PAU BRASIL
BERTA FILAVA
Guardiana del sogno, la brezza pomeridiana. My boo: Arianna, sospinta dai sospiri eterici di Alicia Keys, scavalcò flessuosa l’adone sdraiato sulla sabbia fine lambita dall’andirivieni di onde, tenue sospiro dell’oceano. La pelle brinata, e brunita, di Tomás raccoglieva golosa i gelosi raggi del sole tardo-invernale del Nordeste, caldi malgré tout. Rinviandoli rifratti e condensati a formare un’aura caleidoscopica, custode del suo corpo come in un sacro sarcofago. Uniche increspature, il vibrare della muscolatura tonica e il crogiolarsi sul bagnasciuga della spuma effervescente: lascivo invito al retrostante, desertico, Sertão a lasciarsi andare.
Brasile: legno di colore rosso. E rosso fuoco il colore (politico) e il calore di Arianna, specie quella ex ante. Il primo tuffo velvet underground dalle felpate sabbie di Praia das Fontes, nel febbraio del ’74: lo stesso anno, la stessa acquariana atmosfera dell’incontro con Lorenzo, solo un paio di mesi in anticipo.
“Quando soffia la brezza primaverile dell’amore ogni ramo, che non sia secco, si mette a danzare.” La poesia di Rumi, il bardo sufi che soffiava nel suo oceano interiore, aveva accompagnato il surfeggiare del suo cuore alla Prevert sulle onde dell’amore, prima cosmico, poi orgasmico. Un amore (quello pre-Lorenzo) sbocciato sulle dune di sabbia bianca e fiorito tra le scogliere e il labirinto stellare delle falesie.
Era la seconda storia importante di Arianna, una passione sbocciata sulle ceneri (e sbocconcellata sulla sabbia). La prima, invece, appassita, bocciata, scivolata sulla prima buccia di banana. Gialla ma annerita in più punti. Ma questo frutto della passione, passiflora sbucata dall’oceano, ben lontano da casa, era stato più profondo, eppure anch’esso fugace.
Nulla, però, in confronto alla terza, la liaison con Lorenzo. Questo amore così violento, così fragile, così tenero, così disperato. Bello come il giorno, cattivo come il tempo, quando il tempo è cattivo. Questo amore così vero, così bello, così felice, così gaio e così beffardo. Tremante di paura come un bambino al buio. E così sicuro di sé, come un uomo tranquillo nel cuore della notte. Questo amore che impauriva gli altri. Che li faceva parlare, che li faceva impallidire. Questo amore spiato. Perché noi lo spiavamo. Perseguitato ferito calpestato ucciso negato, dimenticato. Perché noi l’abbiamo perseguitato ferito calpestato ucciso negato, dimenticato. Questo amore tutto intero. Ancora così vivo. E tutto soleggiato...
Il sole. Era tornato a riscaldare la sua anima. Il sole dell’avvenire. E poi, cantico dei cantici, in quel ‘giovane’ febbraio, così vivo (e in questo ‘maturo’ settembre, ancora soleggiato), l’aquilone si era alzato, l’austro aveva ricominciato a soffiare sul giardino di Arianna; la colomba era tornata e aveva nel becco una foglia d’ulivo strappata di fresco… Una nuova genesi, un ritorno al tempo delle origini: l’incanto di Canto Verde e della sua spiaggia bagnata dall’Assoluto, lo sciolto ghirigoro delle falesie rosse di Morro Branco – grotte, labirinti, cascatelle d’acqua dolce fra le dune –, facile preda del contiguo paesaggio. Rude, macho, sensuale, come la ‘fauna’ locale. Graffiato dalle caucacee e frustato dagli arbusti spinosi della gelosa caatinga, foresta arida e secca ma ancora piena di voglie. Nascoste. Ma mai frustrate.
E lei, Arianna, appena svelata, da poco guarita dalle prime frustate della vita, inebriata d’amore e dai fumi delle tossine sprigionate nelle sgroppate in dune-buggy (e non solo: postumi del ’68) tra Uruaú e Parajuru, laguna e spiaggia. Inframmezzate dalle promenade a cavallo. Più alla Che (Guevara) che alla Gabriele (il Vate). Vaticinio di un ritorno all’Eden, fuga dall’Egitto (Sharm El Sheik era ancora là da venire), coniugio tropicale di naturismo e libertà. Memore dei cercatori del Monte Verità, complice dei pathfinders della nuova Canaan…
Pau brasil, legno ardente della foresta vergine. Lei, allora appena sedicenne, ma già sbocciata, sia pure in serra, e i suoi amici post-hippies: tutti di buona famiglia, belli e dannati. Nuovi stiliti d’annata, quelli del ’74 (e due di loro erano poi diventati stilisti). Corifei di questa risorgente tebaide no-global, novella Qumran do Brasil (di cui lei, Arianna era l’icona cult), ossimoricamente aperta ai piaceri della vita – e senza Mar Morto, ma vivo.
Ebbri di bacco e sazi di pan (di zucchero), erano sbarcati nel cuore e nei fianchi del Sertão, un tempo terra di canna di zucchero, ora di grasso bestiame. E loro, molta canna, poco (o niente) brown sugar. Braccati dai benpensanti, imboccati dai nouveaux philosophes, non ancora impasticcati (ma fumati, sì). Vita sboccata, spericolata, ma non troppo: sempre meno droghe, meno buchi, sempre più amore per gli spazi aperti, sconfinati, incontaminati.
