domenica 24 gennaio 2021

ROMA (amara) DA AMARE

ROMA (amara) DA AMARE

TARANTO E IL MARE

 

   Hora, dies, vita fugit, manet unica virtus. La città ferveva, il loro cuore pure. Hot. Con loro due in the sky with diamonds. Ghiaccio secco. Ice. Fuoco sacro, cuori puri, cuori sacri. L’asso nella manica. Fire… Atmosfera Iki. La musica del cuore, due cuori, una città. Arianna, Lorenzo, Roma.

   Nike. Vittoria. Redenzione dei luoghi e delle anime. “Mostrami che tu sei redento e io crederò al tuo Redentore.” Era finalmente giunto il momento di presentarLo, il Redentore. E non solo a Nietzsche, l’’anticristiano’.    

   “Tu sapessi che cosa è Roma! Tutta vizio e sole, croste e luce: un popolo invasato dalla gioia di vivere, dall’esibizionismo e dalla sensualità contagiosi, che riempie le periferie... Sono perduto qui in mezzo.” Parole (corsare) di Pasolini, incartate e spedite – si era nel 1952 – all’amico Giacinto Spagnoletti, critico militante (e di pari natali di Lorenzo, in quell’anno appena svezzato. Ma ora, mezzo secolo e passa dopo, la città ‘delfina’, teoricamente di sogno, viveva ancora tra i fumi. Da un ponte all’altro. Ancora nel guado. Come da prassi. La città dei due mari, girevole ma di pietra, era in piena tempesta d’acciaio, scespiriana. Earth, wind & fire. Terra sui balconi, solitari. Vento di scirocco, tombale. Fuoco siderurgico, una bomba. Città dell’estate, dimezzata, col respiro corto, sul viale del tramonto. Bella e dannata… – e con la vela traforata di Giò Ponti a far da spartiacque. In attesa sospirosa – suspiria? – di una Taranto blessing).

   Questa (la prima) era la Roma che avevano ritrovato dopo il tour walk-and-work da globe-trotter (e la molle Tarentum? In ammollo. Eppure, il suo sol levante e i suoi tramonti d’occidente – un unicum – avevano sempre più voglia di nuovi orizzonti). L’urbe capitolina: in bilico tra capitolazione e ricapitolazione (per il momento ancora tutta lucchetti, ma anche moine e smorfiette). Tutta generazione dello scusa-ma-ti-chiamo-amore. E con un look al passo col vento (dal ponentino era passata all’’attimino’).

   Tappeto rosso, città color rosso vermiglio (città futurista, o passatista?). Arianna e Lorenzo, provocatori post-litteram, spiaggiati nell’Urbe, bagnati dalla Fontana di Trevi ma non spiazzati, avevano anche loro colto l’attimo, quello senza diminutivo (il Kairòs). Il carpe diem avrebbe scandito i dies corporis, i giorni del corpo. Corpo, anima e spirito finalmente, e definitivamente, in sintonia: tripudio della vita, ripudio della morte.

   “Coi secchi di vernice coloriamo tutti i muri, case, vicoli e palazzi…” Ora non avevano più scusanti. Dovevano agire. Senza aspettare il domani (il daimon era lì, qui e ora). E infatti, quanto all’hic et nunc, trascurarono sightseeing e shopping alle soglie del week-end per prepararsi a puntino per l’incontro (solo una puntatina serale ad Ariccia per della porchetta rimpolpante e del Frascati light – alla faccia del classico digiuno preparatorio: ed era pure venerdì).

   Quanto alla sensualità, era ancora martedì grasso. La Pentecoste, a un dipresso. Una toccatina e fuga, lo start al tocco (l’una in punto) a base di tartine e più d’un goccio fluidificante di frizzantino (rosè salentino per giunta), per poi catapultarsi ben torniti in Piazza San Pietro. Non senza, però, aver prima vissuto – dopo lo shock-stendhal di fronte al Borromini di Sant’Ivo alla Sapienza e di San Carlino alle Quattro Fontane (che pure conoscevano bene) – la notte trasteverina al ponentino. Saturday night fever, tutta musica e accenni di danza: l’eterno ritorno, sia pur dissonante, alle caves fiorentine degli anni ’70 e alla Pugnochiuso anni ’80 e passa (sempre sul chi vive).

 

   ”In una città di due milioni e mezzo di scheletri, la presenza di qualche migliaia di viventi passa inosservata.” Frenesia flaccida d’inconsapevole mestizia. Ebbrezza da vino di buon mosto. Già acqua, trasformatasi in vin rouge ai primi sentori di una presenza vicina (Quo vadis? Maranathà!). Roma rosso-trevi, rubiconda di vernice e di mestruazioni. Urbe gioconda, ancora faconda di emozioni (e di nuovi figli). Complice. Sfuggente (tocco fuggitivo alla Cecchini e rintocchi stonati di aromatici Toscani).

   Sei venuto per mescere il mio vino? Ma il vino con cui mi ubriaco è invisibile.” Sapori forti sempre più dolci. Rosso Valentino versus Dolce & Gabbana. Fritto misto alla frutta. Grey’s Anatomy. Mistica est-ovest alla Rumi. Eppure, dietro a quelle poche migliaia di persone vive ce n’erano miriadi in attesa. Morte, dormienti, appisolate, in fase di risveglio… E l’aspettativa non sarebbe andata delusa. Nessun trattamento di fine rapporto.

   La relazione continuava, tra Arianna, Lorenzo e il mondo; il nodo gordiano che legava gli individui a forze estranee, anche quando si ritenevano liberi e autosufficienti, sarebbe stato sciolto. Di lì a poco. Di questo erano ormai certi. No doubt. La loro non era delusion, pura follia, né escamotage o escapismo, sia pure alla Houdini. Era certezza. Non la Grande Delusione. Lorenzo e Arianna erano forse degli illusi, dei ‘fanatici’, dei ‘visionari’, ma la missione cui sapevano di essere stati chiamati non poteva essere elusa. Loro, come le vergini avvedute, si erano fatte trovare pronte alla chiamata. Dentro i ranghi, come cani sciolti. Pronti a buttarsi sulle ossa secche, sui milioni di scheletri.

   Loose. Sciolti, liberi, pronti per diffondere il virus della libertà, della ‘vita piena’. C’era però bisogno di un ‘tramite’. E di un ‘fomite’, positivo però, di uno che contava (e che non dava i numeri). Di un ‘filtro’, insomma. Avevano bevuto l’elisir della dolce vita, avevano vissuto l’alba dorata e il mezzogiorno di fuoco, non poteva tutto concludersi in (e con) un’algida notte…

   “…al tramonto il rosso infuoca i ricami di pietra il tempio interiore è silenzio.”

 

Tratto dal mio romanzo Gocce di pioggia a Jericoacoara.


 

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