domenica 20 marzo 2022

IL VENTO SOFFIA DOVE E COME VUOLE


   IL VENTO SOFFIA   

DOVE 

E COME VUOLE


 Avrei potuto farmi anch’io il mio blog. Avrei trovato compagnia (Miro non c’era più, aveva lasciato il web, non so fino a quando: ero io il destinato a prenderne la torcia?). Avrei potuto scrivere quanto e quel che volevo. A ruota libera. E se foravo? Kissenefregava. Me ne sarei impipato dell’editore (non ne avrei avuto la necessità). Libero, senza controlli, senza censure… Alla Céline, l’irregolare, a costo dell’altrui disdoro: “Contro di lui tutto è permesso, la muta non demorde.” Ma ho staccato la spina (dal web) già prima di infilarla nella presa (internet non mi ha mai veramente preso, se non di necessità virtù. Ma ora il vento è cambiato e soffia dove e come vuole…).

Non sono un professionista della scrittura (ma al blog di ‘psico-filo-teo-scrittura creativa’ – Dal caos la stella danzante – ho dato il mio fiat). Come Cioran, non voglio rinunciare al mio ‘dilettantismo’. “Se fossi costretto a rinunciarvi è nell’urlo che vorrei specializzarmi.” E non sono un vizioso, e poi… avrei sprecato troppo tempo online. Eppure, io devo scrivere, scrivere, scrivere… Ma su carta (fosse pure carta carbone, o velina – quest’ultima mi dava più chance).

 

“Via le scarpe basse, via le orride ballerine, via gli stivali rasoterra. Da oggi solo altezze aeree. Da oggi si sale su, ci si slancia e si ondeggia e si affonda di più sul cemento. Ché anche la musica la segui meglio e i capelli scivolano ondosi e la gonna trova quel perfetto punto della gamba in cui fermarsi e i tendini sparano in su e senti che potresti, davvero, arrivare dovunque, e tutti lo noterebbero, che arrivi. Le ginocchia così meravigliosamente elastiche. E la caviglia, sì, bellissima riflessa nello specchio del negozio sotto casa, fra il nero e la luce del sole e dell’ombra.”  Anche se non porterò mai la gonna (mai dire mai…), ne ho avuto conferma dal blog di tal Gaia (nomen est numen – e poi di dèe ne conosco un paio): devo volare alto, a costo di scivolare.

La punta pivottante si sradicò dalla curva superiore, ruotando di novanta gradi fino a toccare la superficie d’appoggio, per poi rotolarvisi sopra e scomparire nel buio. Senza rumore. Priva dello stiletto, la sovrastruttura eccentrica venne meno, atterrando non priva di grazia sulla pista ancora pulsante di vita superiore. Con rumore.

Marzia si rialzò e riprese il breve viaggio, recuperando lo svantaggio sulle altre ragazze. La musica degli Oasis, eccessiva ma energizzante, continuava a martellare. Compulsiva, più un tapis roulant che un tappeto sonoro. Ma era quella giusta – concordia discors – per l’ora e la controra. Chiodo scaccia chiodo.

 

Splash. Rischiavo, sì, il naufragio (ormai ballavo da solo – diaballein), ma volevo navigare nelle acque del logos. Con il simbolo come ciambella di salvataggio. Helzapoppin’. Onda su onda, tra zapping e spleen, schiuma di saudade e folate di stimmung. Ma anche con un occhio (il terzo) al futuro adveniente. New moon o eclipse? Cercavo il sole sorgivo e continuavo a fantasticare nella twilight zone (lì le acque mi sembravano più calme) “… dove attorno a me non c’era nessuno. Nessun ricordo. Odio i ricordi. Odio amare. Ho sognato un destino diverso.”.

“Quello che veramente ami è la tua vera eredità, strappa da te la vanità … cerca nel verde mondo quale posto possa essere il tuo … strappa da te la vanità … sei un cane bastonato sotto la grandine, un’ortica rigonfia in uno spasmo di sole, metà nero metà bianco … strappa da te la vanità, ti dico strappala…” Vagavo nel buio come un caino segnato (e trasognato), nei coni d’ombra terracquei e nelle atre profondità plutoniche (la Santacroce come Virgilio – ma io la tradivo con le altre). Anche a costo di inciampare, scivolare, impaludarmi, scontrarmi con il treno del presente. Del resto, per dirla alla Céline (quello dei puntini di sospensione), il lato teatrale del disastro mi entusiasmava. Sì, mi spingeva verso nuove thule (prima c’erano state solo tulle, pizzi, fiori artificiali). Piccoli scrittori crescono.

