PARTICELLE ELEMENTARI
Verba
volant (come stringhe cosmiche), scripta manent (come quark plutonici).
Macchie uraniche d’inchiostro sotto
vetro (il display del computer), esprit
irenico, platonico, ironico, forse iranico (Zarathustra?). Particelle
elementari, staccatesi
da un magma incandescente e filanti senza direzione e senso. Pensieri e parole coagulatesi in
stringhe cosmiche (anche comiche), corde vibranti del mio pluriverso (canone inverso): stringhe aperte sull’universo per connettere le estremità di
pensieri a folle, stringhe chiuse sull’introverso
per accalappiare idee occhieggianti dall’ultramondo (il mio castello interiore,
l’empireo, la Sophia divina, la Scienza gaia?). Thriller… Con quanti denti le
parole mi mordevano! Ma ciò che più incidevano nel romanzo erano i silenzi:
“sguardi senza patria quaggiù, silenzi
più remoti dell’uranico vento…” Nondimeno, erano le parole a de-cidere, ad
agire, a in-cidere sui miei sentimenti.
Sono loro – verba, logoi, loghia, rhemata
– a configurare e a dare espressione alla mia necessità interiore (in attesa di trasfigurarla, di trovare la mia ‘dimensione’, la mia necessità più alta – insomma, diventare ciò che sono).
Vir
bonus dicendi peritus? Più
che altro, sono un malato – quasi allo
stadio terminale – di parole, specie di quelle fatte di silenzio (quanto al bonus ne avrei fatto volentieri a meno.
Non voglio sconti, figuriamoci regali…). Parole silenti. (“Chi parla non conosce. Chi
conosce non parla.” È il Tao Te Ching a dirlo). Dal sottile suono di silenzio al rombo del tuono (il ruggito della
scrittura – e poi, come graffia…): come Ildegarda la mistica, sapevo scrutare
le viscere della memoria e il ventre dell’universo. E col forcipe dello spirito avevo reciso le sbarre dell’anima. Il terribile era avvenuto.
Thor. Parole tonanti o sussurranti, fluenti a cascata (mai
stagnanti), corpose ed eteriche, arcaiche ed estatiche (extase à deux), estetizzanti, escatologiche e frivole, nouveaux o
déjà vu, sempre in bilico sul borderline tra greve e sublime. Mi denotavano,
connotavano, erano insieme referend e
symbol, signifié e signifiant, langue e parole, “suono su una faccia,
e pensiero sull’altra”. E lasciavano il segno: “Guance arrossate, traccia inequivocabile di
un contropelo troppo duro...” Speravo solo che incidessero nella realtà, fossero spade a
doppio taglio, non solo spilli per inc… mosche (e per decenza non
diciamo di più, direbbe il siculo Buttafuoco, dimentico del franco
Céline).
“La
parola è un tremendo pericolo, soprattutto per chi l’adopera, ed è scritto che
di ciascuna dovremo render conto.” Sì, ero un topo di biblioteca (ultima scoperta, Cristina Campo –
nella mia anima, scampata agli spaventi del giorno, già da tempo albeggiavano i
suoi silenzi remoti trafitti dai
dardi verso il cielo); e ora, col mouse, anche scrittore (ancora in vitro,
leggermente scheggiato). Echeggiante (all’inizio, boccheggiante. Nessuna Eco, solo un sottile suono di silenzio…). Un po’ randagio un po’ domestico
(badante?). Eppure, voglio essere selvaggio: voglio
scagliare come dardo la mia necessitante volontà e ferire l’orecchio di Dio!
Voglio inferire, infierire…
E ‘l naufragar m’è dolce
in questo mare… E dopo
aver scampato tremendi pericoli (parole,
parole, parole…), dopo qualche beccheggio ero finito nella rete. Senza
rendermene conto. Passato, quanto ai libri (quando bucavo la rete e tornavo
sulla ‘carta-ferma’ – che giravo freneticamente), dall’insostenibile leggerezza dell’essere all’alito pesante del drago che butta fuoco (quello del contropelo).
