sabato 30 gennaio 2021

FRANKIE GOES TO HOLY WOOD. In the sky with diamonds

FRANKIE GOES TO HOLY WOOD

In the sky with diamonds

Questa è una cover, ma vale sempre recuperarla. Una cover in memoria di un ‘versificatore’: un poeta absconditus, un cordon bleu dell’ars verbalia (per così dire). Verba volant, ma lui, Francesco (Paco ai tempi d’oro, quando duettavamo verbis et orbis, tra l’ispanico e il teutonico – le nostre due nature), è sì volato, troppo presto, in the sky with diamonds, ma qualche perla l’ha lasciata… (e l’ha pure lanciata).

Il lanciatore? Francesco Fumarola, crispianese nato a Firenze, un po’ milanese, come tanti tarantini – a partire dal Raffaele Carrieri di “Se qualche poco di luce da lontano mi viene, è da te Jonio gentile, che le muse riconduci ai lidi degli Dei: fra l’uva e l’uliva Eros ancora versa vino agile e resina…”

   Autodidatta puro (solo la terza media), sanguigno e fumino (non fumoso, né fumato) mio collega d’ufficio – quando più mi sento spirituale tanto più la carne brucia, amava dire –, fu il primo mentore spirituale nel mio ritorno al cristianesimo (dopo un viaggio a Oriente, che comunque mi ha lasciato i suoi aromi speziati).

”Fuori delle mura delle città grigie camminiamo in bosco e in campagna; chi vuole vada alla malora – noi ci incamminiamo attraverso il mondo…” “Meglio il bosco che l’asfissia civile, meglio la battaglia che una pace da salotto” potevano ben essere i suoi motti, la sua ‘cifra’ profetica. Francesco vagava nel bosco sacro (holy wood) lontano dalle luci e dalle mosche del mercato (Hollywood).

  Nondimeno, nemo propheta in patria: così fu per lui, vox clamans in deserto. Sì, Francesco/Paco mi ha spianato la strada, ha sgrossato il mio spirito grezzo, mi ha lanciato definitivamente nell’agone.

Altalenante tra angoscia e sprazzi di joie de vivre, cavalcava le onde del suo mare (e male) dentro. Alchimista delle parole e del pensiero, in bilico tra rhema e logos; talvolta logorroico, spesso illogico, poeta sempre, in tutti i luoghi e laghi…    

   Suona la diana, corre la parola, e anch’io m’immergo nel Silenzio. Lógos endiáthetos e   lógos prophorikós. Voce e luce interiore ed esteriore: “… è un ‘andare incontro alla luce’, è via che conduce verso l’alto, che porta l’uomo alla sapienza mediante una ‘visione’ diretta, una contemplazione…” Questo – cito dal ‘Viso verde’, di Meyrink – il senso, il ‘suono’, della sua parola interiore.

Parola che lo ha proiettato in Alto: verbo sublime. Francesco andava alla radice, al suono della parola, lì dove c’è il suo senso profondo, l’essenza della cosa significata. Ma è andato anche oltre: ha rotto, con la vibrazione giusta, con la frequenza shock (non lo shock di Renzi…), il soffitto di cristallo che ci separa dal Trascendente, dal Divino, dallo Spirito: per lui la barriera era ‘trasparente’ – e così fu per me…

   Di Francesco/Paco resta molto: pressoché niente (per il momento) per la platitude – la gente banale, ‘piatta’. Ma da lui, il ‘celato’ (al mondo), l’‘invisibile’ (nell’ufficio in cui entrambi lavoravamo), è sortito il non-celato: quell’aletheia (verità) che illumina il sentiero di chi Francesco l’ha compreso (Ronnie Laing ne avrebbe fatto un suo case study).

Sì, Francesco/Paco: l’’altro’, l’’oltre’, l’’ultrà’ del pensiero e del non-pensiero, oscillante tra ‘Paco’ Garcia Lorca e Paco Rabanne...