Recatemi i vostri poveri, i vostri infelici, tutti coloro che vorrebbero respirare liberamente, i tristi relitti delle vostre rive sovrappopolate. Inviatemi i senza-casa, le vittime della tempesta: la mia fiaccola li guiderà sulla soglia delle porte d’oro.” Porte di corno, d’avorio, d’oro. Non era solo questione di sogni. Occorreva un cambiamento di segno. Signum aeternitatis.

Volevo uccidere la noia, tirare il collo alle mie paure… Tiravo calci alle porte per entrare nella vera conoscenza (la Sofia di Lorenzo) e succhiarne il midollo (fino ad allora – prima dell’ultimo tocco al libro – ero in ammollo, molliccio, mieloso: eppure, in me urgeva, sia pure mignon, l’Übermensch).

 

”Meglio essere un delinquente che un borghese” aveva dichiarato lapidariamente il giovane Ernst Jünger. Prima pietra. La seconda: “…e mentre io guardo la tua pace, dorme quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.” Conclusione (foscoliana. Ai limiti del fosco, e del bosco): si svegliò guerriero. E Lorenzo, leopardato e jeopardized, iniziò a tirare le pietre (e non era brutto…).

E poi solo i delinquenti sanno far bene all’amore… (direbbe, eretica, l’eterea arya, librettista dell’eros sublime). Non delinquo, nemmeno sdilinquisco – e non giaccio nemmeno in deliquio: sto sulla diaccia (o ignea?) linea di confine tra mondo e iper-mondo (per il momento ‘inter-loquisco’). Sarò stato metrosexual (nella recherche nottaiola, meno in quella vitaiola), ma non sognavo Beckham. La rete non mi ha mai veramente preso (me lo ripeto spesso, per non farmi irretire). Specie ora che sono per la penna: un indiano metropolitano indeciso tra gli sneakers e i tacchi a spillo.

Nietzsche… Da Antigone all’antagonismo urbano: volevo buttarmi nell’agone (per imbucarmi poi nei portici e scivolare nei salotti al caviale – glisso sugli stadi: la curva non me gusta). “Se sapessi veramente scrivere, potrei realizzare qualcosa che uccidesse tutti quelli che la leggano.” Burroughs, Heavy Metal, Soft Machine. Tutti in macchina. Volevo liberare il mondo dalla storia. Non voglio essere un notaio dell’esistenza, ma il profumiere dell’essenza.

 

Tratto dal mio inedito “Nietzsche: sneakers o tacchi a spillo?”


 

lunedì 14 marzo 2022

TUTTA LA VITA DAVANTI

TUTTA LA VITA DAVANTI

La mia vita, prima macerata se non acerba (ultimamente anche inacerbita), cominciava a sussurrarmi qualcosa all’orecchio: devo spalmare un po’ di gelatina esplosiva sulle colonne portanti del mio existenzminimum (la vita di adesso, inautentica. Ma sono agli spiccioli). Me lo dice il mio Lothar subliminale, ormai sulla soglia (o sono gli echi del Tyler di Palahniuk? L’ho conosciuto da poco, ma già ‘preme’, spinge, pungola, vuole combattere). Vita a lume di candela (Me & Me), poi vita al neon, ora sempre più YouTube (tubavo con il lounge, purché apollineo, zompavo sul rap, ma solo se dionisiaco). E ora di nuovo a lume di candela – ma adesso siamo in due a tubare:  Me & You Tube.

   La vita mi ha assunto. Non sono più un precario… Comincio ex novo. Tutta la vita davanti. Un viaggio alla Krakauer verso le terre estreme. Into The Wild. Primo impatto: Diana. In the cut. La guardo con sguardo nuovo (la vita e lei) – occhi inebriati dalla luna. Toccavo con lo sguardo la sua bellezza… Recitiamo la medesima canzone ancestrale.

