mercoledì 31 luglio 2019

READING FROM NEW YORK


READING FROM NEW YORK

Mela verde, New York, acerba, matura, marcia. Cucina dell’inferno, salotto del paradiso. Purgatorio. Lembi di limbo. Città lombrosiana, più che ambrosiana, psicanalizzava Lorenzo (che un po’ guru lo era) nelle sue esordienti promenade all’ombra dei grattacieli. Città fallica, ma non fallita. Folle. Frullata. La folla che viaggia a folle. Frange di tempo. Città senza frangia.
     “New York é una città brutta e sporca. Il suo clima é indecente. Le sue strategie politiche terrorizzerebbero qualsiasi bambino. Il suo traffico é una follia. La sua competitività é micidiale. Ma su una questione non vi sono dubbi: dopo essere vissuti a New York, dopo aver fatto della città la vostra casa, nessun altro luogo potrà più reggere il confronto.”
     Città di cui fare esperienza. Con innocenza. Da avventura culturale. E anche trend-setter. E Lorenzo aveva tentato il grande salto. Un progetto ‘tosto’ il suo, tostato al punto giusto. Ma su cui non avrebbe puntato un cent. Rien ne va plus. E la pallina si era fermato sul numero giusto. Zero (a proposito, Lorenzo era un fan dei 50 Cent. Forte per un cinquantenne…).
     “Le città sono stati d’animo, stati emotivi, umori.” Con o senza John Steinbeck e Saul Bellow. Città da abbandonare, ma per andare dove? “When you leave New York you ain’t going nowhere.” Eppure, “Living in New York is never easy” (e nemmeno leaving). Vivi e lascia vivere. Da svegli, dormendo o in fase rem, New York è assolutamente da vivere, fosse anche “vedi New York e poi muori...” E Lorenzo, che pure mai come in quello scorcio esistenziale (uno squarcio di vita autentica) voleva vivere, si fece ‘prendere’ dal gorgo macro-metropolitano (e dal suo gergo). Dal vortice tritarifiuti, dalla fonderia di corpi e anime, dal laboratorio alchemico.
     Reading from New York. Città biblica. Come la Bibbia: puoi rileggerla infinite volte e ogni volta scopri un senso nuovo. Settanta sensi. Città fucina, laboratorio di un futuro charming. E il presente? Il sole che sbanda sui muri di vetro, le pareti di mattoni che si fanno rubizze… New York, città di rubino, cristallo e porcellana (cinese). Paradiso, inferno, purgatorio… (il limbo era passato di moda). Chiasso generale tra i silenzi individuali. La musica? From the beginning, di Emerson, Lake e Palmer. Così  sentiva  (come sintesi) il ‘suono’ della metropoli in quel particolare stato d’animo (alla Emerson: non il pop-singer, ma Ralph Waldo, sempre lui, il filosofo del ‘divenire’, quello per cui “le preghiere degli uomini sono una malattia della volontà e i credi una malattia dell’intelletto”). Sì, questo il suo preludio nuiorchese. Un po’ alba di Pugnochiuso un po’ notti al Cairo. Una malattia e una preghiera. Ma lui ora era in convalescenza. E una volta guarito, avrebbe vissuto d’altro: di architettura, forse di preghiera…

