lunedì 14 marzo 2022

TUTTA LA VITA DAVANTI

TUTTA LA VITA DAVANTI

La mia vita, prima macerata se non acerba (ultimamente anche inacerbita), cominciava a sussurrarmi qualcosa all’orecchio: devo spalmare un po’ di gelatina esplosiva sulle colonne portanti del mio existenzminimum (la vita di adesso, inautentica. Ma sono agli spiccioli). Me lo dice il mio Lothar subliminale, ormai sulla soglia (o sono gli echi del Tyler di Palahniuk? L’ho conosciuto da poco, ma già ‘preme’, spinge, pungola, vuole combattere). Vita a lume di candela (Me & Me), poi vita al neon, ora sempre più YouTube (tubavo con il lounge, purché apollineo, zompavo sul rap, ma solo se dionisiaco). E ora di nuovo a lume di candela – ma adesso siamo in due a tubare:  Me & You Tube.

   La vita mi ha assunto. Non sono più un precario… Comincio ex novo. Tutta la vita davanti. Un viaggio alla Krakauer verso le terre estreme. Into The Wild. Primo impatto: Diana. In the cut. La guardo con sguardo nuovo (la vita e lei) – occhi inebriati dalla luna. Toccavo con lo sguardo la sua bellezza… Recitiamo la medesima canzone ancestrale.

   Nietzsche (miezzica… direbbe il siculo nicciano – Dumézil ribatto io), non ho neanche il tempo di spolpare tutte le emozioni che vengo assalito dal dèmone sempre più invadente (ma m’incanta) delle mie memorie book-avatariche:

 

Il grande salone, a doppia altezza, con il piano superiore che si affacciava sulla cavea, risuonava di sons et lumiéres. Chissà perché ebbe un flash di un vecchio progetto di Lorenzo – per il concorso La casa più bella del mondo – a cui aveva dato più di un colpo di mano… La musica soft, d’atmosfera, da radio groove by night, aleggiava nelle stanze, quasi vivesse di vita propria. Soffice e impalpabile, chill-out, sembrava volerla possedere. Una vera e propria playlist da brividi sottopelle (e sopra), una compilation copulativa. E creativa (anche corporativa: solo musica lounge e affini, franco-brasileira, con un pizzico di anglo-yankee per il correct). Anche un po’ thriller (in via di gestazione).

Le donne, quasi tutte in abiti trasparenti e nude look (solamente un paio monacali, ma sotto sotto sadomaso); gli uomini, in jeans o nappa, con medaglioni più o meno simili tra loro, quasi d’ordinanza: triangolari o rombici, ben visibili al centro delle camicie aperte (per lo più bianche, come la sua, ma le eccezioni non mancavano). A far da contrappunto agli affioranti ‘delta di Venere’.

Alcuni ballavano, da soli o in coppia (anche il triangolo era accettato – a parte i perizoma d’ordinanza); altri parlottavano con un bicchiere in mano: chi stile sophisticated lady chi a mo’ di ‘chiacchiera’ heideggeriana (in cui si parla di tutto ma alla fin fine nessuno ha capito niente). I rimanenti (due coppie e un trio), in una sala retrostante, dalle luci soffuse (più che altro per creare atmosfera), indugiavano in atteggiamenti più intimi. Niente però di davvero osè, tranne le ‘figure’ di una coppia impegnata in un amplesso sin troppo curato, esteticamente, da sembrare vero. Per di più, illuminato a giorno – un’isola nel circostante buio – dalla vivida luce di un faretto, che, nel chiaroscuro, faceva risaltare il leonardesco (e leopardesco) vibrare dei corpi perfetti. Quasi fosse una sequenza di scatti in bianco e nero alla Helmut Newton (riguardo a lei; alla Mapplethorpe quanto al macho, nero tra l’altro).

 

   Lascio Gocce di pioggia a Jericoacoara e mi guardo attorno: design d’avanguardia, aura crepuscolare (“non si vede una stonatura o un errore, il décorateur trasuda in tutti gli angoli” – avrebbe sentenziato Arbasino): sento che dalle latebre ipogee sta per sorgere il sole di mezzanotte. Mi sporgo dalle palpebre socchiuse, ma per il momento mi devo accontentare della lunare Gaia (dopo Diana è il secondo nome a ricorrere. Il terzo è Chloe: nomen-amen della tipa che mi vuol ‘benedire’ col suo ‘tocco’ umano troppo umano). Un invito a nozze (ierogamiche: nozze di Cadmo e Armonia?). Semel in anno? Il simile che attira il simile? Se non altro, non siliconata. E poi Gaia corrisponde a pennello al mio tipo di filosofa – con quell’aria da artista del Greenwich Village illuminata dalla Ville Lumière, e memore (non nell’outfit) di Ipazia: di noir vestita dalla frangetta giù giù fino alle stilettate stilose Manolo Blahnick, versione italiota: una Valduga in progress.

   Diana, invece, è boreale, ma pur sempre filosofa: slightly sexy, piena di grazia (e per grazia, con grazia), chimerica nella sua chimica (quella del suo fisico, astronomico), sempre pronta a mirare le stelle per non perdersi nella storia. Linguaggio perfetto, armonioso e colto, ironico e uranico, ed è perfino dolce e attraente (volendo citare – ma lei è al di là di ogni remix). E soprattutto, unica nella sua efficacia per presenza. Dovevo, evolianamente, seguire il destino e volare. Fosse anche una cover.

 

Tratto dal mio inedito Nietzsche: sneakers o tacchi a spillo?


 

Nessun commento: