martedì 29 giugno 2021

Maîtres à penser

Maîtres à penser

 

Do you think I’m Sexy? Amazzone più che ninfa, Arianna andava più sul pragmatico (ma era sempre sexy). Non per niente era una cultrice, marxisteggiante (soft), della scuola di Francoforte. Anche se Lorenzo (più ‘sufi’, ma anche lui sexy) le aveva fatto apprezzare l’’eretico’ ex francofortino Elémire Zolla. Sia pur prendendolo con i ‘guanti’ (lei in questo era sempre un po’ sulle sue). Quello – tra gli spiritualisti vari, new-age o pentecostali, che Lorenzo ogni tanto le propinava – che più l’aveva colpita. Anche perché più colto, più profondo, più intrigante. E poi non era new-age, era un ‘filosofo perenne’. Uno scavatore, uno speleologo, un subacqueo, dell’anima. E delle anime. E per questo Arianna si era tuffata, senza bombola d’ossigeno, in qualche suo saggio. E aveva rischiato l’embolia (spirituale).

     Già allora l’Atalanta venuta di corsa dall’Arno scoccava saette a seno nudo. E non solo ora che si era imboscata tra Amazzonia e Atlantico. Si era fermata per raccogliere tre mele d’oro: Zolla, Heidegger e, fuori campo, Cristina. A chi, tra i compagni borghesucci e imbolsiti, le chiedeva il perché di questo suo interesse così politicamente scorretto, almeno per i corifei del pensiero imperante, lei rintuzzava estraendo dalla faretra i dardi dello Zolla angry youngster, contestatore alle prime armi allineato al coro della scuola di Francoforte – di cui lei era una (virtuale) discepola a distanza (anche temporale). Un po’ per virtù scolastiche (insieme a Heidegger, i ‘francofortini’ formavano la piattaforma critica e teorica del suo vivace esprit architectural), un po’ perché il su’ babbo gliela inculcava sempre (la scuola francofortina, insieme a Marcuse, Freud e Sartre).

     Sì, il mitico Jean Paul, suo eroe giovanile, “l’imprenditore di filosofia, di letteratura, di politica … si sente in Sartre la carenza di una necessità interiore.” Sì, lei amava Sartre, ma anche Baudelaire (che non garbava punto a Jean Paul). Alla fine al duo associò Camus: chiodo scaccia chiodo. In ogni caso, lei, come Lorenzo del resto, non era inchiodata alla tradizione filosofica ufficiale, in nome del primato della vita (parola di Adorno, filosofo ‘ufficiale’).

     E così, dopo aver (as)saggiato il ‘cattivo’ maître à penser Elémire – ma la ‘mela’, in fin dei conti, gliel’aveva passata Lorenzo (scippata a Cioran: in quanto a ‘eretici’, il nostro, non se ne faceva scappare uno) – la ‘contestazione globale’ di Marcuse, Adorno e compagni cominciò a sembrarle un mero e vuoto esercizio di acrimonia (e grammatica). Noioso, nauseante. Privo di un vero orizzonte alternativo (sorvoliamo, per non dare il ‘destro’ ad altri commenti, sui salti di gioia di Lorenzo, sempre pronto a spingere su Julius Evola, Giorgio Locchi – un altro degli ‘sconosciuti’ cui l’aveva iniziata – e camerati d’ogni nuance: ma black is black…).

     Nuove frontiere che Zolla (e il suo destriero, Lorenzo, al seguito) aveva trovato nei luoghi dell’anima, territori di cui ben poco Arianna aveva sentito parlare in casa (tranne che in occasione di qualche sortita della mamma – d’altronde era pittrice), in facoltà e nel suo giro di amicizie (salvo quando entrò nei pascoli celesti di Lorenzo: la solitudine dei numeri primi). Sempre un po’ sulle sue, però. Nondimeno, i ‘vagabondaggi’ metafisici di Elémire la trovavano spesso cameratesca sua compagna di viaggio. Così pure le sue ‘meditazioni’ e il suo ‘stupore infantile’.

