SLOW LIFE
GREEN LIFE BETTER LIFE
ELOGIO DELLA PARESSE
Slow life, green life, better life. Questo lo slogan dell’odierna giornata della lentezza. E io, che un po’ paresseux sono, festeggio: faccio il “party delle parti” (ho una ‘parte’ lenta, una veloce, una sneakers, una tacchi a spillo….). E siccome oggi sono più paresseux del solito, pesco a piene mani dal mio oceano privato (Gocce di pioggia a Jericoacoara, alle soglie del parto, e il romanzo in progress che sta , invece, facendo le ultime ‘ecografie’).
Ritmo veloce, giungla di stimoli, sensazioni e immagini. Versus: l’ambiente rurale, dal ritmo lento, più abitudinario e uniforme. “Più la folla è densa, più ci sentiamo soli”, così Zygmunt Bauman ‘liquida’ la ‘città del troppo’ (altro che villaggio globale… Troppo annacquato: perciò i localismi stavano tornando a galla). Ma anche del troppo poco, del troppo uguale, dell’indistinto. E dell’outlet (e dei continui outing e coming out). Città-teatro-off, metropoli del ‘passaggio veloce’, del nulla – anche se iper… (e quella di Marc Augè non è un’iperbole: passiamo la maggior parte della nostra esistenza in ‘non-luoghi’, dove si consuma il presente e si abortisce l’avvenire).
“La storia futura non produrrà più rovine. Non ne ha il tempo.” Così Marc Augé.
Nella metropoli della fretta (ma andiamoci piano…) Arianna passeggiava, nel vero senso della parola. Camminava lentamente, sorbendosi marciapiedi, negozi, case, persone, con aria un po’ svogliata e indolente. In controtendenza rispetto alla montante fretta, non solo delle macchine, ma pure dei pedoni (che ormai, si sa, ‘viaggiano’ con un incremento di velocità del dieci per cento rispetto a qualche decennio fa. Ma New York rimaneva stabile nei suoi ritmi e lei contribuiva a questo). Tutto in Arianna era antico ma anche maledettamente moderno, cutting edge.
Ogni tanto si fermava, si guardava intorno, in alto, in basso… Chiacchierava con lo sconosciuto di turno, e non solo per rinfrescarsi la lingua (yankee). Frenetica nello scopo ma placida nell’azione. Decisa, motivata, ma work-sober, quasi astemia.
Se dopo un po’ troppo di alcol c’è bisogno di un po’ d’acqua di fonte, anche il caviale (che pure mi piace) finisce con lo stancare.
Getta il tuo pane sulle acque, perché dopo molto tempo lo ritroverai. Abbattuto il muro di cellofan, messa alla berlina ogni timidezza, la contiguità tra i due si fece comunione. E comunicarono.
Le parole tra lui e Gaia (il nome della ragazza non era più un segreto per Lorenzo: anche se avrebbe fatto più fino saperlo dopo...) si rincorrevano tra le balze dei loro territori ora senza più confini; i pochi silenzi sembravano fatti della stessa stoffa delle parole. Silenzi sempre più rarefatti, pronti però a riprendere, man mano, vigore.
Sintonizzati sulle stesse frequenze, Gaia e Lorenzo ebbero, ontemporaneamente, la sensazione panica (nel senso bucolico) di essere un tutt’uno con l’erba, i fiori, i cespugli; con il vociare dei ragazzi e delle ragazze che percorrevano, proprio in quel magico istante, il sentiero sottostante. Col flautare della brezza settembrina, tutt’uno col battito del cuore della formica che dalla mano di lui era passata a quella di lei...
Il tempo, fino a quel momento acerbo, giunse a maturazione e stillò gocce di Kairòs: il tempo propizio pensò bene di fermare le lancette del Chronos, del tempo qualunque (e qualunquista).
Come può esserci Eros senza Imeros? Amore senza Desiderio? I due, ciascuno prima perso nel suo viaggio al termine della notte, si avvicinarono sempre più (la formica...), fino a sfiorarsi in più punti strategici. Un lieve, improvviso, fruscio d’aria increspò i capelli di lei, facendoli vibrare sul viso di lui. Furono uno: lo stesso misterioso montante desiderio, la stessa cruda sensualità che si offriva spontanea e naturale. Un’aspra dolcezza (l’ossimoro…) che fluiva sottopelle, come in rivoli sotterranei mai esplorati. Lo stupore e l’innocenza dei sensi. Complicità e confidenza tra i corpi e le menti (e il luogo). L’eros che si fa ethos.
