ZigZag su
Zygmunt
Bauman in love
Ieri è morto Zygmunt Bauman, il pensatore che forse
meglio di ogni altro ha saputo interpretare la crisi della società moderna,
il perché dell’era post-moderna e il quo vadis di questo incipiente Terzo Millennio (comunque, anche le Scritture
hanno il loro savoir-dire su tutto questo…).
In omaggio al “liquidatore” delle grandi (in)certezze,
eccovi un contributo tratto dal web: http://www.wired.it/attualita/media/2017/01/10/pensiero-bauman-5-punti/?utm_source=wired&utm_medium=NL&utm_campaign=daily
Ma siccome non mi (vi) faccio mancare nulla (nihil, nel senso nichilistico? Chissà...), lo chioso
con uno shot del mio Gocce di pioggia a Jericoacoara, in cui
c’è anche un “fermaglio” su Bauman.
Come dire, Bauman at work.
Come dire, Bauman at work.
È stato forse il pensatore – filosofo o sociologo,
poco importa in questo senso – che ha meglio interpretato il caos che ci
circonda e il disorientamento che viviamo. La temperie di passaggio,
lunga e inquietante, in cui siamo immersi. Specialmente con la fortunata serie
di saggi, da Modernità
liquida del 2000 in poi, che lo hanno trasformato in una superstar
del pensiero sulla postmodernità, considerata un territorio incerto
costellato da un esercito di consumatori che fanno di tutto per assomigliarsi
l’uno con l’altro. Zygmunt
Bauman è morto il 9 gennaio a Leeds a 91 anni. Le sue lezioni,
in particolare quelle successiva alla sua fase accademica concentrata sulla
sociologia del lavoro, rimarranno strumenti solidi – più che liquidi – per
capire la strada che abbiamo di fronte. E come sta cambiando pelle la società
che dovrà percorrerla.
1.
La
modernità liquida
Concetto fra i più noti del sociologo nato a Poznan da
genitori ebrei. Semplice da comprendere, nei suoi confini di massima: con la fine
delle grandi narrazioni del secolo scorso abbiamo attraversato una fase che
quelle certezze del passato in ogni ambito, dal welfare alla politica, le ha
smontate e in qualche modo dissacrate mescolandole a pulsioni nichilistiche.
Il risultato, che iniziamo a intravedere sull’onda
lunga di quel periodo, è appunto un presente senza nome caratterizzato
da diversi elementi: la crisi dello Stato di fronte alle spinte della
globalizzazione, quella conseguente delle ideologie e dei partiti,
la lontananza del singolo da una comunità che lo rassicuri.
La sua comunità è diventata il consumo, la sua
unità di misura l’individualismo antagonista ed edonista in cui nuotiamo senza
una missione comune. Concetti ripresi e approfonditi in testi come Amore
liquido (2003) o Vita
liquida (2005).
2. L’indignazione
La fase che viviamo è propizia ai populismi e in
particolare all’indignazione. In generale, a spinte contrastanti che
viaggiano in direzioni complesse ma senza progetti, con la sola
consapevolezza di ciò che non vogliono. Per Bauman, dopo la modernità
fondata sul meccanismo del ritardo della gratificazione, stiamo insomma vivendo
una sorta di interregno gramsciano. Una categoria da molti recuperata
per descrivere i tempi che stiamo affrontando, quando “il vecchio muore e il
nuovo non può nascere”. Un interregno oltre tutto ricco e affogato
nell’informazione nel quale mancano non solo soluzioni univoche ma anche gli agenti
sociali in grado di metterle in atto. Dagli Indignados
a Occupy
Wall Street fino ai movimenti populisti europei, l’ordine costituito
viene contestato e diroccato ma allo stesso tempo fatica a difendersi. Potrebbe
farlo solo accogliendo risposte che sposino in parte le istanze di
queste spinte, a loro volta poco chiare.
3. L’etica del lavoro ed estetica del consumo
Frutto di quella procrastinazione – investire
anziché distribuire, risparmiare o spendere; lavorare anziché consumare – è in
fondo lo stesso sviluppo della società moderna. Basato su un’attesa – quel
ritardo della gratificazione – che ha finito per produrre due tendenze in
radicale opposizione: da una parte una società basata sull’etica del lavoro.
