AGORÀ
(IPAZIA MON AMOUR)
Che nel nostro tempo swatch ci siano, di tanto in tanto, flash di tempo rolex (ossia l’aion che inghiotte il chronos: ricorda, il tempo è una tigre) e, in momenti sempre più rari (o no? siamo o non siamo alle soglie dell’Era dello Spirito?), lampi di Kairòs (il tempo ‘propizio’, quello delle “grandi occasioni”) lo dimostra l’uscita graffiante di Agorà, film sulla mitica (per chi la conosce) Ipazia, filosofa e, soprattutto, überfrau (superwoman, per intenderci, ma alla Così parlò Zarathustra). Questo mi riporta a un brano del mio Gocce di pioggia a Jericoacora (finora inedito, ma tra non molto nelle librerie) e ad un ancor più remoto (venticinque anni fa) breve scritto di Alessandra Colla, la blog-webber della porta accanto (vedi all’elenco blog personale). Da quest’ultimo traggo un tralcio:
“Seguace delle dottrine neoplatoniche, e orientata verso una conciliazione delle teorie platoniche e aristoteliche, divenne ben presto celebre per il suo vasto sapere e per la sua bellezza: nei suoi Poèmes antiques Leconte de Lisle ne fa una giovane donna, e parla dello ‘spirito di Platone’ e del ‘corpo di Afrodite’ mirabilmente congiunti (…) Si sa che le sue lezioni erano frequentatissime in grazia della sua abilità di oratrice e del suo scrupoloso attenersi al pensiero autenticamente platonico e aristotelico." Per chiosare con Charles Pèguy (citato nell’introduzione allo scritto): “Se la memoria di Ipazia rimane, tra tutte le memorie umane, una delle più venerate, non dipende solo dal fatto che la fedeltà nella sventura è forse lo spettacolo più bello che un’umanità nobile abbia mai offerto. Ciò che in Ipazia ammiriamo, onoriamo e amiamo è questo miracolo di fedeltà: il fatto che un’anima sia rimasta in armonia così perfetta con l’anima platonica e la sua discendente, l’anima plotiniana, e in generale con l’anima ellenica, con l’anima della sua razza, con l’anima del suo maestro, con l’anima di suo padre; il fatto che in quest’armonia così profonda e intima Ipazia sia rimasta sino alla morte e durante la morte, mentre tutto un mondo, il mondo intero, crollava, frantumandosi per tutto la vita temporale dell’universo… e forse per l’eternità”.
Ab maiora ad minora… Passiamo al tralcio (frondoso) del mio Gocce di pioggia: un dialogo-scontro (ma alla fin fine un ‘incontro’) tra Lorenzo (il ‘cristiano’, ma free lance – in un certo senso …‘ipaziano’ anche lui – e Galatea, ‘pagana’ doc, lei sì ipaziana ultrà, oltre ogni senso…).
Galatea, nelle Scritture non c’è solo repressione, ma anche esaltazione… Exultet. La Bibbia canta (decanta, incanta) – nella Lettera di Paolo a Tito – “Omnia munda mundis. Tutto è puro per quelli che sono puri.” Dio ha creato il corpo, ed era ‘buono’, ‘bello’. Tutto della creazione divina è buono, anzi nell’uomo e nella donna è ‘molto buono’, ottimo. Anche la donna, alla faccia di Tertulliano. Molto buona. Il corpo è stato creato per il piacere, non solo per il dovere. San Paolo aggiunge: “Tutto è lecito (ma non tutto fa bene…).” Se poi Origene si è fatto eunuco, pazienza, abbiamo avuto un filosofo in più (con gran pace di Lorenzo, il filosofomane). Ma Abelardo ne ha sofferto. Eloisa valeva bene una messa… E non era Messalina (ma quella è un’altra storia. Da ‘cronaca vera’…). La legge è intervenuta perché il peccato abbondasse. Dio ci ha dato la legge perché la trasgredissimo. L’ombra c’è quando c’è il sole. Ma diminuisce man mano che ci si avvicina al grande Meriggio… Sì, è proprio il momento di passare a qualcosa di più forte, di hard.»