     Era il Kairòs, il calvario era finito (dopo la salita, la discesa) e le lancette si erano fermate: a mezzogiorno. Prima l’est (Pugnochiuso: una porta, una delle tante, sull’Oriente), poi l’ovest (New York, un portone sull’Occidente). Un’oasi nel caos del tempo. Una sosta tra volontà e immaginazione. E dentro questa, un viaggio nella selva oscurata dagli skyscrapers, attraverso spazi, tempi, culture e identità differenti, ma incidenti, intersecatisi in un complesso network di rapporti ed effetti. E affetti.
     “New York è dove tutti vengono a farsi perdonare” confessa in Shortbus il vecchio gay, già sindaco (alla frutta) della Grande Mela. Sì, Shortbus, il gay-movie un po’ a Le fate ignoranti (ma oltre misura…), porno qui porno là, ma d’autore (film trans-portato al Festival di Cannes; portata un po’ indigesta…), che ben descrive la metropoli metrosexual. Alla Beckham.
     Posh. Qui, più che altrove, Lorenzo avvertiva la disseminazione della cultura, costantemente contrattata e in divenire. Eppure, era solo da un paio di giorni che camminava col naso in su. E senza puzza sotto le narici. La metropoli puzzava, la campagna odorava? Era tutto oro quel che luceva? La metropoli versus la città rurale. Due realtà sostanzialmente diverse secondo Georg Simmel, filosofo quanto mai attento alla realtà urbana (Lorenzo se n’era occupato ultimamente, in un breve saggio su un giornale locale. Discettando, una ciliegia tira l’altra, anche di Kevin Lynch, Kurt Lewin e, dulcis in fundo, della percezione-Gestalt dell’immagine urbana).
     Due realtà fisiche e due gestalt – forme, strutture – che incidono diversamente sul modus viventi dei loro abitanti. E sull’immaginario urbano. Imago mundi. L’architettura che ‘co-stringe’ fisicamente, psichicamente, ‘pneumaticamente’, i suoi sudditi. Architettura da de-costruire, reset psico-territoriale, bouleversement creativo.
     Punto di partenza, tra riva e ‘deriva’: la metropoli. Ritmo veloce, giungla di stimoli, sensazioni e immagini. Versus: l’ambiente rurale, dal ritmo lento, più abitudinario e uniforme. “Più la folla è densa, più ci sentiamo soli”, così Zygmunt Bauman ‘liquida’ la ‘città del troppo’ (altro che villaggio globale… Troppo annacquato: perciò i localismi stavano tornando a galla). Ma anche del troppo poco, del troppo uguale, dell’indistinto. E dell’outlet (e dei continui outing e coming out). Città-teatro-off, metropoli del ‘passaggio veloce’, del nulla – anche se iper… (e quella di Marc Augè non è un’iperbole: passiamo la maggior parte della nostra esistenza in ‘non-luoghi’, dove si consuma il presente e si abortisce l’avvenire).
     La metropoli del denaro e di Mammona versus la campagna del baratto (e della mamma, quella con le tette gonfie di latte). Ma anche lo sfilacciamento del tessuto comunitario – altro che manna – a vantaggio della scolorita ‘stoffa’ periurbana (le periferie anonime e suicidofile, ipermercati inclusi, per quanto architettonicamente ben disegnati). Luoghi, non-luoghi? Vita, non-vita? Il bello non ha prezzo.
     Vita tra i confini. Identità versus alterità. Ma ancor di più: alterità nell’identità. Equilibrio in bilico. Città plurale, campagna singolare. Spaesamento. Urbanizzazione selvaggia. Portici, shopping malls, clochardization. Marginalità inclusiva, gentrification elitaria. Minimal o segno ipergrafico. Fast-food versus slow-food. Boutique versus ipermercato? Un po’ l’uno un po’ l’altro. Ma con juicio.
     Adelante. Ingoiare, piluccare. Vivere, sopravvivere. Morire, sognare, svegliarsi, risvegliarsi. Fare del silenzio un’opportunità, un ‘possibile appuntamento’ per ricevere intuizioni dal superconscio. Il silenzio della natura che (tra cinguettii e fruscii) annacqua l’ebbrezza urbana. Vivere tra i margini (e, spesso, sconfinare…). Questo l’universo quotidiano. Ma anche l’intellettualità sofisticata, la riservatezza fino alla ritrosia, il formalismo blasé e il distacco anodino, il tempo che tutto scandisce e cronometra: questa la metropoli e i suoi ‘numeri’. Ma dietro il numero c’è Dio…
(Tratto da Gocce di pioggia a Jericoacoara)

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