domenica 27 giugno 2021

GIOBBE E IL COVID (1a Parte)



GIOBBE E IL COVID

(1a Parte)

 Giobbe e il covid. Paragone azzardato, direte: fuori tempo, fuori luogo, fuori contesto.

Non poi tanto, anzi… Nonostante il salto temporale, di millenni, entrambi sono “tipi” – l’uno umano, troppo umano; l’altro astratto, ma dagli effetti, ahimè, concreti – che si rincorrono nel tempo (inteso come “Chronos”: il tempo ordinario, la “cronaca”). Ma ora, come ai tempi di Giobbe, si tratta di Kairos, di tempo straordinario, speciale, anzi addirittura propizio e favorevole – per quanto, a prima vista, non sembri (e in effetti, questo è un tempo tragico, fra danni e lutti).

Ma passiamo al tema, cogliamo l’attimo fuggente… Giobbe e il covid (la covid, per i più precisini) sono rappresentativi, tra le altre cose, del “senso” della vita e del suo opposto: il “nonsenso”. “Si tratta della sporgenza della vita nel nonsenso rispetto alla quale qualunque interpretazione religiosa appare come una «superbia infantile». È lo scandalo sollevato biblicamente da Giobbe: il dolore dell’esistenza sfida l’ordine del senso mostrandone l’inconsistenza strutturale […] La sofferenza dell’innocente resta uno scandalo impenetrabile che resiste a ogni decifrazione. Rispetto a questa indecifrabilità non si può più invocare il disegno provvidenziale di Dio ma bisogna ammettere lo scandalo dell’insensatezza del male provando, comunque, … a «essere colui che resta!»” (Massimo Recalcati, “Il complesso di Telemaco”).

Il dolore dell’esistenza, la sofferenza dell’innocente, lo scandalo dell’insensatezza del male… Sì, nella vicenda di Giobbe e nelle vicende dei tanti Giobbe di questi giorni – anzi, direi, di molta dell’umanità, passata dai giorni delle “vacche grasse” a quelli delle “vacche magre” – ritroviamo dei fattori comuni: la superbia (l’arroganza, l’hybris di Adamo), il dolore esistenziale, la sofferenza dell’innocente, l’indecifrabilità, l’insensatezza del male, la “sporgenza della vita nel nonsenso”… Certo, nessuno si può definire, in toto, innocente (“non c’è nessun giusto, neppure uno …” Lettera ai Romani 3,9-20), ma quante persone sono morte in questi giorni per effetto del covid… Ricchi e poveri, famosi e anonimi: il covid, la grande “livella”!

Ma non mi voglio soffermare sul covid, qualunque sia l’origine – umana, diabolica, cinese, americana, pipistrello, incidente di laboratorio, casuale, intenzionale ecc. –, ma desidero puntare l’attenzione sulla figura di Giobbe, personaggio spesso trascurato nelle nostre letture bibliche (al pari di altri libri “sapienziali”, quali l’Ecclesiaste e lo stesso Cantico dei Cantici, rilanciato, alle soglie della pandemia, da Benigni).

Ed è proprio dalla mia tesi in un corso di teologia – GIOBBE: IL DRAMMA È DIO. Il Dio di Giobbe vs il Dio di Giacobbe – che prendo spunto per queste riflessioni.

 

Bene, conosciamo, anzi ri-conosciamo, Giobbe. Ma partiamo da Dio…

Consuma e si consuma, appare e scompare… (come Gesù sulla via di Emmaus). Un Dio nascosto ma sempre presente: espansivo e sfuggente, scompare nell’abisso per poi ricomparire; tirato in ballo, non si sottrae alle sue responsabilità, ma si rivela nei fatti (fossero anche misfatti). Realtà vicina, di cui abbiamo esperienza quotidiana – chiamato o non chiamato, creduto o non creduto –, ma, soprattutto, Realtà Ultima. Insomma, Dio c’è: Vocatus atque non vocatus Deus aderit”. Chiamato o non chiamato, Dio sarà presente – così l’iscrizione incisa sopra la porta d’ingresso della casa del famoso psicologo Carl Gustav Jung (a suo modo credente – era figlio di un pastore protestante –, tanto che, a chi gli chiedeva se credesse in Dio, rispose: «Se credo… Io so!»).

