LA DOMUS PADANA
Ogni tanto una notizia che non ti aspetti... (anzi due: ci vogliono almeno due ‘testimoni’ perché una news sia attendibile – Biblia docet, ma anche Zarathustra olet…): in tempi di Profumo (ma quelli dello ‘scandalo Profumo’ erano ben altri tempi, my swinging London!), il mio blog fai-da-te (per altri versi, autodafé – un po’ alla Canetti) rientra nei primi cinquanta (o giù di lì) tra quelli di architettura (solo italiani, ritengo). E non è un blog di (solo) architettura!
Nonsolomoda (sotto il blog tutto). Todo modo, in contemporanea (big ben o big bang – siamo vicini al binge-eating: meglio bulimici che anoressici. No… scherzo: né bulimia, né bullismo, né botulismo. Al massimo, un po’ di botox), un noto architetto-blogger (questo sì ai primi posti, e non ai primi post: è scafato, uno steppenwolf – o Wilfing?) mi onora di una mia ospitata - o comparsata (a breve). Che vuoi di più dalla vita? (specie ora che ho lasciato Pugnochiuso e le sue gargano nights).
Sì, notti garganiche e, soprattutto, mezzogiorni di fuoco (ma gli alberi verdeggiano – e il mare? Da Bollywood). Per contrasto, e lenire il magone, un po’ di Padania – ma quella a base di piadina. E con qualche spiedino: in questo caso, ancora in carne, la mia introduzione al mio progetto 'La domus padana’ (ma allora Bossi era ancora un pischello): contributo architetturale ‘magico’ (e c’era pure la ‘magione’) al concorso ‘La casa più bella del mondo’: progetto, il mio, ‘post-palladiano’, tra Charles Moore e Tigerman (sai, il postmoderno da bere: ma il mio era assenzio – un po’ modì, dal collo lungo, ma non obtorto collo). Fu, spero, tra i più apprezzati: una farfalla un po’ falena. D’altronde, si sa (ma chi lo sa? A Macherio? O nella radical-chic land? Quella che è rimasta... Rive gauche sempre più mosce... Pure senza caviale! E la Droite? Meno male che ci sono le 'granate'... Quelle senza doppi 'Fini', intendo - ma i fini giustificano i mezzi, anche se questi ultimi hanno fatto il loro tempo...). Comunque, ça va sans dire, la vera conoscenza latita. Il mio popolo perisce per mancanza - è Osea a osare a dirlo, nell'Antico Testamento. Diciamolo pure, a dritta e a manca, il sapere è una farfalla notturna.
Sì, l’introduzione al progetto: una favola decostruita piena di sottintesi e intensa nei suoi ‘detti’ – anche e soprattutto, i non-detti: “Solo dall’’agonistica delle frasi’ (Lyotard), dall’interazione e coesistenza di progettualità ‘plurali’ può prendere forma un algoritmo possibile per giungere ad una descrizione della bellezza, oggi, nell’architettura” (dall’introduzione al concorso). E questo blog si fonda ed eleva sulla coesistenza di progettualità plurali. Un blog olistico, agonistico e 'antagonista' (ovviamente, protagonista).
Ed eccoci al mio commento ‘onirico’ al mio progetto-papillon (un po’ carillon un po’ dandelion: sempre, derviscio rotante): è dell’88 (e si ricordi, ho fatto, da pischello, il ’68: poi il ribaltone, ora mi riaffaccio alla ribalta, sempre un po’ ribaldo), ma ancora ‘fischia’ (a proposito, riconoscete i vari jingles? Se li riconoscete - ormai siete diventati esperti di PNL e dintorni - fatemi un fischio). In ogni caso, se non nella giungla, un sentiero (interrotto) nel bosco c'è. E tra poco arriverete alla 'radura luminosa' (quei pochi che ancora non ce l'hanno fatta, guidati, mano nella mano, o a spinta, dal mio blog heidegger-nicc-jüngeriano).
Ed ecco la ‘radura', anche un po' 'numinosa' (ma infrattata tra le fresche frasche - meno male, i fresconi non ci arriveranno mai, se no staremmo freschi...)
LA DOMUS PADANA.
Era l’alba, il momento più degno per l’incontro cui tanto aveva anelato. Si avvicinò al locus: il genio aveva ghestalticamente ricomposto le mille tessere in quarant’anni gelosamente serbate. I have a dream si trasfigurò: la sua domus padana era lì, del sito proserpina, eppur ecumenica.
Nell’aura dai colori non ancora accesi, il portico audace tentò l’approccio, baroccamente giocoso, novecentescamente solenne. Incuriosito, come bambino quarant’anni addietro, scartò la pur breve scalinata, infilò la rampa di sinistra, sospinse l’uscio ed entrò: una luce soffice lo accolse mentre s’incamminava incerto verso qualcosa che gli appariva un curioso dialogare tra reale e virtuale.
Scartò la scala di sinistra e acquisì la tattile consistenza cromatica che l’imago autre offriva di sé sulla flessuosa parete di destra: eterna diatriba tra essere e non essere, o forse qualcosa di più semplice? Scelse la prima ipotesi e, baldanzosamente attratto da sons et lumières, s’affacciò nella cavea ellittica. Improvviso s’elevò un urrà di benvenuto: elfi e umani lo avevano per quarant’anni atteso e ora pubblicamente lo ringraziavano.
Ripresosi dallo stupore, gli parve persino di riconoscere figure settecentesche, perfettamente a proprio agio, così come cantava quel loro dialetto padano, così antico, eppur così vicino al suo. Improvvisamente, vicino al camino, tra le griffe spuntò il figlio che se n’era andato appena grande, forse rientrato nei ranghi dopo anni di romitaggio esistenziale.
Lasciò le sequenze che l’ultimo videoclip affastellava sulla parete e, sentendo il desiderio di allontanarsi un po’ da quel clamore, volle ritirarsi nella stanza appena discosta dall’ingresso. La porta era socchiusa; la sospinse, e si meravigliò assai vedendo lei, che l’aveva abbandonato, e i suoi vecchi, in un unico abbraccio. Salutò con familiarità, quasi non avesse subito il distacco; prese lei per la mano e salì le scale, ma tale era lo stordimento, più di quanto volesse far credere, che salì per la rampa trompe l’oeil, accompagnato da chissà quale genio.
Superato l’ultimo gradino, si affacciò dall’alto sulla cavea ancor echeggiante e la immaginò vuota: in essa avrebbe potuto sistemare per sé, per la moglie e per il figlio, l’ufficio dell’operatore immobile, eppur collegato col villaggio ecumenico. Per la sua intimità, e per i messaggi col villaggio cosmico, pensò invece a una sala al piano superiore, dove, nelle notti stellate, la cupola, una volta aperta dalla magia dell’elettronica, gli avrebbe dischiuso tutti i luoghi delle sue eterotopie.
S’immerse in queste digressioni, la mano di lei ancora stretta, la cupola ancora dischiusa sullo spazio irreale che virtualmente si apre oltre la coscienza, quando un improvviso temporale gl’inseminò il capo: pensò allora che forse una più stabile copertura, magari colorata d’azzurro, avrebbe garantito la pace domestica.