venerdì 24 novembre 2017

MILLION DOLLAR BABY (cover)


La filosofia mi tira, la teologia mi attira, la psicologia mi attrae, la spiritualità mi atterra… (mi atterrisce, ma di terrore sacro.) Ma la fede mi porta in alto - Il Terribile è accaduto!
Ho rivisto Million Dollar Baby e ho compreso una volta ancora che la vita bisogna afferrarla, per poi lasciarla andare sulle onde dello Spirito. Anche se tutto questo può portare, in taluni casi (il film ne è testimone), alla morte per eccesso di vita: un voler quasi tranciare il filo dell’esistenza, dopo aver cavalcato la tigre, affinché dall’existenz minimum si passi alla massima vita.
E se ciò – il forzare il passaggio oltre il ‘velo’, squarciandolo – può non essere moralmente plausibile, so pure che la Sua benignità dura in eterno…
La ragazza da un milione di dollari (Hilary Swank/Maggie) mostra una sua fede, sia pure apparentemente aliena dallo Spirito; altrettanto dicasi dei suoi coach (Clint Eastwood/Frankie e Morgan Freeman/Scrap). Una “trinità” – Maggie, Frankie e Scrap – che ben rappresenta ogni tri-unità ‘corpo-anima-spirito’ nei suoi complessi intrecci e intersezioni (l’olismo che supera ogni mera unità).
E poi, il quarto (con e oltre Jung): lo “spettatore”, che ben comprende come la profondità della Realtà sia così oscura da confondere ogni nostra morale e moralina. Ma se riusciamo a liberarci dalle catene – a scatenarci – possiamo comprendere il vero significato dell’esistenza. Un’esistenza che può essere “guerra e pace”, purché sia degna di essere vissuta: questo vale per Maggie, malgrado la sua scelta estrema – e vale anche per Frankie che in Maggie – Mo Cùishle (il “mio sangue”, il “mio tesoro”, come segretamente la chiamava in gaelico) – aveva trovato una ragione in più per vivere. Non solo, anche qui, come per l’Aisha del mio post (Fighter), c’è, dopo qualche forte resistenza, l’accettazione, consapevole e ammirata, della donna da parte dell’uomo.
Qui mi fermo e, al posto di Frankie e Maggie, vi lascio con Lorenzo e Gaia e alcune gocce di pioggia a Jericoacoara. E lasciate che la pioggia vi bagni. Purché non vi raffreddiate...