   Il deserto cresce, l’erbaccia pure, ma qualche radura luminosa, tra i sentieri interrotti (di heidegerriana memoria), pure c’è! E ora che è volato, give Paco a chance…

A proposito, anch’io gli ridò un’opportunità: quella di riascoltare due sue poesie (flos de floribus).

 L’ANCESTRALE SASSOFONO

 Lungo i raggi obliqui di una magica luna

e su fluttuanti note di un ancestrale sassofono

io m’oblio incantato in estasianti emozioni

nell’arcana alcova di una notte cosmica!

(fatal combinazione sincronismo junghiano, su YouTube, nella playlist random, vibra il sax di Marion Meadows).

SE LA VITA È AMORE

 E un vento nasce,

e un vento muore,

e poi rinasce.

E come vento alitoso,

la vita corre, corre, corre…

come treno nella notte,

vuoto e solo, perché non tocca

le proprie stazioni.

Ma se la vita è Amore,

dopo incrollabili paure

Amore diventa straripante fiume,

che  tutto tocca, tutto plasma,

tutto trasforma, tutto eleva.

E un sole nasce,

e un sole muore, e poi rinasce.

Ma tu, Francesco. sei vivo!

 

 

 


 

mercoledì 27 gennaio 2021

NOTTI A RIO. Samba pa ti

NOTTI A RIO

Samba pa ti

 

Nei post precedenti ho soggiornato prima a Roma, poi a New York. Oggi, sempre complice il romanzo tuttifrutti Gocce di pioggia a Jericoacoara, volo (e spiaggio) a Rio de Janeiro, se Deus quiser…

 

Se Deus quiser – se Dio vuole – lo slogan carioca. E Dio aveva voluto… e il due di cuori aveva fatto poker, barando pur di giungere a destinazione. Rio de Janeiro, ‘la città meravigliosa’, svelata a gennaio (1502) per turbare i sonni dell’Occidente, riscoperta a settembre (2000 e passa) per colorare i sogni del nascente Oriente di Arianna e Tomás, era lì a disposizione, con le sue montagne a cuneo e il Pan di Zucchero emergente sulla dolce Baia di Guanabara. Pronta a essere sciolta in bocca, tra un boccale di birra e un baccanale. Traboccante di vita, invitante, sveglia. Svogliata e svitata.

   Rio, città incantata e incantatrice, tragedia e farsa. Giungla urbana (non solo per i suoi dieci milioni e passa di bianchi, neri, gialli, meticci di ogni nuance, ma, alla lettera, per la foresta ‘cittadina’ di Tijuca, la più vasta del mondo). Concresciuta tra i morros a pan di zucchero (e il Corcovado, col suo Cristo Redentor, concreto – in ogni senso) e la giugulare di spiagge, graffiata dalle smozzicate unghie nere delle favelas. Alla luce del cielo più blu (di tutto o globo).

   Blu dipinto di blu. E il mare a fare da pendant. Centocinquanta i quartieri: dal top al down, cento chilometri di praias da favola (top of the tops), baie, cale e calette. Topless e brown sugar. Con Tomás, caliente aitante cobra con gli occhiali (rayban), che, caimano, calcava il pedale della sua cabrio nera, scalando marce e scialando benzina, pur di farsi una sgroppata su Rio (e Arianna).

   Che tour de force! E senza forse. Una farsa (tra la commedia – umana – e il dramma). A ritmo di bossanova, armonia ritmica sincopata (ma Arianna la sincope l’aveva rischiata a Jericoacoara: solo il forró l’aveva salvata). Partenza obbligata da Copacabana, prime sgommate (traffico permettendo) sulla mitica Avenida Atlântica, bordeggiando filo filo(dentale) la baia. Poi a capofitto nella gola profonda. Non prima di aver dato una botta a Botafogo, l’intellettuale, e aver fatto una calata alla mini-praia di Urca, bocconcino con contorno di liberty e alsaziano, inginocchiata (e loro distesi) sotto o Pâo de Açucar (urca, che panorama!).