     Di sorpresa in sorpresa, ecco entrare in scena uno dei grandi (strani) amori di Arianna: Cristina Campo, la Simon Weil italica, la scopritrice della valenza teofanica del momento estetico, aristocraticamente pregna di Upanishad e mistica. Complice nel presentargliela (virtualmente) sempre lui, Elémire Zolla (oltre che il Lorenzo del periodo lefèbvriano), il quale, da mistico sensale, dovette assistere – magnifique – prima al coup de foudre, fuori campo, della sensuale Arianna per Cristina e poi alla sua ‘fuitina’ nelle lande del ‘sacro’ e del ‘mistero’. E durante i ‘pellegrinaggi’ nei territori vergini dell’anima (e dello spirito: Lorenzo le aveva spiegato che erano due ‘entità’ distinte), un’ulteriore, sconvolgente, scoperta: il ‘dionisiaco’. Che Arianna celava da tempo infagottato nel suo intimo, del quale forse sospettava l’esistenza, ma di cui non conosceva il ‘nome’ (e il ‘numen’).

     E di balza in balza, il rinvenimento fortuito (o ‘forzato’ da Lorenzo) degli ostraka seppelliti sotto il terreno corticale del pensiero dominante: i frammenti di coccio di (più o meno) ‘cattivi maestri’, come Nietzsche (sì, proprio lui, il ‘cavallo pazzo’; e pensare che il primo ‘maestro’ di Arianna – il marxista Georg Lukács – si era impegnato a fondo nell’illustrare la “distruzione della ragione, da Nietzsche a Hitler”…). E poi, Benn, D'Annunzio e Cioran, in casa ostracizzati (salvo qualche ‘sinistro’ addomesticamento – lo stesso Heidegger era guardato con ‘maldestro’ sospetto: d’altronde non era stato il suo Lukács, il feroce Realpolitiker, l’’inquisitore’, il messaggero escatologico del nuovo eone, a bollare ex cathedra Heidegger, il leone, come “capofila del tenebroso esistenzialismo fascista”?).

     Sempre con la guida del suo personal guru – Lorenzo – il ‘fascista’ (immaginario) dal ‘cappuccio’ rosso (per lui il fascismo era una fase storica conclusa, però gli serviva come sfondo di riferimento, ma anche come trampolino di lancio per nuove avventure mentali e di vita. E poi, non si sa mai, poteva essere ‘rifondato’…). Lui che le aveva fatto conoscere, dulcis in fundo, l’amarognolo Ezra Pound, approfittando della passione giovanile di Arianna per Jack Kerouac e invogliandola con le parole di un suo personaggio: “Pound era un buon diavolo, anzi, il mio poeta preferito.”

     Due le squadre in campo: Marcuse, Sartre, Aragon, Lukács, Eluard, Neruda, contro Pound, Drieu La Rochelle, Brasillach, Jünger, Benn, Céline. Ma ecco infilarsi, tra angeli e demoni, anche il liberale Aron, quello che aveva profetizzato, contro ogni utopia sessantottina e catto-comunista, la deriva ‘chic-buonista’: “La simpatia testimoniata ai delinquenti più che alle vittime, la riduzione del numero e della severità delle azioni penali, la messa sotto accusa della società, colpevole per definizione, e non dei criminali.” Senza lontanamente immaginare che si sarebbe arrivati al ‘ma anche’…

     E per battere anche nuovi sentieri (ma dove portavano?), lo sciamanesimo di Castaneda – anche questo osservato dal suo entourage con, ancor più, legittima suspicione – fino alle esperienze estetiche-estatiche d’ogni tipo, incluse – orrore! – alcune varianti borderline pentecostali (in questo imboccata, come sempre, dal famelico Lorenzo, che lei, per scherzare, ogni tanto chiamava Loren Zollà).

     Alla fine, entrambi, lui e lei, nel tentativo di abbattere, una volta per tutte, la barriera tra la dimensione materiale e quella del ‘sogno’ (spesso coincidente con quella dello spirito, che, durante la ‘veglia’, sembra dormire), tentarono l’Aistesis (l’ebbrezza delle sensazioni) e l’Estasis (la vertigine spirituale dell’anima che si affaccia sui territori della trascendenza). E poi (gli esami non finiscono mai), l’aurora nicciana e il tramonto spengleriano. Abbinamenti spesso riusciti nel loro ambito di coppia. Prima a corrente continua (si comprendevano, ma non sempre concordavano), in seguito a corrente alternata, con qualche caduta di tensione e, qua e là, dei black-out (non si con-prendevano più, né si prendevano).