Galatea, già presa, al sentire il termine ‘hard’ si avvinghiò ancor più a Lorenzo, il quale, avviluppato da un mix di sensazioni ossimoriche, incluso l’abbraccio della mora, dolce-amara, si sciolse in uno scivoloso ma quanto mai fruttuoso ditirambo.
«Nel Cantico dei Cantici c’è scritto: “Qual è un melo tra gli alberi del bosco, tal è l’amico mio fra i giovani. Io desidero sedermi alla sua ombra, il suo frutto è dolce al mio palato…” Esplicito, no? XXX…»
Galatea finse una ritrosia verginale e stette a bocca chiusa (ma le labbra vibravano sottilmente – per quanto turgide). Lorenzo ne approfittò per dare, impudica lingua tagliente, blow… la stoccata finale.
«Ripeto, la Bibbia non è ‘bacchettona’. È un libro polisemico, per tutti e per nessuno, come lo Zarathustra di Nietzsche. Ed esprime filosofia joyness, una visione ottimistica dell’esistenza: leggi tra le pieghe. Il piacere, in tutte le sue variazioni, è per Dio ‘cosa buona’, non una piaga. D’altronde, per dirla con Heine, cos’è il piacere, se non un dolore straordinariamente dolce… Altro è l’eccesso, l’intemperanza, l’assoluta mancanza di ‘salvaguardie’. Ma lo stesso è per il mangiare, il fare sport, guidare la macchina. La distrazione può essere fatale. Oppure il troppo alcol e la relativa perdita di controllo. Non sempre l’ebbrezza fa bene (ma un po’ ci vuole: rallegra il cuore). Certo, nel sesso sono coinvolte più dinamiche… E senti quest’altra, sempre nel Cantico di Salomone – prima era il capitolo due, ora saltiamo al quattro (si tratta di un vero e proprio ‘can can’): “Sorgi, vento del nord, e vieni, vento del sud! Soffiate sul mio giardino, perché se ne spandano gli aromi! Venga l’amico mio nel giardino e ne mangi i frutti deliziosi!” Eros allo stato puro. E non convenzionale (non solo la posizione ‘missionaria’…). E nota bene, è la donna, la sulamita, a prendere l’iniziativa. Prima ‘attiva’ poi ‘passiva’, ma sempre passionale. Altro che antifemminismo della Bibbia! “Sub umbra eius quem desideraveram sedi.” L’ombra, alla Giordano Bruno, come limite ma anche come luogo di un’esperienza ‘eccezionale’. Ma anche come ‘frutto della passione’… L’uomo, come sempre indolente, esce allo scoperto più tardi – viene fuori dall’’ombra’ –, al capitolo successivo del Cantico, lì dove si parla di mirra, di aromi, vino, latte, di ebbrezza d’amore. E lei insiste (queste donne…). Non smette di sedurlo. Tutti frutti. E non solo all’aperto, nel giardino, col suo hortus conclusus che si apre al giardiniere, ma al chiuso, in casa. Eccola togliersi la gonna, ‘vestirsi’ della voce dell’amato e... “L’amico mio ha passato la mano per la finestra, il mio amore si è agitato per lui. Mi sono alzata per aprire al mio amico, e le mie mani hanno stillato mirra, le mie dita mirra liquida, sulle maniglie della serratura.” È la Bibbia, non è Emmanuelle o Alina Reyes.»
Uno scuotimento sexy alla vieppiù folta capigliatura (la tundra si faceva sempre più selva) e Lorenzo riprese la ciclopasseggiata nei meandri del sapere (Sofia e Lorenzo – Sophia Loren… – erano un binomio inscindibile).