“E come dicono piacesse a una fanciulla svelta il pomo dorato che le tolse l’impaccio della sua ritrosia, mi piace.” Di morso in morso, sempre più vicino al torsolo… Lorenzo, dimentico della Genesi (e memore di Catullo), clonò il suo sorriso: solo allora si rese conto – forzando un po’ i tempi – che due incontri casuali in così breve tempo facevano bingo (più che ambo) nel campo delle leggi statistiche (che lui ben conosceva, da un esame marginale del suo piano di studi) e che si accingeva a rientrare, per l’ennesima volta, nell’accidentato territorio di Jung e delle sue sincronicità. La situazione non era però impilabile in quella della piscina: l’intreccio di libro e gambe configurava uno scenario ben diverso.
«Conosci Laing? Mi riferisco a erredì Laing (Lorenzo calcò intenzionalmente sulle iniziali R. D. per giocarci un po’), il guru della pazzia...»
Scagliata la prima pietra, il tempo di un respiro, fatta una breccia nella muraglia, cominciò ad avvolgere (come non era solito fare) l’inerme fanciulla nelle sue spire.
«Sì, il guru: beh, sai, la posizione del loto stimola!»
Lorenzo non riuscì a trattenere la banalità intellettualoide, arrotando pure la erre, ma la ragazza valeva ben una messa (...in moto, di ogni sua risorsa).
«Touché!» lei di rimando.
Ormai il contatto era on – l’anglicismo è qui d’obbligo in onore di Ronald – e la luce si accese su (e in) entrambi. Non particolarmente vivida, ma più che sufficiente a illuminare per una decina di minuti il percorso tra lo psicanalitico e lo spirituale che si era inaspettatamente avviato, complice Ronald David Laing, il guru scozzese dell’antipsichiatria, il mentore di Lorenzo.
«Di Laing, e parlo del ’68 – che qui da noi era poi il ’69, l’anno del mio debutto in una bollente Firenze (e dintorni, Pisa soprattutto) –, mi aveva colpito il suo approccio esistenzialista. Mi sembrava quasi un Sartre più nauseato del solito, ma ciò che più mi attraeva era il suo cotè metafisico, spirituale, al di là del velo.»
Il fiotto delle parole fu quasi orgasmico. Lorenzo poteva, finalmente, permettersi di parlare alto.
Era da un bel po’ di tempo che non usava il sermo compositus per titillare e avvincere, se non convincere, gli interlocutori (le ultime frequentazioni di chiesa, gente spesso alla buona, e quel che rimaneva dei suoi cerchi di amicizie avevano abbassato il suo ‘tono’). Lui amava la varietas e la mutatio. E riusciva a passare, in un battito d’ali, dal sublime al terra terra. Ma quel che più detestava era l’analfabetismo culturale, il balbettio o la logorrea senza ratio pneuma. E i palloni gonfiati. Ma soprattutto, i talenti sotterrati. Non riusciva proprio a comprendere come si potesse vivere senza cultural literacy. Lui valutava le case, e le persone, dalle loro librerie…
«Certo, Laing. Se non fosse stato per lui, anch’io sarei rimasta al muto cicaleccio quotidiano. Oppure, all’happy hour, al brunch, al grunge... Niente di male, per carità. C’è il tempo per i voli pindarici e quello per le scivolate e le bischerate (qui Gaia toccò le corde del Lorenzo alla fiorentina, già a mezza cottura…). Ma io, allora, e parlo di solo un paio di anni fa, volevo, non solo conoscere, ma sapere. Penetrare nelle cose. Coglierne l’essenza. Pistis e Sophia, fede e sapienza. Ed ecco che, in un incidente di percorso, andai a sbattere contro Ronald. Se sei pronto, il maestro non si farà attendere… E lui mi venne incontro. Come ti ho detto, più che un incontro, fu uno scontro. Uno sgambetto, un colpo a tradimento. Un deragliamento dal binario delle mie robotiche certezze. Prima robuste, poi indebolite. Se non fossi inciampata in Ronald, avrei continuato a bighellonare tra vetrine e display. Oppure sarei rimasta in sosta, al palo o da velina (il massimo immaginabile, ma c’è pure il minimo…), in quel grande parco-macchine che è il mondo. Magari girando e girando in cerca di un posto… Una gogo girl tra tanti gogo boys. Ma lui era dietro l’angolo e mi colpì alla testa.»
Gaia finse di massaggiarsi la tempia destra (il ‘cervello destro’?) e continuò la corsa, premendo l’acceleratore.
«Un libro. Sì, è stato proprio un libretto a cambiarmi la vita. A introdurmi in nuovi territori, inesplorati. Con strani abitanti. A farmi navigare su mari lontani, e pericolosi. Una cosa tra le cose, un volume affondato nell’oceanica biblioteca di Babele di questo caotico cosmo quotidiano. L’ossimoro che si fa emozione, la bellezza che dà ossigeno all’anoressica realtà, una flebo di vita ‘autentica’ per disintossicarsi dalla tisica quotidianità. Un libro trans contro l’anossia dell’esistenza. Spruzzi e sprazzi di vernice spray sul muro bianco della mia vita (anche se ho letto da qualche parte che “L’uomo è un foglio bianco, su cui l’ambiente e la società incidono delle linee precise). ‘La politica dell’esperienza’, il libro che tu ben conosci, trovato per caso (ma il ‘caso’ è il ‘cacio sui maccheroni’ della quotidianità) su una bancarella di libri usati, fu proprio una mazzata. Una scossa, in particolare la sua chiusa: “Se solo potessi convertirvi, condurvi fuori dalle vostre meschine menti, se potessi comunicare con voi, allora sapreste.” E io seppi, ma non mi fermai lì, andai oltre…»