    Infine, qualcosa scoppiò…

 

Tratto da Gocce di pioggia a Jericoacoara

 

 


 

lunedì 28 giugno 2021

GIOBBE E IL COVID (2a Parte)

GIOBBE E IL COVID

(2a Parte)

Vediamo ora qual è (o piuttosto, come lo interpretiamo) il “Dio di Giobbe”. Se il modello che sta alla base del “Dio di Giacobbe” è palese – la fede e le azioni dipendono da quello che si riceve da Dio e il rapporto uomo-Dio ruota intorno a una catena causale il libro di Giobbe si pone in palese contrasto con questa prospettiva. Il testo inizia con una questione cruciale (forse mai posta nella Bibbia con tale intensità): che valore ha una buona condotta, anche “religiosa” o spirituale, quando è motivata da interessi personali? «Che fede sarà mai quella di chi crede solo a motivo – e in funzione – di ciò che riceverà in cambio?» (cfr. Giobbe 1,9-11). È Satana a porre la questione (il satan, nel Libro di Giobbe, è un funzionario eminente della corte celeste, una sorta di P.M.) e a mettere in discussione un principio consolidato e generalmente funzionante, così almeno si ritiene, come quello del quid pro quo: io do una cosa a te, tu dai una cosa a me…

Grazie... è facile per tutti essere buoni e pii se si possiede tutto ciò che si desidera, ma lascia che metta le mani sull’uomo “buono e pio” e vediamo se è davvero tale!  «Qui viene formulato il tema centrale del libro di Giobbe: come si comporterebbe Giobbe, il credente devoto in modo esemplare, se le cose gli andassero male? È un problema che, con ogni evidenza, non riguarda soltanto Giobbe, come singolo devoto; al tempo stesso, viene messa in discussione la validità di un principio basilare della tradizione sapienziale, presente anche all’interno del libro di Giobbe: il rapporto tra azione e conseguenza, tra ciò che facciamo e come ce la passiamo. Giobbe se la passa bene in quanto egli è devoto e timorato di Dio? Oppure egli è devoto e timorato di Dio in quanto se la passa bene? Vi è forse una dipendenza tra le due cose? E come dev’essere determinata? Nello sviluppo dei dialoghi, si mostrerà come l’interpretazione di questo principio sia uno dei punti capitali del conflitto che oppone Giobbe ai suoi amici.» (Rolf Rendtorff, Teologia dell’Antico Testamento, Vol. 1).

Dio, pur infinitamente superiore al satan, non si sottrae alla sfida. Certo della fedeltà di Giobbe – fondata sull’”essere” e non sull’”avere” – concede libertà d’iniziativa al suo agente provocatore: dopo l’idillio iniziale tra Dio e Giobbe, muoiono i figli di questi, il bestiame gli viene rubato, non gli resta più nulla. Ma Giobbe non rinuncia a Dio. Satana insiste e incalza: «Sì, così fan tutti… Continuano a credere e ad essere fedeli finché non li tocchi nella loro persona.» (cfr. Giobbe 2,4-5). E Dio permette anche questo (v. 6).

Giobbe, sotto attacco, mostra i primi segni di cedimento: sua moglie lo spinge ad abbandonare Dio (2:8-9): perché restare fedeli a Dio se la ricompensa è l’infelicità? Gli amici, che all’inizio condividono, forse sinceramente, il suo dolore, pian piano, ligi alla teoria retribuzionista, cominciano a criticarlo, passando, da consolatori, a suoi accusatori: Giobbe è un peccatore. È tutta colpa sua… (né di Dio, né di altri, o della società, come diremmo oggi): Giobbe deve incolpare se stesso dei suoi guai. Il peccato ha come riflesso il dolore: Giobbe si è avviato, inconsapevolmente, sulla strada degli empi e l’ira di Dio è intervenuta a giudicare e punire. Non c’è che una via di scampo: la riconciliazione con Dio attraverso una sincera conversione, perché il Dio “giusto” è anche “misericordioso”. (cfr. Giobbe 22). 