«E queste sono solo alcune chicche. Ma il Cantico dei Cantici è un vero e proprio vigneto: “Sposa mia, le tue labbra stillano miele, miele e latte sono sotto la tua lingua … quanto dolci sono le tue carezze … il tuo ombelico è una tazza rotonda, dove non manca mai vino profumato.” È un vero e proprio invito alla continua ‘trasgressione’ (o ‘ingresso’) d’amore. Un sentimental tour: “Vieni, amico mio, usciamo ai campi, passiamo la notte ai villaggi! Fin dal mattino andremo nelle vigne; vedremo se la vite ha sbocciato, se il suo fiore si apre, se i melagrani fioriscono. Là ti darò le mie carezze.” Che apertura… Che boccioli, che bocce, che brecce… La brocca che si rompe al soffio della brezza… D’altronde, non è lo stesso Paolo a suggerire a marito e moglie di ‘stare sempre insieme’? Simeone il Nuovo Teologo – ce lo ricorda Panikkar, il teologo che porto sempre con me nella borsa da mare – affermava che deve dimenticarsi della vita eterna chi non la vive già qui. Ma vivere qui è vivere il qui e ora. Il salato ma anche il dolce (stando, però, attenti al diabete…). Sì, vivere il mondo. Non ci scordiamo che anche Calvino – che pure non era un viveur – ammoniva a non disprezzare la vita e a far uso, invece, dei beni di questo mondo. Magari, alla san Paolo, usandoli come se non li si usassero. In ogni caso, egli diceva, Dio ha creato le cose come doni, “non solo per soddisfare alle nostre necessità, ma anche per nostro diletto e ristoro.” Parole dell’arcigno riformatore, il Lancillotto di Ginevra.»
«Touché... Semel in anno licet insanire: una volta all’anno è lecito far follie – ammonivano gli Antichi. Ma io ti dico, esagera!»
Galatea spezzò il filo troppo lungo delle argomentazioni di Lorenzo e vi annodò la cordicella, di grana grossa, della sua trama.
«Ti ridico: esagera! Fin qui sei stato eccessivo solo nelle parole. Ma i fatti ti contraddicono. Almeno nella sostanza. Quello che tu dici è vero, ma non ha avuto seguito. Sai bene che il giudaismo, l’islam e il protestantesimo sono tre religioni nemiche del piacere, ma anche della bellezza. Della bellezza e, diciamolo pure, della cultura. Ti faccio un solo esempio, e ti basterà: Ipazia, la matematica e filosofa greca. Massacrata ad Alessandria da una massa di esagitati cristiani. Era il 415: l’età classica stava passando, ahimè, il testimone all’oscurantismo cristiano. E Ipazia era troppo bella e colta per la barbarie del volgo messianista. I cristiani, bigotti, ignoranti e cattivi dentro (e fuori) com’erano, non trovarono di meglio che farla a brandelli a colpi di coccio e bruciarne i resti. Del resto, Ipazia era troppo grande per quella pletora di nanerottoli.»
