lunedì 29 luglio 2019

NEW YORK, NEW YORK


NEW YORK, NEW YORK

“Non vedi come soffrono le coppie? Già quando l’amore è felice e i corpi si congiungono, non riescono a saldarsi, a confondersi in un solo essere. Così nasce la lotta. Ci logoriamo, consumiamo le forze, passiamo i giorni sotto il capriccio altrui.” 
     Sì, New York era quanto mai affascinante nei contrasti. Proprio come gl’innamorati tormentati di Lucrezio. Città bellicosa, ma anche capricciosa: uomo, donna, giovane, bambina, un po’ granny. Smemorata. Stratificata, sedimentata, eppur sempre nuova. Da grammy award. Contemporanea. Da logorio della vita moderna (e sempre vive, mai morte, le memorie logorroiche del passato – mai remoto). Una città transazionale (oltre che, lapalisse, trans-nazionale). Una Lipstick Jungle. Una città alla Ken Wilber (il guru della Nuova Era Integrale): Sex Ecology Spirituality.
     S.E.S. Sex and the City. 911. SOS. Città alfanumerica. Santa e santona. Alfa e omega. Una Woodstock alla Andy Warhol, moltiplicata e diluita. Un po’ Marilyn, un po’ Manson, un po’ Santa Claus. Con tracce diffuse di Micromega (gli intellettuali radical-chic non si erano ancora defilati, tutt’altro). Megagalattica, colta, città da cult movie e dai mille culti (in questo le ricordava Rio e, pur non avendola toccate, se non con le mani di Tomás, San Paolo e Brasilia). Città da assaggiare, centellinare, pasteggiare e poi vivere di corsa. Mai in clausura.
     Una blade runner spuntata ma ancora capace di radere. E tagliare. Mani di forbice. Arianna, dacci un taglio! Take it easy. Sì, lei poteva… ma non se ne era mai resa, realmente, conto (lo stesso poteva dirsi per Lorenzo: i due, nella stessa città, nello stesso quartiere, nello stesso ‘maxi-progetto’. Ma su ‘piani’ diversi – almeno all’inizio).
     Per sintonizzarsi con l’ambiente, Arianna fece il tour di rito tra le vestigia del postmoderno: innanzi tutto, l’AT&T, in Madison Avenue, svettante tra la 55th e la 56th Street; poi, of course (e di corsa), il sexy Lipstick, il rossetto per le labbra carnose di New York (tre costruzioni in granito rosa, ciascuna di trentacinque piani, all’intersezione tra la Third Avenue e la 53rd Street); di seguito, più alla mano, il grattacielo della IBM, dalla grande hall vetrata; infine, più giù, verso la downtown di Manhattan, tra la 34th e la 38th, vicino alle sponde dell’Hudson, lo Jacob Javits Convention Center. Una cascata di cristallo che non mancò di bagnarla, quasi sommergerla (lei che era sopravvissuta a quelle dell’Iguaçu – bagnatasi solo col pensiero).
     Ancor umida, un’ultima vasca: la Trump Tower, al cui interno un architetto italiano – così aveva letto da qualche parte (ma non si ricordava il nome, né della rivista né del collega – ormai anche lei era del giro…) – aveva realizzato un appartamento fabulous, con altrettanto affaccio gorgeous su Central Park.
     Questo il safari di Arianna nella Lipstick Jungle (e qualche avanzo di savana). Bungle in the jungle. Senza bunga bunga. Insomma, più o meno lo stesso tour di Lorenzo, ma non sincronizzato. Two italians in New York.