Giobbe apre un contenzioso con Dio. «Io grido a te, ma tu non mi rispondi, insisto, ma tu non mi dai retta.» (Giobbe 30,20). Depresso, avvilito, scoraggiato, arrabbiato… contende con Dio, dopo averGli parlato, aver pregato, invocato, gridato. Per Giobbe ciò che manca è la credibilità di Dio come partner relazionale. Tuttavia, vuole continuare a mantenere la relazione con Lui. Come Giacobbe, anche Giobbe lotta con Dio con tutte le forze.

Altro che paziente, Giobbe… È impaziente, perseverante, irriducibile, sfidante: Giobbe, l’uomo in rivolta, così titola il suo saggio Roland de Pury. Nondimeno, non viene condannato da Dio: se la logica dei suoi amici e di Eliu vorrebbe un Dio che, dopo l’arringa di Giobbe (avvocato di se stesso), condannasse il ribelle, Dio invece parla al contestatore e mette a tacere i Suoi “avvocati d’ufficio”. All’inizio sfugge a questo “corpo a corpo”; non per viltà, ma perché Dio non potrà mai essere afferrato: non possiamo racchiuderlo nei nostri schemi. Dio sfugge a ogni presa, è sempre oltre e altro. Seduce – conduce a sé – e poi scompare (come Gesù sulla strada di Emmaus).

Infine, Dio riappare (ma era stato sempre presente: chiamato o non chiamato, Dio è presente…) e parla. Accetta la sfida, quasi blasfema, depone al “processo” e da accusato ri-diventa giudice supremo: Tu chi sei? Sei tu forse Dio? Sei tu il Creatore? Il deus absconditus esce finalmente allo scoperto. Alle domande, sensate o insensate, di Giobbe, Dio risponde con delle contro-domande, spiazzanti ma capaci di scuotere Giobbe dal suo torpore intellettuale e spirituale: una vera e propria psicoterapia d’assalto, tale da “scioccarlo” e “risvegliarlo”. Quella di Giobbe, passato lo shock – o proprio per effetto della “scossa” –, è una nuova nascita.

 Giobbe, anche sotto interrogatorio, rimane fedele alla Parola e «riconosce, davanti alla sfilata dei segreti cosmici della requisitoria di Dio, di non essere in grado di sondare che qualche particella microscopica, mentre Dio sa percorrerli con la sua onniscienza ed onnipotenza.» (G. Ravasi). Partendo dai lumi della ragione – la Scienza con i suoi segreti e le sue scoperte – l’uomo farà l’esperienza di Dio solo superando la ragione stessa, con un lampo d’illuminazione. Ora vede: «Il mio orecchio aveva sentito parlare di te, ma ora l’occhio mio ti ha visto.» (Giobbe 42,5). Giobbe accetta che ci sia un altro piano: «I cieli sono i cieli del SIGNORE, ma la terra l’ha data agli uomini.» (Salmo 115,16). Giobbe, arreso, sì, ma anche “guarito”. Giungiamo così allo shalom finale, il vertice dell’itinerario di Giobbe; non la soluzione di una questione umana, ma “vedere Dio coi propri occhi”: conoscerLo dal vivo, non solo per sentito dire.

Questo è l’uomo-Giobbe e questa è la storia di un uomoanzi, il prototipo della storia di un uomo qualsiasi, al di là del censo o della classe sociale – dal lieto inizio e dal lieto fine, ma con un tragico interludio. Giobbe finalmente incontra Dio a tu per tu: non più un Dio che si conosce per sentito dire, ma che si vede; così come la fede non è un’ideologia che si apprende sui libri o di cui ci s’investe per tradizione o nascita. Giobbe, ora davvero felice e “realizzato”, riprende il cammino e s’inoltra nella Storia.

In sintesi, il libro di Giobbe testimonia della necessità di un Redentore. Questo redentore, che battezza, guarisce, salva (shalom: salvezza, pace, salute, benessere e ben-essere), è Cristo. È Lui il garante della bontà di Dio, il nostro avvocato in cielo. Ed è quello di cui tutta l’umanità ha un bisogno assoluto sempre, e quanto mai ora, ai tempi del covid…

 


 

domenica 27 giugno 2021

GIOBBE E IL COVID (1a Parte)



GIOBBE E IL COVID

(1a Parte)

 Giobbe e il covid. Paragone azzardato, direte: fuori tempo, fuori luogo, fuori contesto.