L’ultima
del diavolo? No, tutta
colpa di Lorenzo, il mio biblio-avatar (lo
junkie, il book-addicted, bookworm e movieworm…). Uno che, anche se solo ‘di carta’ o ‘sulla carta’ (a dire il vero
neanche quella: il libro era corposo sì, ma di lui aleggiava solo l’anima – non
era stato ancora edito), conoscevo bene,
biblicamente (un tocco di gayezza?
Forse l’onda lunga di Stefan George e gay-bardi dis-correndo – quanto alla
literacy non mi faccio mai mancare nulla).
“Si
tratta di arrivare all’ignoto mediante la sregolatezza di tutti i sensi.” Amo gli eccessi (a parole, quando mi
spingo giù sino ai ‘poeti maledetti’) ed
eccedo negli amori (anche qui, verbis non
factis). “Voglio essere poeta, e
lavoro a rendermi Veggente.” Ho sposato la prosa, ma la tradisco con la
poesia (sono single). E ci sono altre Muse che spingono per entrare: fuori piove…
Gocce di pioggia a Jericoacoara: questo
il titolo del romanzo. Anche lui multilivello, olografico, animico. “Romanzo-rapsodia, fervido di vita e voci,
di ritmi e canti e risa, dal profumo di ingenue aurore … vorticoso nel suo
ritmo da derviscio tournant, vibrante di tensione e trepidazione, ossimorico
nei suoi dolci contrasti, dalla scrittura vivace, geniale, estetizzante, ma
tutt'altro che décadent, capace di affratellare Policleto e i Beatles. Un
‘panta rei’ entusiastico ed entusiasmante, un fluire di sapienze ed eresie,
dall'oscillare inarrestabile, ebbro … una scrittura da giocoliere della parola
e da funambolo della nuance.” Così la scrittrice arya, quella che maneggia
la penna come un cultro (o una katana).
Lost
(era la mia ultima
spiaggia). Fiera delle vanità o vanto della fierezza? Ricerca di senso o senso
della ricerca? Spazio in cerca di forma, simbolo dietro il segno? Ai posteri
l’ardua sentenza (nel frattempo, ero in languida attesa del colpo di derrière – la fortuna aiuta gli audaci; ma anche, più titanicamente, i violenti s’impadroniscono dell’Olimpo…). Ne ero comunque fiero. Vanità delle vanità. E poi, avevo voglia d’interferire…
Una ferita nell’epidermide del mondo;
poi… più dentro, sempre più giù, fino al nocciolo. Volevo penetrare. E non solo
nel mondo. In corpore vivi. Mi
sentivo investito da una missione (e sotto il vestito? Niente. Volevo correre
nudo alla meta). Sì, era giunto il momento. “Sono
un uomo d’oggi, Sono solo. Ma ho ancora gli dèi, al massimo Dio” (e forse anche
qualche idea…). Mon Drieu! (La Rochelle – non sono solo
rocchettaro). Il tempo era ormai maturo (il tempo, questa tigre che divora…):
il chronos aveva scandito il kairòs (e questo aveva battuto sul tempo
l’aion). Non avevo mangiato la mela
acerba e non mi sfagiolava certo la frutta andata. Aspetto la frutta di
stagione… Time passes by.
I tempi… Mesi, settimane, giorni. “Voglio essere considerato un poeta
jazz che suona un lungo blues in una jam session d’una domenica pomeriggio.” Dal fiat lux al punto omega, l’alfa ne aveva fatta di strada per arrivare al traguardo (l’epilogo del
romanzo). Se Jack Kerouac ci aveva messo solo tre settimane (da raccontare) per
buttar giù le trecento pagine rollanti sui quaranta metri di carta da
telescrivente, il mio viaggio era stato (un) mosaico. “Ho ripreso la penna ed ho cercato di rimettermi al lavoro; ne avevo
fin sopra i capelli di tutte queste riflessioni sul passato, sul presente, sul
mondo. Non domandavo che una cosa: che mi si lasciasse finire in pace il mio
libro.” Sartre, che nausea… Ma alla fine la carovana aveva raggiunto l’oasi
(e vicino c’è il mar morto – a quando il
bosco?).