   Nietzsche (miezzica… direbbe il siculo nicciano – Dumézil ribatto io), non ho neanche il tempo di spolpare tutte le emozioni che vengo assalito dal dèmone sempre più invadente (ma m’incanta) delle mie memorie book-avatariche:

 

Il grande salone, a doppia altezza, con il piano superiore che si affacciava sulla cavea, risuonava di sons et lumiéres. Chissà perché ebbe un flash di un vecchio progetto di Lorenzo – per il concorso La casa più bella del mondo – a cui aveva dato più di un colpo di mano… La musica soft, d’atmosfera, da radio groove by night, aleggiava nelle stanze, quasi vivesse di vita propria. Soffice e impalpabile, chill-out, sembrava volerla possedere. Una vera e propria playlist da brividi sottopelle (e sopra), una compilation copulativa. E creativa (anche corporativa: solo musica lounge e affini, franco-brasileira, con un pizzico di anglo-yankee per il correct). Anche un po’ thriller (in via di gestazione).

Le donne, quasi tutte in abiti trasparenti e nude look (solamente un paio monacali, ma sotto sotto sadomaso); gli uomini, in jeans o nappa, con medaglioni più o meno simili tra loro, quasi d’ordinanza: triangolari o rombici, ben visibili al centro delle camicie aperte (per lo più bianche, come la sua, ma le eccezioni non mancavano). A far da contrappunto agli affioranti ‘delta di Venere’.

Alcuni ballavano, da soli o in coppia (anche il triangolo era accettato – a parte i perizoma d’ordinanza); altri parlottavano con un bicchiere in mano: chi stile sophisticated lady chi a mo’ di ‘chiacchiera’ heideggeriana (in cui si parla di tutto ma alla fin fine nessuno ha capito niente). I rimanenti (due coppie e un trio), in una sala retrostante, dalle luci soffuse (più che altro per creare atmosfera), indugiavano in atteggiamenti più intimi. Niente però di davvero osè, tranne le ‘figure’ di una coppia impegnata in un amplesso sin troppo curato, esteticamente, da sembrare vero. Per di più, illuminato a giorno – un’isola nel circostante buio – dalla vivida luce di un faretto, che, nel chiaroscuro, faceva risaltare il leonardesco (e leopardesco) vibrare dei corpi perfetti. Quasi fosse una sequenza di scatti in bianco e nero alla Helmut Newton (riguardo a lei; alla Mapplethorpe quanto al macho, nero tra l’altro).

 

   Lascio Gocce di pioggia a Jericoacoara e mi guardo attorno: design d’avanguardia, aura crepuscolare (“non si vede una stonatura o un errore, il décorateur trasuda in tutti gli angoli” – avrebbe sentenziato Arbasino): sento che dalle latebre ipogee sta per sorgere il sole di mezzanotte. Mi sporgo dalle palpebre socchiuse, ma per il momento mi devo accontentare della lunare Gaia (dopo Diana è il secondo nome a ricorrere. Il terzo è Chloe: nomen-amen della tipa che mi vuol ‘benedire’ col suo ‘tocco’ umano troppo umano). Un invito a nozze (ierogamiche: nozze di Cadmo e Armonia?). Semel in anno? Il simile che attira il simile? Se non altro, non siliconata. E poi Gaia corrisponde a pennello al mio tipo di filosofa – con quell’aria da artista del Greenwich Village illuminata dalla Ville Lumière, e memore (non nell’outfit) di Ipazia: di noir vestita dalla frangetta giù giù fino alle stilettate stilose Manolo Blahnick, versione italiota: una Valduga in progress.

   Diana, invece, è boreale, ma pur sempre filosofa: slightly sexy, piena di grazia (e per grazia, con grazia), chimerica nella sua chimica (quella del suo fisico, astronomico), sempre pronta a mirare le stelle per non perdersi nella storia. Linguaggio perfetto, armonioso e colto, ironico e uranico, ed è perfino dolce e attraente (volendo citare – ma lei è al di là di ogni remix). E soprattutto, unica nella sua efficacia per presenza. Dovevo, evolianamente, seguire il destino e volare. Fosse anche una cover.

 

Tratto dal mio inedito Nietzsche: sneakers o tacchi a spillo?