   E poi di nuovo al galoppo (solo qualche sosta, più o meno prolungata, per un sorso di schopp – la birra alla spina): Vermelha, Leme, la surfeggiante Arpoador e la Ipanema fashion – quella di Vinicius de Moraes e Tom Jobin, e della loro – partenariato d’amore? – garota ‘piena di grazia’ (È lei la ragazza che sta passando, dondolandosi dolcemente…). Di seguito Leblon, dalla sabbia fine: esprit de finesse e jeunesse, spiaggia boom di giovani sirene e tritoni, surfici e veleggianti. E, dappertutto, i bum bum.

   «Lo sai che nel 1984, l’ultimo dell’anno, su questa spiaggia erano tre milioni e mezzo al concerto di Rod Steward? Il top dei tops dell’audience nella storia della musica, e forse non solo…»

   Gli occhi di Tomás si fecero lucidi, quasi volessero distillare, centellinare, per poi all’improvviso vomitare, ricordi accuratamente sepolti sotto la sabbia.

   «Avevo solo otto anni, ma sai, sono sensazioni tatuate indelebilmente sotto pelle… Notte magica: mi trasformò, mi fece fare il salto verso l’ignoto, verso altri lidi. L’atmosfera, la musica, la massa umana, la messa laica, gli spiriti svolazzanti e guizzanti, Jemanjá… Mio fratello – diciotto anni – e la sua ragazza – una garota bum bum – rimasero a terra, distesi sulla sabbia. Rod li aveva stesi… E io presi letteralmente il volo. E mi ritrovai cullato dalle braccia di Jemanjá…»

   Arianna, che nello strippante trip Jericoacoara-Rio aveva finalmente tubato senza ombra di turbamenti col bel Tomás, si lasciò andare anche lei alla brezza dei ricordi. Dancing out of the darkness. Dolcemente, senza rabbia, senza rancore, anzi con un po’ di nostalgia. Rivisse condensate le ore vellutate di lei e del suo Lorenzo distesi velvet underground ad aspirare musica, stretti (giù e su) cheek to cheek, ispirati, carezzati, titillati, graffiati dalla voce di Rod e leniti da quella di Jacques.

   “Une orange sur la table / Ta robe sur le tapis / Et toi dans mon lit / Doux présent du prèsent / fraîcheur de la nuit / Chaleur de ma vie.“ Un amore alla Prévert, appassionato, passionale, di profonda amicizia… Carnale, spirituale, sensuale. Senza limiti. Al di là del bene e del male. Maudit. Ma ora malandato. Abbandonato, ma, chissà… Udite,udite… che Lorenzo non fosse, come sempre, il backup guy, l’(eterno) ragazzo di ritorno? Ruota di scorta? No, mai! Un po’ sgonfio, questo sì.

   Lui, ancora lui, sempre lui, il palloncino si stava gonfiando, cominciava a risalire a galla… Sempre lo stesso ritornello, ma questa volta una bella cover, più intrigante del solito.

   Cover, remix, unplugged? Ma guarda un po’… era la prima volta che, da maggio (o giù di lì), pensava veramente a Lorenzo con un tocco di nostalgia e affetto! E con qualche brivido.

 

   Samba de minha terra. La sabbia impalpabile era piena di polpa (ma sarebbero seguite ore da pulp fiction). Le ragazze di Copacabana: una più pescosa dell’altra (ogni tanto un frutto marcio, alla cellulite); i ragazzi: pere cotte (tra cui rotolava qualche bel cocco, brunito fuori, bianco di dentro).

   Il latte scorreva a fiumi, erano lì l’uno per l’altra. E le cocu magnifique? A casa… (Arianna non era per nulla convinta che Lorenzo fosse andato da solo a Pugnochiuso.) Il brivido precedente aveva lasciato il posto a nuovi tremiti. Lorenzo aveva preso il volo, Tomás era atterrato, sia pure fortunosamente, sulla sua pista. Dissestata. Due – Arianna e il secondo Adamo (con qualche riserva…) – in uno: lei in fio dental (mai arrischiato fino ad allora), lui quasi. Una mimesi del meglio della fauna locale. Quest’ultima a fare da terzo incomodo, da convitato di sabbia (in lei c’era un po’ della pantera, da lui faceva capolino il giaguaro). Arianna, donna leopardo (alla Moravia?).