The
beat goes on. “Devo andare e non fermarmi finché
non sono arrivato. Andare dove? Non lo so, ma devo andare...“ Di eone in eone, il cammello si era fatto leone… Così canticchiava il mio
fanciullino subliminale (“È dentro noi un
fanciullino che non solo ha brividi … ma lagrime ancora e tripudi suoi”). E
mai invecchiava il pargolo, si rigenerava di aion in aion (negli abissi della mia interiorità il tempo, nelle sue varie
coniugazioni, e congiunzioni, scorreva molto più velocemente che all’esterno –
il mondo immaginale ha i suoi ritmi,
le sue pause, le sue frenesie. E poi,
cominciava a intravedersi l’eterno
ritorno: Getta il tuo pane sulle
acque, perché dopo molto tempo lo ritroverai).
“L’inchiostro è la mia arma. Si, violenza e
lirismo, amore e rabbia, dolcezza e morte...” Sì, morte
a credito. Mi sentivo in debito col mondo – che noia… volevo uccidere la
noia annoiando la morte e la vita
mi stava nauseando. Volevo vincere cantando più forte, ed ero rimasto
senza voce. “Il bisogno di conoscermi, anzi, di dilaniarmi, mi prese
con violenza.” Non potevo più nicchiare. Basta con Popper e Mary Poppins
(va già meglio). Nietzsche, sulla soglia, occhieggiava con l’occhio destro. Destroy.
Con l’animo a fette e sempre più fitte nell’anima (e il cervello destro che
faceva da cavallo di troia alle dissennate fantasie al galoppo – nel frattempo
il terzo occhio cominciava a sbattere le palpebre). Meno male che c’era lui.
“La
penna e la spada sono temporaneamente separate, ma alla fine devono unirsi in
un’unica strada.” Il
libro come arma e come flabello (anche, flagello), un po’ Mishima un po’ iki. “Lo slancio dell’agire-contro, la
decantazione del pensare-contro e del sentire-contro attraverso il libro. Il
perfezionamento di una visione del mondo completamente ‘altra’.” (Così la
vestale shaolin del filosofo col
martello – da lui stesso avataricamente ‘investita’, e non solo platonicamente.
Lui la conosceva bene… e viceversa.)
Il libro, quello delle voci arcaiche, attente all’assoluto e non alle mode, è ben più della somma delle sue parole
– ma la parola è la summa del libro.
Chiacchiera heideggerriana o parola
imputtanita (un flash di Gurdjieff), minimal o gorgeous, virtù del segno o
precipitato del simbolo, sgargiante,
erotica, eretica, serica o graffiante, l’importante era la parola. Quanto più
la parola scritta. Specie ora che scrivo libri. Sono loro la mia griffe (per il
momento, un pezzo unico – e pure gratis). Il mio libro: alchimia di parole, ma anche graffi della mia esperienza di
vita, loro specchio (snellente), ma anche un athanor – un forno di digestione
alchemica (oltre che un avatar disceso
dal cielo) – per realizzare in me l’uomo nuovo (con l’aggiunta del soffio dello
Spirito e della fiamma della Passione).
Passion
flower. Contenuto e
forma (del libro e dell’uomo: io e il mio romanzo) dissolti e coagulati in un
unicum – ossimorico, eufonico nelle dissonanze, disfonico nelle consonanze,
‘fanatico’. Mai fané. Diretto dal Dio
della danza cosmica, tra pulsare del tempo e silenzio (avevo letto anche il
libro di Pulsatilla, la book-squinzia
emergente, anzi ormai emersa e sommersa. Sono eclettico e ossimorico – anche
moro di chioma e politikon: vado back & forth dagli spot a Trainspotting). Voglio anch’io il mio fan club!
Bridge
over troubled water.
Sono un ponte sospeso sul mondo (e con i piloni fondati sull’abisso – e non
faccio ancora parte dello star-system).
Miro (al)le stelle (specie poi da quando sono approdato su certi ‘siti’: dapprima,
quello di Miro il ‘fascio’; poi
sempre più in alto, li dove danzano le spade e infierisce il cultro). L’uomo,
‘pontiggia’ Pennac, “scrive libri perché
si sa mortale. Vive in gruppo perché è gregario, ma legge perché è solo…” E
io voglio essere immortale e libero come uno steppenwolf. Ma cerco compagnia…
Tratto dall’inedito Nietzsche:
sneakers o tacchi a spillo.