 

sabato 5 marzo 2022

LIGHT MY FIRE

LIGHT MY FIRE

Il mondo impazzisce. Il mio capo è morto. La mia casa non c’è più. Il mio lavoro non c’è più. E il responsabile di tutto questo sono io.” Trauma della nascita, nascita del trauma. Karmacoma. Per rinascere dovevo uscire dalla torma. “Non vedi che il cielo, grave di presentimenti, s’oscura e tace?” Se prima ero ‘in fieri’, ora mi sento proprio in forma: ma sì, voglio proprio infierire… A colpi di clava. Un po’ Stirner un po’ Fight club, un po’ Ezra Pound.

    “Chi è sicuro del valore della propria causa non sente il bisogno della sua vittoria: il valore della causa ne segna già il trionfo.” Infierire. Non solo sfiorare, ferire, interferire. Turbare, non solo tubare. Devo uscire dalla mia comfort zone. Voglio avere la mia fighting chance! Diventare leggenda (e tuttavia invecchiare…). E tr… danzare sul mondo (a suon di tromba) e… ridere, ridere, ridere (il romanzo come terapia?). Riso dionisiaco-nicciano e witz surrealista-freudiano: un po’ di seltz nell’acqua bassa del mondo (se non altro, del mio mondo).    

    Non c’è fine, ma aggiunta: il trascinato conseguire di giorni ulteriori e ore, mentre l’emozione prende a sé gli anni di emozione privi, vissuti fra i detriti di quel che si credeva più affidabile e perciò più adatto all’abbandono. Ne ho scritto un romanzo (“Nessun vascello c’è che come un libro possa portarci in contrade lontane”), con molte fughe in avanti (se al vascello ha provveduto la Dickinson, quanto al dérriere mi sono barcamenato tra prestiti a destra e a sinistra. Usura? Jamais!). La mia missione? (e sono solo all’inizio): “Non essere limitato da ciò che è più grande, essere contenuto in ciò che è minimo, questo è divino.”

     E per questo ho scritto la pulp story del ventunesimo secolo (e non avevo ancora spolpato il ventesimo…). By the way, ha vinto pure un premio Emily Dickinson!

 

Sentiva nella ghianda dell’anima che c’era something new in the air. Qualcosa di nuovo stava per accadere: su di sé, intorno a sé, dentro di sé, sentiva good vibrations. Sentì vibrare il nucleo, il cuore, l’antro sotterraneo che si celava dentro: un desiderio violento lo pervase, come magma pronto a eruttare che la crosta esterna comprimeva, tratteneva, faceva muraglia tutt’intorno. Bramose voglie in cerca di un significato, aneliti vulcanici, ma spesso degradati a basic instincts senza profondità vitale. 

Nondimeno, dal mondo del sogno – il Tjukurrpa aborigeno in cui spesso si rifugiava, e da sempre (già nel ventre materno – così gli sussurrava l’Io subliminale) – più di una volta era riuscito a tirar fuori il ‘nucleo immaginale immanente’ (frase a effetto esplosa da Lorenzo in una delle conferenze amatoriali del suo periodo rosa), cioè la qualità ‘numinosa’ che lo sottendeva. In pratica, aveva dato corpo (nel vero senso del termine) ai voli della sua immaginazione.

Quel bisogno di creatività, di fuga dal mondo, di fantasie da realizzare, che può creare sia il gigante sia il mostro. Ma Lorenzo non era riuscito a essere né l’uno né l’altro; se non a sprazzi o, nel migliore dei casi, in maniera discontinua, frammentata. Arenato, frenato, appesantito dall’io sociale che non lasciava correre il suo io reale. Eppure la voce tiranna Krishnamurti dixit – gridava...

E come strillava! Munch… Sussurri e grida. Un urlo sul ponte. 

Ginsberg… che urlo! Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa…” Anche Lorenzo arrancava, ma senza strillare. Non più nero di rabbia. Solo frenato. Senza remi, con molte remore. Ramingo.

Freni interni ed esterni. Per rompere i quali, e catapultarsi nella vita, aveva cercato – pensando che fosse lì il problema – d’integrare il puer con il senex (quest’ultimo, in lui, pressoché assente), affinché si riconciliassero e passeggiassero insieme. Ma il fanciullo aveva avuto sempre la meglio.

Aveva, infine (passo decisivo), compreso che il suo malessere esistenziale derivava da un bisogno inespresso di esplorare le contrade del mondo dello spirito, le città invisibili: un mal-essere che solo un rivolgimento completo del suo essere, una metànoia, avrebbe potuto dissolvere.