Non poi tanto, anzi… Nonostante il salto temporale, di millenni, entrambi sono “tipi” – l’uno umano, troppo umano; l’altro astratto, ma dagli effetti, ahimè, concreti – che si rincorrono nel tempo (inteso come “Chronos”: il tempo ordinario, la “cronaca”). Ma ora, come ai tempi di Giobbe, si tratta di Kairos, di tempo straordinario, speciale, anzi addirittura propizio e favorevole – per quanto, a prima vista, non sembri (e in effetti, questo è un tempo tragico, fra danni e lutti).

Ma passiamo al tema, cogliamo l’attimo fuggente… Giobbe e il covid (la covid, per i più precisini) sono rappresentativi, tra le altre cose, del “senso” della vita e del suo opposto: il “nonsenso”. “Si tratta della sporgenza della vita nel nonsenso rispetto alla quale qualunque interpretazione religiosa appare come una «superbia infantile». È lo scandalo sollevato biblicamente da Giobbe: il dolore dell’esistenza sfida l’ordine del senso mostrandone l’inconsistenza strutturale […] La sofferenza dell’innocente resta uno scandalo impenetrabile che resiste a ogni decifrazione. Rispetto a questa indecifrabilità non si può più invocare il disegno provvidenziale di Dio ma bisogna ammettere lo scandalo dell’insensatezza del male provando, comunque, … a «essere colui che resta!»” (Massimo Recalcati, “Il complesso di Telemaco”).

Il dolore dell’esistenza, la sofferenza dell’innocente, lo scandalo dell’insensatezza del male… Sì, nella vicenda di Giobbe e nelle vicende dei tanti Giobbe di questi giorni – anzi, direi, di molta dell’umanità, passata dai giorni delle “vacche grasse” a quelli delle “vacche magre” – ritroviamo dei fattori comuni: la superbia (l’arroganza, l’hybris di Adamo), il dolore esistenziale, la sofferenza dell’innocente, l’indecifrabilità, l’insensatezza del male, la “sporgenza della vita nel nonsenso”… Certo, nessuno si può definire, in toto, innocente (“non c’è nessun giusto, neppure uno …” Lettera ai Romani 3,9-20), ma quante persone sono morte in questi giorni per effetto del covid… Ricchi e poveri, famosi e anonimi: il covid, la grande “livella”!

Ma non mi voglio soffermare sul covid, qualunque sia l’origine – umana, diabolica, cinese, americana, pipistrello, incidente di laboratorio, casuale, intenzionale ecc. –, ma desidero puntare l’attenzione sulla figura di Giobbe, personaggio spesso trascurato nelle nostre letture bibliche (al pari di altri libri “sapienziali”, quali l’Ecclesiaste e lo stesso Cantico dei Cantici, rilanciato, alle soglie della pandemia, da Benigni).

Ed è proprio dalla mia tesi in un corso di teologia – GIOBBE: IL DRAMMA È DIO. Il Dio di Giobbe vs il Dio di Giacobbe – che prendo spunto per queste riflessioni.

 

Bene, conosciamo, anzi ri-conosciamo, Giobbe. Ma partiamo da Dio…

Consuma e si consuma, appare e scompare… (come Gesù sulla via di Emmaus). Un Dio nascosto ma sempre presente: espansivo e sfuggente, scompare nell’abisso per poi ricomparire; tirato in ballo, non si sottrae alle sue responsabilità, ma si rivela nei fatti (fossero anche misfatti). Realtà vicina, di cui abbiamo esperienza quotidiana – chiamato o non chiamato, creduto o non creduto –, ma, soprattutto, Realtà Ultima. Insomma, Dio c’è: Vocatus atque non vocatus Deus aderit”. Chiamato o non chiamato, Dio sarà presente – così l’iscrizione incisa sopra la porta d’ingresso della casa del famoso psicologo Carl Gustav Jung (a suo modo credente – era figlio di un pastore protestante –, tanto che, a chi gli chiedeva se credesse in Dio, rispose: «Se credo… Io so!»).

