Droppin’ out
Di ritorno da una mia incursione ‘transoceanica’ (il web riserva sempre dolci approdi), persa la bussola, sono stato sbattuto dalla risacca su una barriera corallina (il sito Duemila ragioni – per cambiare) e, dopo un’immersione senza respiratore, ho portato a galla un’ostrica. Dentro, una ‘perla’ (nera): un post di Adriano Segatori, lo psico-nauta ‘noir’ sempre più sulla rotta dell’’antipsichiatra’ radicale Ronnie Laing. Naturalmente, l’ho subito infilata nella collana dei miei post (madre)perlacei: ed eccola qui (un bel frammento) a disposizione dei cultori delle perle (attenti a non darle ai porci…).
Il tempo corrente è un tempo totalmente sganciato da ogni senso della vita: ognuno di noi è immerso in una corrente maniacale, trasportato da una incontenibile agitazione, subissato da un bombardamento di stimoli e di informazioni, sottoposto ad una permanente tensione da prestazione, in un costante vissuto di emergenza. La rincorsa alla novità costringe tutti ad una compulsione al fare e, conseguentemente, ad una forzata propensione al cambiamento. Il divenire, in altre parole, è il fattore predominante dell’attuale condizione umana. In questo stato di perenne mobilità, peraltro favorita dall’insistente apologia della flessibilità e della trasformazione, chi ci rimette è l’’essere’, che possiamo forzatamente far coincidere con il carattere e, più ampiamente, con la personalità del singolo. Laddove un tempo l’identità era caratterizzata dall’autocoscienza della propria storia, del proprio destino e del proprio senso del presente, ora al massimo è riferibile alle impronte digitali, alla traccia del Dna, al requisito genetico.
La risultante della combinazione tra le pressioni dell’Es e i contenimenti del Super-Io non è più l’Io, ma una maschera sociale che deriva – secondo l’interpretazione di Massimo Recalcati – dalla “estinzione dell’inconscio”, che ha come causa e effetto contemporanei la “domanda collettiva di omologazione agli stili di godimento prevalenti”. In altre parole, il singolo non si chiede più “Io cosa desidero, e cosa sono disposto a rischiare per attuare il mio desiderio?”, ma “Cosa e quanto devo sacrificare per essere desiderato dagli altri?”, che poi è anche la soddisfazione immediata di ogni voglia indotta e condivisa dalla maggioranza. Accade, così, un fatto determinante. Usando per comodità una griglia classica di suddivisione dell’espressione dell’uomo – Ciò che si è, Ciò che si ha e Ciò che si rappresenta –, sono gli ultimi due parametri sociali che risultano essere essenziali in questa deformazione, per cui le forze del singolo sono impegnate sul fronte dell’avere e della rappresentazione, in una continua rincorsa all’apparenza e all’accettazione. Non è più quindi la repressione la fonte del disagio nevrotico implicito nel processo ordinativo della società, ma esattamente il suo opposto. Le cause del malessere delle persone sono identificabili nella rottura di ogni limite, nella negazione psicotica di ogni legame, nella presunzione catastrofica del diritto ad ogni soddisfazione e a qualsivoglia appagamento.
Il disagio psichico contemporaneo è dato, in sostanza, da un individualismo sfrenato, dalla “atomizzazione e disarticolazione in singolarità individuali [all’interno della] massificazione come qualità di milioni di singoli”, che necessariamente si riferiscono e si fondano ai due parametri esteriori della triade citata. Una volta squalificata ed espulsa la figura simbolica del Padre, nel cui nome si instaura quella istanza che Lacan definisce con il termine di Legge, cioè il dispositivo preposto all’esame di realtà, alla capacità di posticipare le gratificazioni, alla facoltà di esercitare il senso critico su di sé e sul mondo circostante, si è scatenata l’alienazione più totale, con la negazione del proprio essere autentico e la resa a ciò che la società pretenda che uno sia. È questo il “discorso del capitalista” – secondo l’accezione lacaniana descritta da Recalcati: la creazione di uno stato sociale in cui tutti i membri sono sottomessi da una propaganda di finta emancipazione da ogni forma di legame, disarticolati nelle loro relazioni rese false dagli imperativi dell’avere e della rappresentazione, in cui l’Io è quello narcisistico della “pseudopadronanza” di sé. In questa operazione – visibilissima per chi vuole vedere –, il sistema congegna sempre nuovi bisogni, concepisce sempre nuove insoddisfazioni, sempre e comunque esteriorizzati nella loro attrazione, con lo scopo unico di allontanare incessantemente il soggetto dalla sua reale necessità interiore, e spingerlo a ricercare al di fuori continue e inappagabili soddisfazioni. È la vittoria della produzione, dell’acquisto, dell’induzione all’invidia, della sovraimportanza dell’effimero.