   Toda joia toda beleza. Flora e fauna ibridate da gemme alloctone: un po’ teutoniche, un po’ latine. E lei, internazionale. Arianna, penetrata dal genius loci, aveva azzardato il microkini (leopardato) a Copacabana, dopo un assaggio del più pudico bum bum made in Ipanema, multicolore e glamour. Incredibilmente in forma, nonostante gli anta (e sempre bootylicious, come Beyoncé, e dal booty/bumbum sempre in piena forma, alla Jennifer). Donna ‘a clessidra’, rapporto vita fianchi alla Jessica Alba, quindi non solo ‘bonita’, ma più intelligente della media (secondo i ricercatori, quelli di bocca buona). Un po’ Faust, un po’ Dorian Gray, un po’ Shakira (aveva preso in primavera un po’ di lezioni di danza del ventre, il che collaborava al sostentamento del suo ‘asso’ alla Lopez).

   Ben sceccherata, lei. E lui, l’asso (sotto la manica), delizioso, sciccoso, scioccante. Ice, ghiacciato, un ghiacciolo alla frutta… Doremifasol… Scacco al re. Shake shake shake… shake your booty. Se a vent’anni (come nelle canzoni di rabbia di Claudio Lolli) Arianna – le passate conquiste, i buchi nella sabbia… – faceva girare le testa agli uomini, ora – fatto il bis e passa (di anni) – faceva tourner la tête a uomini e donne. Bipartisan. Un colpo al cerchio e uno alla botte. Da love boat. Bum chicky, chicky bum. Shake ya bum bum…

   A cerchi concentrici (anzi, eccentrici): dopo il tour panoramico hula hoop, lei e il gringo (in effetti, era un po’ brasileiro un po’ europeo) fecero tappa all’isola di Paquetá. Ma nessun tuffo, se non nelle viuzze dal gusto antico, guancia contro guancia (quella di Arianna, arrossata, traccia inequivocabile di un contropelo troppo duro…). L’Área de Preservação do Ambiente Cultural valeva bene una visita accurata, con lo stetoscopio. Ma qui non giocarono al dottore. Tornarono alle radici, all’Architettura, allo spazio che si fa forma. Policromia di casette d’antan, nulla che grattasse il cielo. Uniche fughe in avanti (anzi, retrò), le case dell’architetta visionaria anni ’50, la free spirit Ormy Toledo, sulle orme e dentro la quale (la sua architettura) entrambi, specie Tomás, vollero andare a fondo (ogni viaggio è un’avventura culturale), soffermandosi non poco dinanzi alla sua vasta produzione in technicolor, qualche volta entrandoci dentro.

   Diverso l’approccio con la praia do Grumari. Qui nessuna costruzione, solo palme e tropici. Puro capricorno (per lei, ‘cancro’ impuro – come Lorenzo, del resto). Spazio nature. Caprice de Dieu. Natura informale. Sabbia e poi sabbia, mare turchese, lontani dal sabba metropolitano. E da ogni gabbia. Qui, quasi con rabbia, Arianna osò il topless che aveva lasciato nel cassetto dei ricordi (la Porto Santo Stefano anni ‘70, più qualche puntatina sull’albeggiante Costa Smeralda da sceccherare e quella Azzurra sul viale del tramonto). Al limite del nude look (a Copacabana, per quanto filodentale, era pur sempre un due pezzi).

   Amazzone per caso, femmina per libero destino (l’ossimoro al quadrato…), Arianna: creatura dell’estate (per nascita e declinazioni). Estasi pura. Sempre in movimento. Bionda. Come Janey, una delle Four blondes di Candace Bushnell. E quando un uomo si trova davanti a una bionda: “L’attività cerebrale diminuisce, il quoziente intellettivo scende, le capacità cognitive vengono in buona parte ibernate.”