Fede e sapienza. Sì, Dio è onnipresente e onniveggente: “Quando Giacobbe si svegliò dal sonno, disse: «Certo, il SIGNORE è in questo luogo e io non lo sapevo!» (Genesi 28,16). Questa misteriosa esperienza onirica riassume un concetto che percorre tutta la Bibbia: Dio è presente in cielo e sulla terra. Si tratta di una presenza implicita o esplicita («Isaia osa affermare: Io, il Signore, sono stato trovato anche da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato anche a quelli che non mi invocavano.» Romani 10,20), avvertita o inavvertita: «Ecco: egli mi passa vicino e io non lo vedo; mi scivola accanto e non me ne accorgo.» (Giobbe 9,11).

«Ecco il grande paradosso: Dio, infinito ed eterno, si adatta e penetra in questa realtà che è così fragile, sospesa, inconsistente. Ma ecco pure la grande intuizione: dov’è Dio? Nella folgore? Nel terremoto? Nel vento impetuoso? Dio è nel “mormorio di un vento leggero” o, traducendo più esattamente, Dio è una voce di silenzio sottile. Non un silenzio che è triste assenza di suoni, ma un silenzio in cui tutte le parole si compendiano.» (Gianfranco Ravasi).

 

Passiamo ora all’uomo: Giobbe è la storia di un credente. È il percorso travagliato, sia pur estremo, che ogni credente può trovarsi a fare. Ciò che è capitato a Giobbe è possibile, in varia misura, a chiunque (Dio compreso: in Gesù). Ma ciò che fa di lui un esempio è l’assenza di presunzione: nessun’arrogante pre­tesa (hybris) di misurarsi con Dio, solo il disperato desiderio di conoscerLo, e quindi  conoscersi. Nel grido di Giobbe è condensato il “dramma umano”, espresso in modo palese o intimo, che sia l’urlo disperato di un credente o il grido esasperato di un agnostico. Quello di Giobbe è l’appello insistente a un Dio apparentemente assente, lontano, indifferente – come tante volte assente, lontano, indifferente è, o così ci sembra, chi ci dovrebbe essere vicino: un familiare, un amico, un fratello o sorella di chiesa… Peggio ancora, Dio sembra a Giobbe un avversario crudele e spietato, sordo a ogni richiesta di aiuto.

Eppure, «è necessario che ogni persona passi attraverso questa fase di protesta e sperimenti la disperazione di sentirsi abbandonato dal Signore se desidera approdare all’incontro con lui pur vivendo ancora dolore, sofferenza, solitudine ed emarginazione.» (Gianni Cappelletto, Giobbe. Incontrarsi con Dio nella sofferenza). D’altronde, «Nella Bibbia ebraica, nessun altro essere umano vien fatto oggetto di affermazioni tanto altisonanti come quelle riguardanti Giobbe, pronunciate addirittura da Dio […] Di nessun altro viene detto che la sua condotta e il suo destino divengono oggetto di discussione fra gli esseri celesti (1,6-12; 2,1-6). Per la loro gravità e il loro accumularsi, la sventura che lo coglie e le piaghe che gli vengono inflitte rappresentano il colmo di quanto ci si immagini possa accadere a un essere umano. Per l’asprezza dei lamenti che contengono, i suoi discorsi a Dio oltrepassano tutto ciò che altrove si può trovare nella Bibbia ebraica. E nessun altro viene degnato di una risposta divina paragonabile a quella dei grandi discorsi di Dio dei capp. dal 38 al 41.» (Rolf Rendtorff, Teologia dell’Antico Testamento, Vol. 1).

Giobbe si sente preso in trappola, invischiato in un gioco perverso. Ma quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare… Invece di accettare con rassegnazione questa indecifrabile volontà divina, Giobbe si erge a obiettore (di coscienza): in disaccordo coi suoi amici, che pretendono di consolarlo incolpandolo, non solo accusa Dio di averlo stretto in un cerchio senza via d’uscita (Giobbe 3,23-26), ma osa chiamarlo in giudizio (9,32), alla presenza di un arbitro capace di dirimere la questione. E chi è, secondo Jung (ritorno allo psicologo del «Se credo… Io so!»), questo giudice supremo, questo Dio super partes? È Cristo… Infatti, Gesù, accertate sul campo – facendosi uomo – le ragioni dell’umanità, di cui Giobbe è rappresentante (sia pur estremo), trasformerà quel Dio apparentemente cinico e crudele (così appare a tanta umanità, anche in questi tempi del coronavirus) in un Dio d’amore.

 


 


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