 

    “Dovunque vado c’è la carcassa bruciata e ammucchiata di una macchina ad attendermi. So dove sono tutti gli scheletri. Vedetelo come la mia garanzia d’impiego.” Il mio mal-essere… Il vuoto annienta il mio essere e riempie il mio mal-di-vivere (ogni tanto torna a galla quell’oscuro, seppioso, gargoyle della mia multipolarità attiva: mi elevo e poi ripiombo giù. Basta… non mi appartiene! Dal ‘due’ – il dubbio, l’errore – devo passare al ‘tre’: la perfezione, o giù di lì. E se proprio il radicale ‘du’ ci deve essere, che sia Dyaus, dies, Dio, giorno, luce, donna…).

    Quando sono debole, è allora che sono forte Devo uscire dalla noia senza passare dalla paranoia (ci vuole una metànoia!). Per il momento sto passando per la mia fase viola: nichilismo borderline (quasi psicopatico), fondamentalismo anarchico, trascendentalismo (un po’ critico). Tutto il resto è noia… M’interrogo sul futuro, sul presente, sul passato (quando alle donne, sono in stand-by). Adda passà l’annata. Ma prima devo tagliare il cordone, uscire dal ‘giardino’… Diventare gallo cedrone,

    “L’esistenza non la puoi mai dedurre; la incontri.” Devo uscire definitivamente dalla mia bolla (la comfort zone), devo passare sotto le spade degli angeli buttafuori, devo estrarre la spada dalla roccia, devo sciogliere il nodo a guardia del bosco, devo scegliere, far luce. Devo vivere a costo di essere-gettato-nel mondo. Sartre… ho le nausee: sarò incinto?

    E da tutti questi esempi illustri non volete apprendere che il miglior partito è quello dell’egoista? Io per mio conto faccio tesoro di queste lezioni e piuttosto che servire disinteressatamente a quei grandi egoisti, voglio essere l’egoista io stesso.” Anarchia, politica, apolitìa? Beatles, Rolling Stones, Police? Light my fire.

    Sting… solo immergendomi nel mio romanzo-turbillon – ma tracce di Palahniuk mi sono rimaste addosso (ultimamente ero ‘fatto’ di lui e Jay McInerney: le sue mille luci di New York mi hanno accecato) – riesco a essere-nel-mondo (e poi ogni libro è politica – un vagare con un senso nelle mie città, visibili e invisibili). Sarò diventato egoiste (grazie allo Stirner di ritorno), ma, se non altro, comincio a vivere in una tasca della vera vita: un abito che non mi sono mai potuto permettere (il mio, quello logoro e bisunto, ha pure i buchi nelle tasche…). Ma ora è alla mia portata, sia pur sotto vetro (una parete di cristallo blindato: aspetto, da un momento all’altro, il colpo d’ariete).

   “Perdersi, smarrirsi. Ci sono momenti del mio lavoro in cui questo è necessario, vitale. Perdere le certezze, abbandonare le abitudini, rischiare.” Sì, leggendo e rileggendo la fiaba-apologo, niccianamente perso nella mia fiaba sull’origine (le definizioni morfologiche di Propp m’intrigano, ben più di Popper: dalla potenza – nietzscheana – al ‘potrebbe essere’… così traluce la nicciana doc, quella con la cappa – e il cappio. E intorno fiorisce il cappero). Anche se la mia più che fiaba è un effluvio quasi diluviale posso cominciare a srotolare il mio universo parallelo, proiettarmi al di là della materia, intrufolarmi nell’energia oscura, tra buchi neri e comete bianche (nella mia fantasia al laser non ci sono soffitti di cristallo che tengano…). Ma non ci sono più le fiabe d’una fiata…

    Coppie, grappoli, stringhe sempre meno sottili. Batteri, morule, embrioni di future miriadi… Tutto d’un fiato. Avevo trovato il passaggio (o forse, sono io quel passaggio…). Posso finalmente viaggiare avanti e indietro negli spazi curvi dell’imagery, cavalcare la time-line – non del chronos ma dell’aion – e combattere contro il drago, scalare la torre, conquistare l’amata, strappare il talismano agli dèi…  E sopravvivere al grande meriggio.

 

Tratto dall’inedito “Nietzsche: sneakers o tacchi a spillo?”