Nell’esibizionismo sfrenato dell’avere – una macchina, un telefonino, un certo vestiario o un corpo confezionato – e del rappresentare – una parte politica, un settore aziendale, uno status economico o un apparato decisionale –, gli uomini ‘arrivati’, ‘riusciti’ hanno le presunzione di essere più liberi degli altri, più evoluti, più spregiudicati; in realtà, con questo totale condizionamento da ciò che il mondo può pensare di loro, sono miseramente prigionieri della loro immagine fittizia, della precarietà del loro personaggio. La rinuncia all’interiorità porta all’“estinzione dell’inconscio”, alla riduzione del soggetto a maschera sociale, intercambiabile a seconda degli opportunismi e dei compromessi, in un gioco di camaleontismo che non giova certamente alla stabilità del carattere e alla certezza dell’identità. È evidente che, cambiando assetto sociale e modalità relazionali tra sé e il mondo, cambiano anche le manifestazioni di disagio individuale e collettivo, con la conseguente necessità di modificare tanto le griglie interpretative del malessere quanto i procedimenti per affrontarlo (…)
Noi siamo immersi fino al collo – ed anche oltre – nella mistificante atmosfera della retorica: tutto è infiltrato dalla demagogia, dall’esaltazione dei diritti all’apologia delle voglie, dalla teatralità della politica alla maniacalità dell’economia. Quello che salta all’occhio è una diffusa insincerità. “Rettorica”, appunto, secondo il linguaggio di Carlo Michelstaedter. Ciò che viene distorto non è solo l’Io, ipnotizzato dalla realtà, incapace di filtrarla, di valutarla in senso critico, assorbito completamente dall’illusione del mondo esterno, ma soprattutto il Sé, quella totalità che si costruisce e si conquista attraverso un percorso di consapevolezza e di lavoro interiore, e che non è solo il centro della persona, ma il confine dentro il quale coesistono sia gli aspetti consci che quelli inconsci. È evidente che, liquidato l’inconscio, rimane solo un Io assorbente le suggestioni esterne e cristallizzato sui condizionamenti esogeni. L’Io si solidifica in una alterata esposizione pubblica, in una finzione omologante e condivisa, con la contemporanea causa e conseguenza di investire totalmente ogni energia nell’immagine richiesta dalle esigenze di prestazione, a discapito del proprio inconscio e delle implicite istanze di autenticità. Una delle caratteristiche di questa alterazione della personalità è – come esempio sintomatico – l’abilità nel mentire in maniera spudorata senza la minima capacità di provare rimorso. Pensiamo ai politici, ai manager aziendali, agli agenti finanziari e agli esperti di economia – tanto per fare qualche esempio più evidente: si esibiscono in dichiarazioni che sono tutto e il contrario di tutti, hanno amici oggi che possono tranquillamente diventare i nemici di domani (e viceversa), fanno affermazioni che vengono contraddette subito dopo dalla realtà, recuperano dichiarazioni che avevano negato poco prima.