Lorenzo e Gaia: il corpo di lei abbandonato accanto al suo, le vibrazioni del suo respiro che si accordavano armoniosamente con quelle delle sue membra. Una sinfonia di bassi, di acuti, di silenzi, che sembravano fatti della stessa organza dell’ambiente circostante. Magico, soprannaturale, ma vibrante di passione, di vita, carne e sangue...
Come può esserci Eros se non c’è Afrodite? Più che Laing poté Plutarco!
Forse che vi consiglio di uccidere i vostri sensi? Io vi consiglio l’innocenza dei sensi... Il tempo sempre sospeso, le sensazioni fisiche, epidermiche, tattili, cutanee, s’intrecciavano sempre più con le vibrazioni scaturenti dal profondo; non solo dell’anima, del midollo, dello spirito, ma sgorganti dalle profondità pelagiche del tempo, dei loro tempi... Nietzsche che flirtava con Plutarco.
Se c’è Eros senza Afrodite, è come un’ubriacatura senza vino, procurata da una bevanda fatta con fico o orzo, è uno sconvolgimento senza frutto e incompleto, che presto nausea e disgusta. In quel momento ‘celeste’ e in quella situazione ‘terra-terra’, impastato da sapienti mani, l’intreccio tra vita (vite), cultura (pane) e natura (pan) si fece realtà viva davanti ai suoi occhi stupefatti. Fluendo al di sotto della crosta epidermico-sensoriale ispessita dal tempo. Rotta dal ciceone offerto da Gaia (Circe? Demetra?) a Lorenzo (Ulisse? Proserpina, certo no...), ormai un iniziato ai misteri di Pugnochiuso, il luogo scelto per la visione suprema.
Sophia divina: una volta agitato, l’inciucio stava per raggrumarsi; il vino e l’orzo (con un po’ di miele e spezie) erano lì pronti a sortire il loro effetto su Lorenzo. Che, per la prima volta in vita sua, sentì l’akedia – l’accidia, il mal di vivere che spesso lo assaliva come il demone di mezzogiorno – lasciar definitivamente il posto a una ‘santa’ arroganza: nell’intreccio con Gaia, Lorenzo scoprì l’elogio della riuscita.
“La fiducia in se stessi è l’essenza dell’eroismo.” Superata, in quell’attimo di vita, l’antitesi tra spirito e sensi, trasfigurato e sublimato da questa speciale ebbrezza, libero dal passato e dal futuro, Lorenzo sentì di essere destinato al successo. Una nuova fiducia in sé, scaturita dalle sorgenti dell’essere, una forza pelasgica, un’‘emersoniana’ self-reliance in divenire (e per l’Avvenire), il tramonto di ogni passato, l’emergere di un nuovo Sé, un far sì che i morti seppelliscano i loro morti.
Il terribile era accaduto…
«È vero, se ne sente la mancanza. Ma anche il desiderio. Usque ad sidera, usque ad inferos. C’è proprio bisogno di coach in questo mare in tempesta. Delle stelle che ti orientino. »
Lorenzo, risvegliato dal ‘flash’ biblico, ancorché accucciato sgusciò in una performance siderale a sorpresa (prima, forse per il vocio tutt’intorno, non aveva afferrato il termine, coach, o aveva fatto finta; ma lo conosceva bene, sia pure da poco tempo. E conosceva bene pure lei…).
«Sì, il coaching è quello che più si adatta ai tempi d’oggi. Specie poi per chi ha fretta (e chi non ne ha?), per quanto oggi si stia tornando ai ritmi lenti. Lenti ma rock. Finalmente… (Lorenzo non aveva mai amato la fretta dei robot gasati o dei bipedi schizzati di cui erano piene le strade e i marciapiedi). Sto leggendo ‘Economia dell’ozio’, del sociologo Domenico De Masi (ma quanti libri leggeva contemporaneamente Lorenzo?!). Un attimo, ti cito un passo interessante...»
Lorenzo prese a prima botta il libro dalla borsa da mare (una matrioska quanto a letteratura) e si tuffò, anche qui a colpo sicuro, nella pagina deputata (fortunatamente in superficie).
