverla (la lezione di Gaia continuava a sortire effetti). Specialmente chi è ‘nato di nuovo’… Il mio – almeno quello cui con cui mi sto misurando, tra un progetto e una lettura – è christian life coaching: è una partnership, un partenariato tra me, te e Lui/Lei, lo Spirito Santo. Sì, lo Spirito, la Ruah, è parte integrante della partnership. Lei trasforma la tua vita da dramma e caos in pace interiore e calma. No more drama, canta la rinata Mary J. Blidge. Connessi allo Spirito possiamo esprimere e sperimentare le nostre personali terapie, spiritualità e liturgie, singole o collettive, attraverso le quali alimentare e simboleggiare una nuova coscienza biofisica. E stratosferica. Bios, non abios. Dobbiamo riconoscere che il cambiamento di coscienza comincia da noi stessi. Lo dice pure Krishnamurti (Lorenzo solleticò una vecchia passione di Galatea – c’era pure Yogananda). Abbiamo bisogno di terapie e spiritualità risanatrici, di crescita interiore. Dobbiamo recuperare il nostro corpo-psiche-spirito, dobbiamo imparare di nuovo a respirare, a sentire la nostra energia vitale. A staccare dalla nostra anima naturale – nephesh – lo spirito divinamente infuso in noi, la neshamà, la ‘scintilla divina’ nell’uomo. Salute fisica e salute psico-spirituale debbono andare a braccetto: purificazione dell’anima e benessere del corpo – shalom in ogni area della propria vita (compresi denaro e sesso) – sono necessari affinché lo spirito che è in noi possa compiere con energia, dynamis, la propria missione di vita. Come vedi, non c’è bisogno di essere buddisti per enunciare concetti noti anche a Gesù, ma da lui ‘riformati’, ristrutturati, potenziati.» 
  Lorenzo – sarà stata la posizione del loto – era un fiume in piena (non più uno wadi nel deserto).
   «Dobbiamo rubare tempo alla fretta per contemplare la natura, tornare in contatto con la terra vivente, dipingere, scrivere poesie e romanzi, immergerci nel sacro. Non solo il cielo, ma la terra, il suolo, il sottosuolo se è necessario. Le comunità del ‘nuovo essere’ e della ‘nuova coscienza’ devono imparare a produrre da se stesse le proprie liturgie, il proprio life-style, e portarli per strada… Ciò di cui abbiamo bisogno non è solo ottimismo – al bando il pessimismo –, ma, soprattutto, e non sembri banale, scontato o mieloso, l’amore per gli altri, per la vita e per la nostra madre comune, Gaia (il richiamo a quel nome era troppo forte per Lorenzo). E te lo dico, non da new-ager, ma da cristiano della Pentecost-Age. Ti piace il termine? È mio, made in Lorenzo… (ma anche Julim l’aveva usato… sincronismo pneumatico?
   Cercò d’imprimere, subliminalmente, questo marchio di fabbrica – Pentecostage – nell’anima di Galatea, ma scivolò sul bagnato. Capì, ancor più di prima, che c’era qualcosa di scivoloso, di torbido, di sdrucciolevole, in lei.
   «Dobbiamo ‘aiutare la persona ad aiutarsi’: una persona ha già in sé le risorse necessarie, ma bisogna tirarle fuori. Chissà perché, rimangono sempre in letargo! Occorre, poi, focalizzarsi sulla persona più che sul problema. Bisogna svezzarla, educarla. Educazione come e-ducere, condurre fuori. Quindi: educazione all’ascolto interno, all’incontro-scontro coi diversi aspetti della personalità, attenzione alle voci più sottili, quelle tralucenti dai livelli più alti dell’Io (ma anche quelli più bassi: tutto fa brodo). La Grazia – l’aspetto luminoso di Dio – dà luce alle tante ombre della nostra vita quotidiana. Alla luce della fede – che chiede – e della grazia – che risponde – possiamo accettare con gioia la vita e accogliere con cuore allegro, con ‘sobria ebbrezza’, gli altri. E così sconfiggeremo anche la depressione, il problema più comune che sta affliggendo l’umanità, specie nei paesi più civilizzati. Lo sai che nella Bibbia se ne parla? Per esempio nei Salmi, ma anche San Paolo ne tratta nelle sue Lettere. Ma egli parla anche della fiducia che ha per mezzo di Gesù Cristo, e non per merito suo, ma perché infusa da Dio. E dello Spirito che lo rivivifica. Vale anche per noi.»