      Ave Madison, la moda sia con te… Compressa tra la Fifth e la Park Avenue, la Madison Avenue si era fatta strada ed era diventata l’epicentro della haute couture. Di lusso, in particolare nei blocks tra la 58th e la 68th street. Da visitare, magari solo per (as)saggiare l’ultimo trend in tema di store-design. Armani, Hermès, Saint Laurent, ma anche Tod’s, Pomellato, Etro. Non solo Little Italy… Un cashmere da Loro Piana per Lorenzo? Delle scarpe su misura da Berluti? Ma che idee le venivano in testa… Frullato di pasta frolla. Dai, Arianna, non farti mettere in berlina, ributtati tra la folla!
     E così fu. Ma sempre nella Madison. Gorgeous (entrambe, lei e la avenue). A ritmo di hully-gully tra le limousine in attesa del rientro dalla spesa e le mamme-shopping con annesso carrozzino. Del resto, quel che più l’intrigava, le gallerie d’arte, non latitavano certo (e nemmeno le jewelries – Arianna in the sky with diamonds).
     Latte fresco per la sua gola d’artista. Riuscì a farsi Gagosian e Acquavella, due delle gallerie più al top, ma lo Whitney Museum avrebbe dovuto attendere il prossimo stop di Arianna, tutta zigzagante tra impegni e svaghi da marciapiede. Magari dopo aver piluccato qualcosa a uno dei tavolini all’aperto di La Goulue (un must: ma per lei, poco gourmand, i peccati di gola culinari erano solo veniali). Oppure, solo un caffè espresso al Sant’Ambroeus.
     Dopo la corsa a ostacoli, un salto (indietro) a Prada (l’aveva involontariamente glissato): un virtuale omaggio a Rem Koolhaas, il ‘suo’ progettista d’interni, quello del quasi trentennale Delirious New York’ – manifesto retroattivo per Manhattan – e del freschissimo scandalous ‘Junkspace’. Più per sorbirsi l’’onda’ che per acquistare un vestito (il diavolo veste Prada, ma lei, la proda? In ogni caso, al diavolo piace anche dolce…).
     E poi, fatto lo spelling di Alphabet City (già ghetto con accenti bohèmien, ora yuppy-do), in piena trebisonda un tuffo a Soho, per qualche Basquiat sui muri. Infine, back al suo loft di Tribeca (un miniappartamento temporaneo solo per lei – courtesy della firm – ricavato all’apice di un loft: nei suoi anni in fiore aveva fatto pure il sofa-surfing, ma ora era più stanziale).
     Gettato nel ‘canale’ il ‘triangolo’ stra-cult (Tribeca) – ma non prima di aver cenato (questa volta non con l’immaginazione) in un lounge-restaurant nel cuore di Nolita, il quartiere cool, il più amato dai fashionist –, passò dall’empireo a nord di Little Italy (NoLIta) agl’inferi di Chinatown, sempre facendosi trasportare dalla corrente. Finché approdò. Strano, per un felino come lei, quest’amore per l’acqua. E in questo lei era una ‘gatta’: indipendente, free cat (ex fricchettona), spirito libero ma pur capace di relazioni intense. In the cut. In grado di mantenere il giusto distacco. E di passare dalla banchina al cat-walk e poi giù fino agli abissi con la massima nonchalance. Cutty Sark.
     Anche lei un po’ strega (o fata?), avviluppata da quell’aura che (cir)confonde le donne e le rende magiche e magnetiche (ahimè, non tutte). Circonfusa da un alone di mistero, esploratrice nella giungla dell’esistenza, osservatrice capace di adattarsi alle situazioni e all’ambiente. Pronta a mangiarsi i momenti di piacere. Lentamente, senza fretta, senza stress. Cute shark.
     Nella metropoli della fretta (ma andiamoci piano…) Arianna passeggiava, nel vero senso della parola. Camminava lentamente, sorbendosi marciapiedi, negozi, case, persone, con aria un po’ svogliata e indolente. In controtendenza rispetto alla montante fretta, non solo delle macchine, ma pure dei pedoni (che ormai, si sa, ‘viaggiano’ con un incremento di velocità del dieci per cento rispetto a qualche decennio fa. Ma New York rimaneva stabile nei suoi ritmi e lei contribuiva a questo). Tutto in Arianna era antico ma anche maledettamente moderno, cutting edge.
     Ogni tanto si fermava, si guardava intorno, in alto, in basso… Chiacchierava con lo sconosciuto di turno, e non solo per rinfrescarsi la lingua (yankee). Frenetica nello scopo ma placida nell’azione. Decisa, motivata, ma work-sober, quasi astemia. Come sempre (all over the world: ma le mancava l’Oceania; quanto all’Africa, solo una palpatina alla Tunisia), piluccava, sgranocchiava, centellinava i posti e la gente. Sapidamente, lentamente, con sapienza e coscienza. Ed era pure in grado di capire quando occorreva intervenire e quando doveva mettersi da parte. Capace di emozioni (nel dare e nel ricevere), ma anche attenta a quelle degli altri. Sempre in equilibrio tra ragione e sentimento (un cavo teso su cui Lorenzo spesso rischiava di scivolare. Ma anche lei era caduta un paio di volte. E meno male che c’era la rete…).
     Arianna, non solo esploratrice, ma ricettiva ed esperta comunicatrice. Un libro aperto. Una pietra angolare.
     