«“Al pittore David, che gli chiedeva come preferisse essere ritratto, si dice che Napoleone abbia risposto: “Sereno su un cavallo imbizzarrito” (…) Imbizzarriti su cavalli sereni ci appaiono, invece, molti intellettuali di professione, molti studenti assillati dalla fretta di apprendere, molti moderni capitani d’industria con le coorti di manager che – punk in doppiopetto – praticano oggi le virtù marziali e contagiose della competizione globale.” E aggiungo io, tanta gente che riempie la giornata con tante corse inutili dietro al nulla. Non il Nulla, quello con la maiuscola, il Nulla mistico in cui il ‘Dio nascosto’, l’En Soph, frantuma il diaframma che lo cela alla vista degli uomini; non la ‘corona eccelsa’, il cratere magmatico in cui tuffarsi per riemergere bagnati di vera vita, ma il nulla minuscolo, quello che sarebbe mille volte meglio riempire con un ozio produttivo (c’era ancora il sapore salato delle gocce delle ‘nuotate’ teologiche di Gaia sulla sua pelle…). Tempi di pausa o attese sgradite, sfibranti (alla posta, all’aeroporto, tra un impegno e l’altro), da riempire, piuttosto, con qualcosa di ‘significativo’, di vibrante, dissonante (qualche giorno prima Lorenzo aveva fermato il tempo soffermandosi su alcune sfrenate riflessioni sull’otium ‘produttivo’ stil(l)ate da Marcello Veneziani, altro suo conterraneo della rive droite). Innanzitutto, letture: non diceva forse Isidoro di Siviglia che la crescita dello spirito deriva dalla lettura? E il cardinale Martini: “in una mano la Bibbia, nell’altra un giornale.” Per non parlare di Bonhoeffer: “la Bibbia sul pulpito, al lavoro, sull’inginocchiatoio…” Ma torniamo alla lentezza (la lentezza della poesia ci salverà dalla frenesia del mondo…), al pathos della distanza, contro il bieco e cieco pathos dell’attivismo. Le pause non sono inutili, sono i momenti più produttivi della giornata e della vita! La pausa è azione. Recuperiamo, diluito ogni giorno, lo shabbat, il riposo, l’otium, il sabato divino. Che non è ancora terminato. Ed è anche lui buono. Shalom! Approfittiamone per meditare, fare abbozzi di programmi per cambiare la nostra esistenza (ed essenza). Diamoci anima e corpo alla cultura, agli altri, allo sport, alla danza. Galatea, divertiti, gioisci, godi…»
Galatea non se lo fece ripetere due volte e balzò su Lorenzo, per sedurlo seduta stante (in pratica, violentarlo alla fachiro sulla ghiaia chiodosa della morbida baia di Pugnochiuso). La presenza della gente intorno valse a dissuaderla (di necessità virtù): d’altronde, la vacanza era solo al bocciolo.
Lorenzo, scampato il pericolo, sputato il nocciolo, prese a sua volta la palla al balzo. Non era impreparato sull’argomento: aveva in pugno, non solo l’elogio della pigrizia (bonjour paresse!), ma, per sopraggiunta necessità, la modernità della malinconia (proprio lui che incoraggiava il Pensiero Positivo e il fou rire – ma la malinconia, quella dell’otium, è bella. Bella di giorno. Belle toujors).
Si schiarì in volto e, raggiante, illuminò contorno e ripieno del telo da mare di Galatea, dissolvendo l’incombente ombra dell’ombrellone reboante. Poi diede fiato alle trombe: una jam-session sul coaching (negli ultimi mesi aveva letteralmente saccheggiato i siti internet alla ricerca di ‘reperti’ e tonalità nuove), a mani levate e passo sicuro (sia pure su virtuali tacchi a spillo. Quelli di Galatea erano reali: solo il pietrisco della spiaggia era riuscito a convertirli in più opportune infradito rasoterra, sia pure stilose).
«Il coaching è ‘allenamento’ dell’anima per migliorare le prestazioni del corpo. Corpo olisticamente inteso: la triade paolina corpo, anima, spirito. Un tutt’uno (alla giudea), ma, platonicamente (e cristianamente) separabili. Ognuno col suo viaggio. Lo so anch’io, il coaching è un processo interattivo short term, un programma dinamico focalizzato, più che sulle cause, sulla soluzione. Ti aiuta a crescere, a elaborare le emozioni e a gestirle, a creare equilibrio e produrre i risultati desiderati. Ti aiuta a focalizzarti sul malanno e sui punti di forza interiori per superarlo… ma soprattutto punta a fare goal.»
Un sorriso marpione accompagnò l’ultima stoccata, dopo di che il tacchino ritornò pulcino.
La notte è all’epilogo e non è tutta elegia. Gli spaventi notturni svolazzano bruschi e ruvidi su rive altrimenti laide, qui solo il corrusco (ma sempre brusco – e lusco) tremendum di Diana. Elogio della pazzia, nessuna liala dell’eros: solo stille di vita al fulmicotone. Tutto il parterre è un solo uomo, una sola donna: lei, la nostra Lorelei (chioma sciolta: non è cotonata). Ma nessun utero protettivo: ciascuno è nella sua ‘(dis)comfort zone’.
Tranquillità scattante, asana yoga sul piede di guerra, niente di sciatto (e nessuno, vivaddio, chatta… È tutto dal vivo). Le ore di ieri (il passato ‘inutile’) sono agli sgoccioli, sento odor di grandi piogge (Après moi le déluge).