In vacanza stand-by dagli studi, sul ciglio del salto nell’abisso della creazione (Arianna, liceale, gli altri tutti studenti di architettura, di scuola fiorentina), lambiti dalle onde di anarchia e Beach Boys, surfeggiando Hair al vento avevano trovato nel Ceará, lì dove il Brasile si fa più panciuto, l’alternativa west coast a Goa e Katmandù.
Occidente e Oriente ossimoricamente fusi dal capobanda, Evan, l’olandese volante, il musicista amateur di Gurdjieff, Castaneda e jazz fusion, che le faceva il filo. E così Arianna, filando filando, dopo essersi slacciata dallo sfilacciato, flaccido, maturo prof (sulla quarantina), fiorentino doc e stanziale (e pure bisteccone), si era innamorata di Evan. E, al suo seguito, di Katmandù e della sua neve (e di Krishnamurti e delle sue altezze – e profondità); e, ancor più, di Goa, l’indiana, e dei party sex-drug-rock‘n’roll sulla spiaggia di Clalangute.
Love dance tra Beatles e trance: transustanziata dal beat e dal kif, così in linea coi trascorsi dei suoi (il padre veterosessantottino, cinquantenne rosso fuoco, professore guarda caso nella facoltà di Architettura, a Firenze; la madre, tosta quarantenne, designer-pittrice-scultrice, ecc.), Arianna era sbarcata, armi (canapa e chitarra) e bagagli (la sua corte dei miracoli) a Fortaleza, sei anni dopo il fatidico ’68; e di lì, insieme al manipolo dei brancaleoni – capeggiato dall’olandese, il ganzo con cui flirtava –, aveva battuto palmo palmo (talvolta arrancando) il centinaio di chilometri che, tra dune e palme, li separavano dalla tappa prestabilita, Canoa Quebrada.
Canoa spezzata, come il cuore di Arianna, la Berta che filava, infranto un mese primo da Evan. Lei di nuovo cascata nella rete, dopo l’intreccio con Bruno, il suo professore di filosofia. Rinfrancata dal nuovo amore, neanche questo tanto in forma (secco anzichenò, ma allora non usava), sulle ali di Eros Arianna aveva trovato pure il tempo di fare un salto (d’angelo) alle cascate dell’Iguaçu
. Per le quali aveva tradito quelle del Niagara, fonte primigenia e ierofante d’arte per gli esordi della sua amata, geniale, goliardica, Courtney, la mamma yankee, artista tutta love.
E ora, in pieno settembre, in piena rottura con Lorenzo, dirottati figlio ventenne e figliola diciottenne, per quanto autonomi, dai nonni (Adriano, il su’ babbo, sempre radical chic, veterano della fu Autonomia Operaia – un po’ palloso a dire il vero –, e la sempre frizzante Courtney), ecco l’improvviso, e imprevisto, ritorno di fiamma: di nuovo un salto, olimpico, atlantico (questa volta da sola e momentaneamente single), sul pacifico bagnasciuga di Canoa Quebrada – il favoloso strip di sabbia della provincia del Beberibe, rifugio post-sessantottino di hippy transoceanici – per poi rotolarsi tra i grani variopinti della sabbia di Praia das Fontes e, infine, toccare il cielo tra un sobbalzo e l’alto sulle dune di Cumbuco Beach. E cuccare.
Volare alto e poi precipitare (senza paracadute). Per dimenticare e ricordare… Un coming back nel Sertão, landa di ribelli ed eroi. Già terra (le garbava ripeterselo) di profeti, di cangaceiros a cavallo e hippy-yuppies in dune-buggies. E di Antônio Conselheiro: Bom Jesus Conselheiro, missionario itinerante free lance, messianico loro ‘giudice’. Taumaturgo, capopopolo, fratello dei suoi seguaci. Per Arianna, sorella di tutti, questo era un revival del suo coming out anni ’70. Con lei ribelle, capobranco, d’itala gente, volata, prima sedicenne ora ultraquarantenne, da Firenze alla costa Cearense. 1974-2000 e rotti: andata e ritorno.
Affabulatrice d’incanto, Arianna. Di lingua fluente (la più chiacchierona dell’armata, ma anche la più leonina del branco) e di bocca buona, allora come ora: un’ostrica che tirava l’altra, pronta a leccare il sale delle lunghe dune bianche e godere del fruscio sulla pelle degli alisei, tonico rinfrescante contro il sole equatoriale, da lei ingoiato a dosi massicce. E poi, sempre più al tannino, le corse da mission impossible sulle falesie – lì scontrose, qui, a bordo mare, ridotte a briciole di rena rosa – e l’ottovolante sulla gobbe della sabbia selvaggia, ingabbiata tra le lagune d’acqua dolce e il libero debordare dell’oceano.
Arianna e la sua corte: quando battevano Praias das Fontes e dintorni, la gente del posto sfringuellava: «…papa figos, papa figos» (non solo loro, ma così chiamavano tutti gli hippies e i freaks d’ogni sballo che calcavano quelle coste). Sì, proprio come i bambini tailandesi di Emanuelle che, zompando d’entusiasmo e indicando col ditino i ‘visi pallidi’, strillavano a tutta voce: “Farang! Farang!”
Papa figos: come gli uccellini indigeni, il cui cinguettante giallo si diluiva, goccia su goccia, nell’oceano cromatico di questi mamas e papas foresti, teenagers (l’ossimoro…) sfolgoranti nelle loro tuniche da figli dei fiori, svolazzanti nei camicioni ipercolorati, luminescenti nelle loro auree angeliche.
(Tratto da Gocce di pioggia a Jericoacoara)
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