Questa disfunzione è nata e si rinforza grazie al tracollo del senso comunitario e anche di quei rapporti contrattuali che, seppure surrettiziamente, tentavano di sostituire l’antico legame. La maggioranza delle persone ha festeggiato l’avvento del nuovo, crogiolandosi un una patetica utopia, infatti: “È un’illusione pensare che il crollo costituisca di per sé un progresso; se è la premessa di una crescita, non garantisce però che la nuova struttura sia migliore della vecchia. (…) Soprattutto non si dovrebbe pensare che l’assenza di limiti sia libertà. (…) Fare tutto quello che si vuole non rende liberi. Solo lo squilibrato si lascia travolgere dalle sensazione, senza avere consapevolezza della realtà”. Dal punto di vista politico, come la negazione del Padre è imputata da Recalcati alla rivolta del sessantotto, così Guillaume Faye accusa il marxismo di questa rottura primordiale, con autocritica per l’involuzione globale proprio da parte di uno dei fautori di questa deriva come Max Horkheimer. In altri termini, con la velleità di combattere la borghesia, il gioco ha portato comunque alla vittoria dell’economicismo e, con esso, al predominio del capitale. La liberazione dell’uomo si è rivelata un imbroglio. È questa la pseudopadronanza di cui parla lo stesso Recalcati; è alla seduzione dello squilibrato che si rivolge il discorso del capitalista. Il dispositivo alienante e squilibrante non fa leva sull’istanza di desiderio ma su quella del appagamento, e i due princìpi non sono neppure lontanamente comparabili. Il desiderio – etimologicamente da de-siderum, senza stella di orientamento, senza mappa – è la condizione in cui ognuno di noi, coscientemente, decide di abbandonare il sentiero conosciuto e i riferimenti sperimentati, per inoltrarsi in una esperienza ignota. La voglia, invece, non è un sentimento di inadeguatezza interiore che accetta il rischio del cambiamento per portarsi su altre posizioni di consapevolezza, ma una pulsione spesso indotta da gratificare nel più breve tempo possibile per passare ad un’altra successiva.
Con la lusinga del potere e l’allettamento della soddisfazione immediata ed infinita, l’Io si autoconsegna in una prigione nella quale deposita all’entrata la sua vera identità, e si conforma ad una maschera. Da quel momento in poi, dal momento in cui accetta la logica distorsiva del riconoscimento esterno, della validazione identitaria quantitativa – tante più persone mi considerano e mi conoscono, tanto più Io sono – l’individuo perde qualsivoglia autenticità per diventare oggetto dei bisogni e delle valutazioni altrui.
Ci troviamo davanti a quell’aspetto psicopatologico che viene anche chiamato “personalità come sé” o “falso Sé”, una struttura psichica o un assetto caratteriale che confonde identità autoconsapevole con giudizio estraneo, e quindi adotta una maschera sociale come se fosse la sua vera identità, per altro derivante da una incessante necessità di compiacere. Si osserva, perciò, come risultato della nuova ideologia dell’ultramodernità, un dispiegarsi di patologie psichiche che sembrano essere diametralmente opposte. Da un lato, una fittizia libertà collegata all’individualismo più sfrenato, con l’uomo ridotto ad un meccanismo efficiente, governato dalla pubblicità, dominato dall’idolo dell’efficacia, della prestazione e del cambiamento, consumato dalla “gadgettizzazione ipermoderna della vita” che lo riduce ad un simulacro narcisista e allo spreco effimero e superfluo in un “godimento tossico”. Dall’altro, una spinta omologante e conformista verso parametri, comportamenti e stili di vita assolutamente artificiosi e manipolati; una impellente necessità di fondersi in una massa fintamente differenziata, per occupare il vuoto interiore e anestetizzare i segnali laceranti dell’alienazione. Deresponsabilizzato e infantilizzato, questo idealtipo corrente, incapace di prendere in carico la propria vita, è solo pronto ad incolpare il caso, la società, l’accidente casuale che intralcia il suo tanto incerto quanto ingannevole cammino, senza accorgersi che il motivo concreto della sua condizione è “la irrazionalità della propria realtà, l’insussistenza del proprio ‘io’”. La cosa ancora più patetica è data dai maldestri tentativi di dare un senso e una ragione a questa mascherata identitaria, a questa mancanza di controllo su ciò che pretende di gestire, a questa velleità del possedere e del godere che è solo una difesa dalla coscienza della propria instabilità e un filtro per non vedere l’inconsistenza del proprio futuro. In riassunto, il capitale, strutturato in discorso, ha intaccato metastaticamente le coscienze, fluidificando l’identità e solidificando il suo camuffamento sostitutivo.