Mi accoccolo a fianco di Chloe, lei dà l’occhei (la notte occhieggia sempre più a giorno). Maxwell e D’Angelo (due crooner cool & lounge da deriva dei sensi) ci cullano onda su onda, per poi sbatterci sulla battigia: di lì ci rotoliamo duna su duna (i divani sembrano moltiplicarsi e svuotarsi: ma sono tutti lì sdraiati o accovacciati che pendono dalle labbra l’uno dell’altra: aristocratica democrazia).
Un brivido percorre le mie regioni (e ragioni) più profonde. Spiaggiato ma felice. Estradato dal mondo, mi rotolo sulla sabbia dei miei ricordi (quelli futuri: Diana ha invertito le lancette del tempo), pronto a non tradire la mission della serata e a spiccare il volo (e poi, tra non molto picchieremo duro, se virtualmente o viziosamente non lo so ancora).
Cambiamo posto. Ci accoglie Yin Yang: due poltrone fuse insieme – materiali che si incontrano, concavità e convessità che si alternano e si compenetrano: elementi di un ossimoro in progress (ma ‘regressivo’), copula per coppie di in-dividui di-versi ma in-separabili. Tutto secondo programma (e pentagramma).
«E non confondiamo scienza con coscienza (Diana continua a sorseggiare, da fata, l’assenzio). Se per Darwin è migliore chi sopravvive – quindi, per lui non è questione di mera ‘qualità’ o di ‘analisi del valore’ –, per Nietzsche, e per me, il migliore è il più ‘riuscito’. Solo lui ha diritto alla vita. Perché in lui c’è potenza di vita, dinamica – non statica – esistenziale. Detto così, sembra crudo, crudele, inumano, meccanicistico, ma non lo è affatto. Tutt’altro, è umano e anche spirituale: il ben-riuscito è la summa e il prodotto di qualità e virtù (nel senso di valori) di provenienza la più variegata (soprattutto, divina – dall’Alto): dalla bellezza di facciata (non è un’offesa, è un vanto) alla linea di sangue (non è un vanto, è un vento – soffia come e dove vuole: ma ha un’Origine…). I ‘ben-riusciti’ non sono i raccomandati, i più ‘dritti’, i più furbi, i più ricchi, gli sgamati… Sono i ‘migliori’, i ‘segnalati’ – e ‘segnati’ (quali? Lo intuisce il vostro cuore ‘profondo’. Lui bussa alla porta – vi ‘sceglie’ – voi siete liberi o no di aprire: la vostra libera ‘risposta’ al Suo libero ‘appello’). Sono loro – gli eletti dall’Origine – i ponti (sospesi) verso il Superuomo. E la mia non è solo kalokagathìa, mito della bellezza e della bontà, ma è qualcosa di più profondo, di meno epidermico. È signum aeternitatis (immancabile, la ‘siringata ipodermica’ di Diana). I ‘malriusciti’, gli uomini-frammento (una ‘legione’…), sono sia il ‘gregge’ sia i ‘porci di Gadara’. Come direbbe Laing, sono in formazione ma viaggiano fuori rotta. Noi, invece, uomini e donne sull’orlo della crisi (la Krisis: la scelta-Kairòs), siamo rotti, siamo ‘a rota’, faremo i rutti, ma almeno siamo sulla rotta…»
Bene, siamo in formazione ma anche in rotta. È tempo dell’otium, della paresse, ma è anche il tempo dell’azione. Dell’azione lenta. Lento pede ma millepiedi. Per dirla ancora con il mio romanzo in progress (un po’ sneakers un po’ tacchi a spillo):
Siamo le membrane plasmatiche del centro e delle periferie urbane, giunzioni occludenti il vuoto delle menti e delle anime, teurgi plastici in cerca di corpi da rigenerare. Col forcipe dello spirito recidiamo le sbarre dell’anima e liberiamo dai ceppi impazienti i dèmoni dormienti. I nostri e gli altrui.
Diamo le ali al nostro angelo. È lì che ci aspetta, dietro l’angolo. È stato fin troppo tempo ad aspettarci nel nostro salottino privato, poi in cantina, poi giù per strada, sotto la nostra finestra. Dai, scendiamo, usciamo dal portone, giriamo l’angolo.
È l’angelo a liberare l’uomo, schiavo delle effimere luci del mondo sensibile e prigioniero nei labirintici meandri delle sue permanenti ombre. È lui a guidarlo, di cielo in cielo, nell’ascesa spirituale e illuminativa verso la realizzazione (qui e ora, per il momento). Sempre che non faccia tutto Lui…