Fede e sapienza. Sì, Dio è onnipresente e onniveggente: “Quando Giacobbe si svegliò dal sonno, disse: «Certo, il SIGNORE è in questo luogo e io non lo sapevo!» (Genesi 28,16). Questa misteriosa esperienza onirica riassume un concetto che percorre tutta la Bibbia: Dio è presente in cielo e sulla terra. Si tratta di una presenza implicita o esplicita («Isaia osa affermare: Io, il Signore, sono stato trovato anche da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato anche a quelli che non mi invocavano.» Romani 10,20), avvertita o inavvertita: «Ecco: egli mi passa vicino e io non lo vedo; mi scivola accanto e non me ne accorgo.» (Giobbe 9,11).

«Ecco il grande paradosso: Dio, infinito ed eterno, si adatta e penetra in questa realtà che è così fragile, sospesa, inconsistente. Ma ecco pure la grande intuizione: dov’è Dio? Nella folgore? Nel terremoto? Nel vento impetuoso? Dio è nel “mormorio di un vento leggero” o, traducendo più esattamente, Dio è una voce di silenzio sottile. Non un silenzio che è triste assenza di suoni, ma un silenzio in cui tutte le parole si compendiano.» (Gianfranco Ravasi).

 

Passiamo ora all’uomo: Giobbe è la storia di un credente. È il percorso travagliato, sia pur estremo, che ogni credente può trovarsi a fare. Ciò che è capitato a Giobbe è possibile, in varia misura, a chiunque (Dio compreso: in Gesù). Ma ciò che fa di lui un esempio è l’assenza di presunzione: nessun’arrogante pre­tesa (hybris) di misurarsi con Dio, solo il disperato desiderio di conoscerLo, e quindi  conoscersi. Nel grido di Giobbe è condensato il “dramma umano”, espresso in modo palese o intimo, che sia l’urlo disperato di un credente o il grido esasperato di un agnostico. Quello di Giobbe è l’appello insistente a un Dio apparentemente assente, lontano, indifferente – come tante volte assente, lontano, indifferente è, o così ci sembra, chi ci dovrebbe essere vicino: un familiare, un amico, un fratello o sorella di chiesa… Peggio ancora, Dio sembra a Giobbe un avversario crudele e spietato, sordo a ogni richiesta di aiuto.

Eppure, «è necessario che ogni persona passi attraverso questa fase di protesta e sperimenti la disperazione di sentirsi abbandonato dal Signore se desidera approdare all’incontro con lui pur vivendo ancora dolore, sofferenza, solitudine ed emarginazione.» (Gianni Cappelletto, Giobbe. Incontrarsi con Dio nella sofferenza). D’altronde, «Nella Bibbia ebraica, nessun altro essere umano vien fatto oggetto di affermazioni tanto altisonanti come quelle riguardanti Giobbe, pronunciate addirittura da Dio […] Di nessun altro viene detto che la sua condotta e il suo destino divengono oggetto di discussione fra gli esseri celesti (1,6-12; 2,1-6). Per la loro gravità e il loro accumularsi, la sventura che lo coglie e le piaghe che gli vengono inflitte rappresentano il colmo di quanto ci si immagini possa accadere a un essere umano. Per l’asprezza dei lamenti che contengono, i suoi discorsi a Dio oltrepassano tutto ciò che altrove si può trovare nella Bibbia ebraica. E nessun altro viene degnato di una risposta divina paragonabile a quella dei grandi discorsi di Dio dei capp. dal 38 al 41.» (Rolf Rendtorff, Teologia dell’Antico Testamento, Vol. 1).

Giobbe si sente preso in trappola, invischiato in un gioco perverso. Ma quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare… Invece di accettare con rassegnazione questa indecifrabile volontà divina, Giobbe si erge a obiettore (di coscienza): in disaccordo coi suoi amici, che pretendono di consolarlo incolpandolo, non solo accusa Dio di averlo stretto in un cerchio senza via d’uscita (Giobbe 3,23-26), ma osa chiamarlo in giudizio (9,32), alla presenza di un arbitro capace di dirimere la questione. E chi è, secondo Jung (ritorno allo psicologo del «Se credo… Io so!»), questo giudice supremo, questo Dio super partes? È Cristo… Infatti, Gesù, accertate sul campo – facendosi uomo – le ragioni dell’umanità, di cui Giobbe è rappresentante (sia pur estremo), trasformerà quel Dio apparentemente cinico e crudele (così appare a tanta umanità, anche in questi tempi del coronavirus) in un Dio d’amore.