«Ma Gesù non avrebbe fatto così, anzi! Pensa all’adultera… E poi, rimanendo ad Alessandria d’Egitto, ho letto da qualche parte che nella ‘scuola’ fondata, si dice, dall’evangelista Marco, ci fossero donne ispirate dallo Spirito Santo che profetizzavano, insegnavano, ‘iniziavano’ i maschietti ai ‘misteri’ di Cristo… E dall’école uscirono fior di ‘dottori’: due per tutti, Clemente Alessandrino e Origene. Purtroppo, è la ‘truppa’ cosiddetta cristiana, per non parlare dei capi, a comportarsi da ‘anticristi’. E questo, talvolta, accade pure oggi. Anche tra le nuove leve della fede, i pentecostali, i mistici prestati all’azione. Spesso tra loro ci sono dei veri e propri ‘carismaniaci’. Dei serial killer dello Spirito (ma loro pensano di essere dei ‘doni’ di Dio). Quantomeno, degli antipatici. La ‘struttura’ del pentecostale ‘tipo’ è, in effetti, fondamentalmente anti. Anticulturale, antimondano, anticattolico, antimoderno, anti... Ma è una camicia di forza messagli addosso dall’’ambiente’ evangelicale, non quello genuino, in-genuo, ma quello d’impronta codino-fondamentalista. Fatto è che il retroterra protestante non è sempre così… Tutt’altro, di lì sono partite battaglie di emancipazione fondamentali: quelle black, femministe, sociali, libertarie in generale E poi quella cafoncella e puritaneggiante è solo una struttura acquisita, non certo implicita nel pentecostalismo stesso: quello doc, nature, è, invece, nella sua dimensione più profonda e originaria, aperto, irenico e inclusivo nel senso migliore del termine. Anche ironico… È, ripeto, l’interferenza di elementi, abitudini, tradizioni, anche ‘strutture’ e ‘categorie’, del fondamentalismo, specie del neo-fondamentalismo, che ne è la deriva deteriore, a ‘colorare’ il pentecostalismo di tinte, striature e macchie non proprie. È un cristianesimo andato a male, rancido, quello che ispira la morale del ‘risentimento’ (e di “tutti gli altri all’inferno!”), che non ha la fonte nel Divino, ma nelle profondità di Satana (le altitudines satanae…). Il vero pentecostalismo e il vero cristianesimo sono belli. Belli e possibili. Parlano del Paradiso più che dell’Inferno. Della gioia più che del peccato. E non sono astemi, secondo la moda fanatica di certo fondamentalismo yankee che, grazie a Dio, qui non ha ancora attecchito, nemmeno tra gli evangelici. I veri cristiani sono alcolici! Ma non workhaolics… Ebbri nello spirito e nella carne. E poi Gesù trasformò l’acqua in vino, non il vino in acqua… “Amici, mangiate, bevete, inebriatevi d’amore!” È la bruttezza del fanatismo – la (contro)faccia laida della religione – a sporcare la bellezza della vera fede. Con l’ossessione del peccato e dell’Inferno. Il brutto e l’impossibile. Solo perché loro, in fondo, non hanno amore né grazia (con la maiuscola e la minuscola). E non hanno veramente vissuto, imprigionati come sono nelle loro piccolezze e ristrettezze laido-borghesi. E nella loro pseudo-scienza piccola piccola (a far da contraltare all’altra pseudo-scienza, quella laica, terra terra). E la vera Scienza, dov’è?. C’è, ma spesso latita. Vorrei tanto sentire più sermoni e omelie sul Paradiso e su Gesù e meno sull’Inferno e sulle ‘paranoie’ psico-patologiche di tanti predicatori, con o senza titolo (e tutto tritolo). Spesso l’Inferno che loro ti gettano addosso e in cui ti vogliono far arrostire è il loro inferno privato, intimo, quelle delle loro passioni imputridite, o congelate… L’inferno sono loro! Ricorda, il rigore raffredda l’amore. Anche Paolo aveva le sue cadute ‘fondamentaliste’, ma poi si rialzava…»
«Tu la fai facile. Ma, purtroppo, non è così. Non è questione di eccessi o di troppo zelo. È nella loro radice semitica, quella elohista, iahvista, deuteronomista e sacerdotale (ci dava dentro anche in teologia, la mora tutto pepe… Pepe Mora). Ma anche il pentecostalismo, di cui fai tanta reclame, anche se sembra più attento al visual, spesso scade in grossolanità. E poi anch’esso mi sembra ultra-castigato e acido come una verginella avanti negli anni. Rancido. Altro che fuoco giovanile, alla Amici. Voglio calore sulla mia pelle, voglio le fiamme, voglio scintille… Io, piuttosto, mi rifaccio al pensiero gnostico, di origine iraniana, secondo cui il bene e il male sono per necessità coesistenti nell’Urgrund ontologico cosmico. Zurvan, dio iranico, essenza e sostrato dell’universo, coordina l’intrecciarsi del bene e del male, entrambi necessari. Quest’ultimo, il male, che tu lo voglia o no, è l’immagine speculare del bene, la sua ‘ombra’ – Deus inversus est Daemon…»