Ed ecco il mio commento al pensiero di Segatori (più che altro, una ‘chiosa’).
“L’uomo e la donna contemporanei soffrono perché hanno tradito il proprio Sé, cioè l’essenza più profonda…” (essenza nel senso di Gurdjieff, Almaas, Assagioli, Jung, Laing, Gesù...). Come dice Ronald Laing, "...siamo esseri istupiditi e balzani, stranieri a noi stessi, agli altri, al mondo dello spirito ed a quello della materia … Nasciamo in un mondo dove l’alienazione ci attende." E poi siamo routinari, senza un centro di gravità (non dico permanente, ma temporaneo...): siamo una folla 'platitudinaria', una 'legione'... Più che un''attitude', siamo un''abitudine'. “Un tipo importante di piacere, e di conseguenza di fonte della moralità, nasce dall’abitudine. Si fa quanto è abituale più facilmente, meglio, e dunque più volentieri; vi si prova piacere, e si sa per esperienza che l’abituale è collaudato, dunque è utile; un costume con il quale è possibile vivere è considerato salutare, in contrapposizione a ogni esperimento nuovo e non ancora messo alla prova. Il costume è perciò l’unione del piacevole e dell’utile, e per giunta non esige riflessione.” (Nietzsche, Umano, troppo umano). Il guaio è che il nostro costume esige, per essere completo, una maschera. Anzi, più d’una. Noi non siamo un’unità, ma una folla, una legione. E rischiamo di fare la fine dei porci di Gadara (nei Vangeli sinottici: i maiali ‘spiritati’ finirono tutti nel lago, dove affogarono: eppure erano “in formazione”, come tanti bei soldatini, o come gran parte di noi: tutti irreggimentati. Ma, come ricorda Ronnie Laing, non erano “in rotta”: erano sulla strada sbagliata. E c’era, invisibile, il pifferaio magico. Invisibile, poi… si fa per dire: le onde dell’etere saranno pure invisibili, ma come le vediamo bene: e come abbronzano…).
Comunque, poveri porci (e intelligenti pauca). Adesso poi che il lago è pieno di petrolio, ancora peggio… (il guaio è che delle sette sorelle ce n’è una legione: e hanno anche il piffero!). Sì, la nostra è una società 'liquida', ma un po' troppo 'oleosa'... Nondimeno, anche i porci vogliono sopravvivere: eppure, ripeto, come sosteneva Virginia Satir, l’istinto più forte, non è quello di sopravvivenza, bensì quello di aggrapparsi a ciò che è familiare. Ed è per questo che, pur essendo ormai arruolati nel grande circo (tra ‘nani’ e ‘ballerine’), ognuno di noi continua a rinchiudersi, come uno dei tanti bamboccioni, nella sua 'bubble': una comfort zone che, da “bolla di sapone” (che comunque ci permette di vedere all’esterno; e in ogni caso, prima o poi scoppierà), con i mattoni del nostro “pensiero pesante” facciamo diventare una torre d’avorio.
Ed è per questo nostro modo di pensare (altro che “pensiero debole”) che ammazziamo gli elefanti: tanto, chi se ne frega; e la bolla di petrolio? Non ci tocca... Ma guai se ci toccano la macchina, il nanetto nel giardinetto (fosse almeno l’hortus conclusus del Cantico dei Cantici: soror mea, sponsa mea…). In ogni caso, tra tante incertezze un dato certo (fuori statistica, quella dell'orina...) c'è: “Il duro e l'inflessibile vengono infranti dal mutamento; il flessibile e il cedevole si piegano e prevalgono...” (Ray Grigg).