   Arianna, anche lei bionda a pezzi. Ma sempre Sex and the City. Sia pur candida (Sesso? Sì, siamo italiani…). L’abbronzatura, sempre più dorata, con scaglie di cioccolato. Fondente. Arianna alla fonda nel Nuovo Mondo.

   Fusa, confusa? Sexual healing? Non sapeva cosa pensare. Circonfusa di nuova luce? Cominciava a pensarlo.

 

   Mancava poco al sabato. La nuova terra era formata e adorna. Il tohu e bohu degli ultimi mesi era ormai solo un pallido, sbiadito, ricordo. Era in pieno streben immaginifico. Slancio creativo, free lance, sulla pista di lancio. Strip and trip ai tropici. Se avesse avuto sottomano la ‘lancia’ – un tecnigrafo (ormai strumento archeologico, ma lei lo conservava come una reliquia), o un computer, anche una semplice matita – avrebbe colpito nel segno, avrebbe partorito il suo capolavoro, la sua casa sulla cascata.

   Pochi giorni a Rio e già si sentiva come una di casa. Anche tra le viuzze e le piazzette dell’Avenida Rio Branco, in vetta alla salita alla Frisco, sul trenino che attraversava il parco di Tijuca fino al Cristo del Corcovado. E per la par condicio, sul ponte do Diablo, a guardia della favela. E che non fossero favole ne ebbe la conferma la mattina seguente, quando tastarono, sia pur ai lembi, Rocinha, la bidonville più grande del Sudamerica (carità di patria? No. Solo voglia di sensazioni forti, come nelle scorribande del divin marchese e della sua trasversal combriccola).

   Favela pop. Trecentomila (o giù di lì) poveri in alto a dominare i ricchi e l’ancor più ricca baia (e sempre più meninos, e non solo, lì a sniffare, la testa affondata nelle buste di plastica piene di freon, il gas dei condizionatori. Euforici per un quartino – d’ora –, fuori per chissà quanto…). E non era certo l’unica, di favela (almeno settecento le baraccopoli, con due milioni di desperados – desaparecidos? – ad arrancare. E narcos a tutta birra, e coca, a tirare e sparare). Da lì e da altri ‘alti luoghi’, armate di chicos (‘gasati’ e ‘incollati’) discendevano spesso e volentieri a far razzia sulle praias di Ipanema, Leblon, senza dimenticare Copacabana (non c’era, Deo gratias – e gratis, solo la turma do gueto, ma anche gruppi di uomini e donne di buona volontà impegnati nel sociale).

   E le favelas più malfamate erano proprio quelle a contatto di gomito coi quartieri più chic (Tomás le aveva confidato che i facoltosi clienti dello Sheraton, alla spiaggia privata, ai campi da tennis, alla piscina, al fitness center, preferivano le zumate al cannocchiale sulla contigua favela di Vidigal…). Ma per loro Rocinha bastava e avanzava. 

   Era ormai primo pomeriggio e Arianna e Tomás decisero di tornare in albergo per un corroborante relax pre-serale: il party li avrebbe di certo stancati ed era meglio fare una bella ricarica. Ma prima della programmata siesta un robusto pranzo indigeno (sperava non indigesto, ma ormai lei era vaccinata a tutto) a base di feijão a carioca – fagioli neri, carne di maiale e salsiccia piccante – annaffiato da dosi massicce di alvorada (acquavite, succo d’arancia, limone e maracuja). Per essere più pronta per la notte di locura, di follia, nella quale si sarebbero aperte le porte sul mondo invisibile (quello reale, così le aveva detto Tomás).

   Altro che la Rio by night per turisti, a base di samba e cenetta in una ‘Barbecue House’… Sarebbero accaduti – così le aveva promesso il guascone compagno d’avventura – eventi mirabili, prodigi straordinari, incontri meravigliosi e pericolosi (speriamo nessuna bala perdida – pallottola vagante).

   Incontri con uomini (e donne) straordinari. Come nello scespiriano (e non solo) Sogno di una notte di mezza estate…