     Quel che più intrigò Arianna del ristorante non fu tanto il cibo (pur ottimo: non ricordava che a New York si mangiasse così bene: ma, sai, i tempi…) – bistronomique, ristorante d’haute cuisine – o lo shot di mojito alla Hemingway sulle onde di Come with me, quanto la stimmung del locale: non solo ristorante, wine room, bar dall’atmosfera (e musica) lounge e alla Norah Jones, ma soprattutto library, un po’ loft un po’ soft. Il posto giusto prima del can-can hard degli incontri di lavoro che l’avrebbero fatto ballare (non da sola) sin dal giorno dopo, non si sa fino a quando. Minimale nel design. Il ristorante in questo era l’opposto del suo progetto: spettacolare (solo ora l’aveva capito), reboante ma non ridondante. Dondolante tra architettura next-age (oltre il New Age) e decostruttivista. Nondimeno, asciutto, pur nella sua esuberanza creativa. Senza inutili fronzoli. E soprattutto, non spettacolo da reality (l’impoverimento, la schiavizzazione mediatica, la negazione della vita reale...).
     Uscì dal ristorante. Senza fretta. Sazia ma leggera. A frotte, scaglionate, bionde e brune taglia trentotto (dietro cui si nascondevano le ‘quarantadue’), stilettanti e marziali, quasi sempre running, uscivano una dietro l’altra da uno skyscraper fashion alla Runway. Glamourous, semplicemente glam (il grattacielo e le valkirie: black and/or white, ma sempre valchirie). Poca la gente qualunque, predominavano le donne: belle, alte, magre, anche quando fluttuavano sugli sneakers (ma Arianna – oscillante tra il quarantaquattro e il quarantasei – sospettava che fossero compari delle Ferragamo-style: solo che le stilose ma comode Gisele & co. avevano fatto lo scambio di scarpe una volta fuggite dalla gabbia dorata).
     Dolce & Gabbana, Armani, Versace. Gucci, Fiorucci… Ucci ucci, che belli ‘sti cristianucci. Le sembrò pure di vedere, sommerso dalle (bi)onde schiumeggianti, emergente dalle folate di rimmel, Travis Trimmel, quel gran pezzo dell’Ubaldo – capelli lunghi e biondi, a far pendant ai suoi, e dispari con quelli di Lorenzo –, il modello a piedi nudi e jeans Calvin Klein (sempre lui, ma lei preferiva i profumi di Ralph Lauren e i denim di Tommy Hilfiger: sì, quello della ‘scivolata’ razzista – di questo l’avevano accusato –, ma Tommy aveva chiarito, black & white). D’altronde, il luogo era quello che era, giusto che il Q. F. (il quoziente di fascino, non sempre in sintonia col Q. I.) fosse particolarmente alto.
     A fare da strampalato (shocking, non tanto rosa) contraltare, un gruppo di freegan, rebels di nuova generazione, stazionava davanti al supermarket di fronte al ristorante (forse tra loro qualche squatter: Arianna aveva studiato, nella fase di passaggio dal ‘cucchiaio alla città’, il fenomeno dei giovani ‘abusivi’. Anche New York aveva la sua ‘ombra’: la comunità See Squat del Lower East Side, quartiere supertramp ma anche trendissimo). In agguato, pronti a raccogliere cibo gratis. Il loro quotidiano trash tour: rimedio (commedia – tragica) da Terzo Mondo allo spreco imperante (nel Primo Mondo). Il momento glorioso del dumpster diving per arraffare sempre più. La manna non viene sempre dal cielo… (e un appena sopraggiunto gruppo di cristiani punk e Jesus freaks lo confermava).
    Jesus freaks, out in the street, handing tickets out for God. Un mimo completamente bianco – tiny dancer – chiudeva (in bellezza) la scena. Completamente immobile. A far da pendant alla valkiria (ancor più bella) tacchi a spillo e braccio evocatore di taxi costantemente alzato (e le gambe da cerbiatto in perenne valzer).
     New York, ombelico (con piercing) del mondo.
(Tratto da Gocce di pioggia a Jericoacoara)

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