Solo un attimo di sospensione, e poi la stoccata finale.
«A proposito, se incontri il maestro, abbraccialo, bacialo e poi… uccidilo.»
Un lampo, un flash-back nello spin del tempo: fu proprio alla svolta dell’ultima pagina del fatidico 1991 che – complice un ‘supporto’ umano (e un altro paio a far da ‘volano’) – Lorenzo si ‘risvegliò’, rientrando in sé come il figliol prodigo (pur non avendo vissuto, salvo qualche intemperanza – so’ ragazzi… –, alla maniera dissoluta di questi). Ma, passato il momento di lucidità, non sempre era riuscito a sfuggire al cappio dell’immancabile (sia pur sempre meno frequente) ricaduta, ripetutamente risucchiato dall’esistenza ordinaria.
Come un sonnambulo o, peggio, un robot, aspirato dai suoi pensieri, dai suoi ricordi, dai suoi desideri, dalle sue sensazioni, dalla bistecca che mangiava, dalla sigaretta che fumava, dall’amore che faceva, dal bel tempo, dalla pioggia, dall’albero vicino, dalla vettura che passava... Pur non rientrando appieno nella tipologia (comune, diciamo pure maggioritaria) dell’uomo sonnambulico, o eterodiretto, non sarebbe di certo sfuggito all’occhio levantino di monsieur Gurdjieff (anche se Lorenzo non fumava).
Fasi up e fasi down. Up nella sua volontà, down nelle viscere del suo subconscio. Qualche volta il ribaltone. Guai se il down esteriore fosse stato, abitualmente, in fase col down interiore… Che risonanza! Anzi, che dissonanza. Stonata: depressione, vuoto, oppressione, letargo. Ma ora i due up si erano riallineati e Lorenzo, sospinto fuori dalla caverna delle ombre vaganti, si era ri-risvegliato (se così si poteva dire) quel che bastava per continuare quel cammino sul ponte, così pieno d’intralci e intoppi (e scivoloni), che pure – così almeno gli era stato profetizzato anni prima – lo avrebbe portato verso una meta luminosa.
Un faro al termine della notte: da tempo premonizioni, intuizioni e segni vari (bagliori) gli avevano fatto intravedere squarci di un mondo ‘autre’, di un’altra dimensione della realtà. E una chiamata a una vita diversa...
“Viaggiare è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione ... Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario ... Basta chiudere gli occhi. È dall’altra parte della vita.” Il viaggio alla Céline (anche se Lorenzo oscillava più tra Céline Dion e Dion Fortune, tra la cantante e l’esoterista) lo stava portando dal fondo della notte verso un’alba dorata. Lui che, come Salgari, suo compagno di fanciullezza, viaggiava soprattutto a cavallo della fantasia. Anche in questo cavalcava la tigre.
L’immaginazione al potere. E Lorenzo, immaginifico com’era, sarebbe certamente diventato re… Circostanze e coincidenze gli avevano dato delle indicazioni ben precise e lo stavano accompagnando, mano nella mano, talvolta con strattoni, verso la corona – Keter –, la ‘sfera’ più in alto sull’’albero della vita’. Oppure, anche senza scettro, nella giusta direzione. Giusta ma non ancora a portata di mano, o di vista (se non del terzo occhio: l’oculus fidei).
Se fino ad allora tutto era andato a rilento, ora ebbe, dentro di sé, la sensazione certa che tutto avrebbe cospirato a farlo andare, e quanto prima, verso la meta. Non solo quella eterna: già un primo traguardo – e che traguardo! (ma lui non lo sapeva ancora) – in questa vita. Saltando, zompando, cabalisticamente, dal tempo circolare – l’eterno ritorno – dei primordi al tempo cubico – lineare – del futuro: scagliato come un dardo verso il traguardo.
Morte, dov’è il tuo pungiglione? Dalla vita ‘muta’ alla vida loca. Dal Mito alla Storia… Ma sarebbe stato pur sempre un futuro ‘mitico’. Luminoso, gioioso, focoso. Vitale, vitalistico, pieno di slancio. Olistico. Senza più affanno e viso abbattuto. Non più come Caino. Al contrario, sarebbe corso verso la meta ridendo, danzando, con una mano verso il cielo e l’altra puntata verso la terra.
Dionisiaco e apollineo. Filosofo e poeta, avrebbe inghiottito il tempo in una folle risata. Non più l’Adamo scacciato dal giardino (si era forse scocciato?), Lorenzo, ma lo Zarathustra disceso dal monte (e come rimase scioccato!). Per lui, che nicciano era fino al midollo, diciamo pure fino all’ossimoro (e non nicchiava più), era giunto il momento (divino, malgré Nietzsche) di trangugiare tutto d’un fiato il ben poco sciropposo Gilles Deleuze e la sua salata citazione internettiana, scippata a un sito di ‘cultura non conforme’: “Coloro che leggono Nietzsche senza ridere, e senza ridere molto, senza ridere spesso, colti talvolta da un fou rire, è come se non leggessero Nietzsche.”
E Lorenzo aveva deciso di ridere.