     Ripresasi dopo un lungo nostalgico sospiro interiore (condiviso, anche se su altre cavità dell’anima, da Lorenzo), Galatea aprì bocca (sempre ben calibrata, e bombata) e chiosò.
     «Io sono ciò che ho. L’avere può coincidere con l’essere, ma solo se interpretato alla Sartre. Esistenza viva, goduta, oltre la nausea e la noia. Vita bacchica, alcolica… Bacco rappresenta la gioia, l’ebbrezza della vita. Solo se Cristo si fa Bacco, possiamo andare d’accordo. Perbacco, Lorenzo, vedo che non sei un bacchettone. Già lo sapevo, ma ne ho avuto la conferma. Da come bevevi… Mi hai assaporato e pasteggiato come neanche il miglior sommelier…»
     Lorenzo rise con nonchalance e andò a scalare:
     «Cristo è al di là dei nostri luoghi comuni, o di quello che la Chiesa, le varie chiese, confessioni e conventicole ci propinano. Spesso ce ne danno anche un buon ritratto, anche se mi fido più dei teologi, malgrado quello che si possa pensare di loro. Sì, Gesù era anche un buon maestro, ma soprattutto un ‘salvatore’. Alla giudaica, nel senso di portatore di shalom’, di vita ‘piena’. Hai ragione, in Cristo c’è pure la manifestazione di Dioniso, come archetipo o tipo, intendo. E Gesù Cristo è davvero un bel tipo! Tornando all’Ellade, Dioniso è anche il movimento del sole, della luce, mentre Apollo ne simboleggia la fissità, la staticità. In Cristo i due ‘tipi’ – Apollo e Dioniso – si fronteggiano, ma è quest’ultimo a vincere. Infatti, se Dioniso rappresenta l’eterno ritorno, Apollo è la freccia del tempo. Tuttavia, Cristo è sì il tempo orientato verso la Pienezza, ma è anche un ritorno allo stato primordiale. Il boomerang torna sempre indietro, ma se colpisce il bersaglio cade a terra, ferma il tempo…»
     Lorenzo si arrestò un attimo e rilanciò il boomerang.
     «Le difficoltà ci saranno sempre, ma sempre meno. La differenza è su come risponderai. Il christian coach riallinea il fuoco perduto (e spento) sul proposito di Dio. E lo riaccende. Ne L’Anticristo c’è un passo significativo, in cui Nietzsche, l’anticristiano, nel ri-valutare la figura di Gesù (il Cristo gli piace meno, anzi punto), disarcionando quella (secondo lui, e non solo) costruita da Paolo, sostiene che, non nella ‘fede’, ma nel ‘fare’ sussiste e consiste il vero messaggio del messia... Ma fede è azione… La vera fede è sostanza. Sub-stantia: ‘sta sotto’, ma quando esce allo scoperto va sopra, va dentro, è azione, energia, dynamis. Parafrasando un detto ‘eroico’, il nostro Onore si chiama Fede! Tornando alla teoria e alla prassi, terapia e counseling sono generalmente focalizzati sulla soluzione di uno specifico problema: bisogna scavare nel passato per andare a fondo e trovare lo strato che, cedendo, ti ha fatto affondare o, nel migliore dei casi, perdere l’equilibrio. Tuttavia, quando il problema è risolto, la terapia e il counseling finiscono di dare frutto e non ti fanno andare avanti. Il life coaching, al contrario, parlo in particolare del christian coaching, si concentra nell’aiutarti a inverare i desideri che Dio ha posto nel tuo cuore. Più che scavare, taglia, separa: scinde il ‘giorno’ dalla ‘notte’, il ‘sopra’ dal ‘sotto’, il ‘mare’ dalla ‘terra’, ma poi li completa e li adorna… E poi si riposa (ma sotto sotto è sempre attivo). Ma se è  necessario, li rimescola, anche temporaneamente, per dare nuove soluzioni. Per dare alla luce un nuovo giorno. Solve e coagula: non tutto il male viene per nuocere… Coach e coachee, sintonizzati tra loro e con l’obiettivo volto a Cristo, insieme creano una visione del futuro sotto la regia di Dio e l’assistenza dello Spirito Santo. Se il tuo ‘book’ è scelto da Colui che fa il ‘casting’, i giochi sono fatti. Rien va plus.»