domenica 12 novembre 2017

DOMUS IN FABULA


DOMUS IN FABULA
È domenica – ogni giorno porta la sua “pena” (e “penna”) – e mi sento in modalità (vena) poetica. Da tagliar le vene. Ed ecco che ripropongo la mia introduzione, di circa 30 anni fa, per il mio progetto (pubblicato su un libro dedicato) per il concorso “La casa più bella del mondo”.

Era l’alba, il momento più degno per l’incontro cui tanto aveva anelato.
Si avvicinò al
locus: il genio aveva ghestalticamente ricomposto le mille tessere in quarant’anni gelosamente serbate. “I have a dream” si trasfigurò: la sua domus era lì, del sito proserpina, eppur ecumenica.
Nell’aura dai colori non ancora accesi, il portico audace tentò l’approccio, baroccamente giocoso, novecentescamente solenne. Incuriosito, come bambino quarant’anni addietro, scartò la pur breve scalinata, infilò la rampa di sinistra, sospinse l’uscio ed entrò: una luce soffice lo accolse mentre s’incamminava incerto verso qualcosa che gli appariva un curioso dialogare tra reale e virtuale.
Scartò la scala di sinistra e acquisì la tattile consistenza cromatica che l’imago autre offriva di sé sulla flessuosa parete di destra: eterna diatriba tra essere e non essere, o forse qualcosa di più semplice? Scelse la prima ipotesi e, baldanzosamente attratto da “sons et lumiéres”, s’affacciò nella cavea ellittica.
Improvviso s’elevò un urrà di benvenuto: elfi e umani lo avevano per quarant’anni atteso e ora pubblicamente lo ringraziavano. Ripresosi dallo stupore, gli parve persino di riconoscere figure settecentesche, perfettamente a proprio agio, così come cantava quel loro dialetto, così antico, eppur così vicino al suo. Improvvisamente, vicino al camino, tra le griffe spuntò il figlio che se n’era andato appena grande, forse rientrato nei ranghi dopo anni di romitaggio esistenziale.
Lasciò le sequenze che l’ultimo videoclip affastellava sulla parete e, sentendo il desiderio di allontanarsi un po’ da quel clamore, volle ritirarsi nella stanza appena discosta dall’ingresso.
La porta era socchiusa; la sospinse, e si meravigliò assai vedendo lei, che l’aveva abbandonato, e i suoi vecchi, in un unico abbraccio. Salutò con familiarità, quasi non avesse subito il distacco, prese lei per la mano e salì le scale; ma tale era lo stordimento, più di quanto volesse far credere, che salì per la rampa
“trompe l’oeil”, accompagnato da chissà quale genio.
Superato l’ultimo gradino, si affacciò dall’alto sulla cavea ancor echeggiante e la immaginò vuota: in essa avrebbe potuto sistemare per sé, per la moglie e per il figlio, l’ufficio dell’operatore immobile, eppur collegato col villaggio ecumenico. Per la sua intimità, e per i messaggi col villaggio cosmico, pensò invece a una sala al piano superiore, dove, nelle notti stellate, la cupola, una volta aperta dalla magia dell’elettronica, gli avrebbe dischiuso tutti i luoghi delle sue eterotopie.
S’immerse in queste digressioni, la mano di lei ancora stretta, la cupola ancora dischiusa sullo spazio irreale che virtualmente si apre oltre la coscienza, quando un improvviso temporale gl’inseminò il capo: pensò allora che forse una più stabile copertura, magari colorata d’azzurro, avrebbe garantito la pace domestica.
                   

mercoledì 1 novembre 2017

DOPPIO SPECCHIO

 DOPPIO SPECCHIO

Oggi è giorno di festa e lo voglio celebrare, non con uno, ma con due racconti, tratti dalla sapienza orientale. Tema: realtà e illusione – ricordando che Occidente e Oriente, almeno nella Sapienza, s’incontrano, pur con accenti differenti.

LA REALTÀ (Lo “specchio sporco”)
C’era una volta un uomo seduto ai bordi di un’oasi all’entrata di una città. Un giovane si avvicinò e gli domandò: «Non sono mai venuto da queste parti. Come sono gli abitanti di questa città?»
Il vecchio gli rispose con una domanda: «Com’erano gli abitanti della città da cui vieni?»
«Egoisti e cattivi. Per questo sono stato contento di andarmene di là.»
«E così sono gli abitanti di questa città…» gli rispose il vecchio.
Poco dopo, un altro giovane si avvicinò all’uomo e gli pose la stessa domanda:
«Sono appena arrivato in questo paese. Come sono gli abitanti di questa città?»
L’uomo rispose di nuovo con la stessa domanda: «Com’erano gli abitanti della città da cui vieni?»
«Erano buoni, generosi, ospitali, onesti. Avevo tanti amici e ho fatto davvero molta fatica a lasciarli.»
«Anche gli abitanti di questa città sono così» rispose il vecchio.
Un mercante che aveva portato i suoi cammelli all’abbeveraggio aveva udito le conversazioni, e quando il secondo giovane si fu allontanato si rivolse al vecchio in tono di rimprovero:
«Come puoi dare due risposte completamente differenti alla stessa domanda posta da due persone?»
«Figlio mio – rispose il vecchio – ciascuno porta il suo universo nel cuore… Chi non ha trovato niente di buono in passato, non troverà niente di buono neanche qui. Al contrario, colui che aveva degli amici nell’altra città troverà anche qui degli amici leali e fedeli. Perché, vedi, le persone sono ciò che noi troviamo in loro…»

L’ILLUSIONE (lo “specchio rotto”)
A Mullah Nasruddin era giunta voce che la moglie lo tradisse. E gli avevano pure indicato il luogo (sotto la grande palma appena fuori città) e l’ora degli incontri clandestini (a mezzanotte in punto). Non sapeva però chi fosse il rivale.
Il pensiero del tradimento e la gelosia lo divoravano giorno dopo giorno. Ormai la sua era diventata una fissazione, una mania… E dal giorno della triste rivelazione aveva cominciato a soffrire anche di fobie e attacchi di panico; per non parlare degli stati d’ansia, della vergogna (erano ormai molti mesi che non frequentava più nessuno per paura dei commenti) e della depressione che lo buttava sempre più giù. Era ridotto a uno straccio…
Un giorno prese il coraggio a due mani e disse fra sé e sé: devo far fuori il mio rivale! Si preparò psicologicamente a puntino, si rimise in sesto, disse in anticipo le preghiere riparatorie, si armò di tutto punto e andò di soppiatto sul luogo deputato, Era quasi mezzanotte, luna piena, nessuno intorno, solo una leggera brezza e il sommesso vocio degli animali notturni…
Salì sulla palma e iniziò ad aspettare. Mezzanotte: niente, mezzanotte e mezza: niente… Ma lui imperterrito, sempre più carico di rabbia e indomito coraggio.
L’una, le due, le tre, l’alba… All’improvviso, il flash: ma io non ho moglie!