Quella in cui mezzi e fini si invertirono finendo per premiare il
lavoro fine a se stesso, estendendo il ritardo all’infinito e tuttavia
mantenendo una volontà di ricercare modelli e regole al vivere comune.
Dall’altra l’estetica del consumo, che per
converso vedeva il lavoro come mero strumento utile a preparare il terreno per
altro. Quest’ultimo concetto ha subìto oggi un’estremizzazione che ha
condotto alla sua negazione: ritardo non c’è e non può esserci, attesa
neanche. Questo secondo modello, quello che viviamo – d’impostazione
aristotelica per opposizione al platonismo dell’altro – trasforma infatti il
mondo in un “immenso campo di possibilità, di sensazioni sempre più intense”
in cui ci muoviamo, spesso imboniti dal venditore di turno, alla sola ricerca
di Erlebnisse, esperienze vissute. L’esasperazione della
soggettività, che trova per giunta incredibili attuazioni nelle tecnologie in
cantiere come la realtà virtuale, si piega alla tirannia dell’effimero.
4. L’analisi dell’Olocausto
La svolta delle ricerche di Bauman avviene tuttavia
prima di questi celebri lavori, nel 1989, con Modernità
e Olocausto. Un tema evidentemente enorme per chiunque, pachidermico
per un sociologo ebreo che grazie alla fuga della famiglia in Russia nel 1939
aveva evitato le conseguenze dirette della Shoah. Magistrale il ponte che
costruisce fra la persecuzione degli ebrei le dinamiche della modernità,
individuandoli come elementi di destabilizzazione dell’ordine, finanza contro
terra. In questo senso Bauman fa dello sterminio un fatto ripetibile, lo toglie
dall’isolamento trasformandolo in frutto della civiltà moderna, delle sue
regole economiche ed efficientiste a cui subordinare pensiero e azione. La
Shoah come parto della tecnologia e della burocrazia, per la quale
l’antisemitismo è stata ragione necessaria ma non sufficiente. Uno sviluppo
della lunga storia della società, quasi un orribile test che ne ha
rivelato le possibilità occulte difficilmente verificabili nell’ordinarietà.
5. Post-panopticismo
In una prospettiva futura, per capire cioè cosa
arriverà dopo la post-modernità, Bauman – in particolare nel libro Sesto
potere. La sorveglianza nella modernità liquida uscito un paio di anni
fa e scritto con David Lyon – ci apre gli occhi verso un approccio del
tutto diverso alle strutture di potere, che sorpassa i classici modelli di
controllo teorizzati da Jeremy Bentham e Michel Foucault. Cioè un modello di
società in cui le forme di controllo assumono le fattezze
dell’intrattenimento e dunque del consumo. In cui sotto l’attenzione delle
organizzazioni transnazionali finiscono i dati e non le persone, o meglio le
loro emanazioni digitali. E in cui i rischi più elevati – più che per la
privacy – sono per la libertà di azione e di scelta.
La novità è che questo spazio del controllo ha
perso i muri. E a dire il vero non occorrono neanche più i sorveglianti, visto
che le “vittime” contribuiscono e collaborano al loro stesso controllo.
Sono impegnati nell’autopromozione e non hanno gli strumenti per
individuare l’aspetto poliziesco nascosto sotto a quello seduttivo. Non
c’è più un luogo – che sia la scuola, il carcere o la fabbrica – dove
concentrarci per controllarci, se non quelli residuali come il carcere o il
campo profughi.
Ed
eccoci al mio estratto (fatto a piccoli salti). Un po’ romance (Roma), un po’ dance
(New York).
“Tu sapessi che cosa è Roma! Tutta vizio e sole, croste e luce: un popolo invasato dalla gioia di vivere, dall’esibizionismo e dalla sensualità contagiosi, che riempie le periferie... Sono perduto qui in mezzo.” Parole (corsare) di Pasolini, incartate e spedite – si era nel 1952 – all’amico Giacinto Spagnoletti, critico militante (e di pari natali di Lorenzo, in quell’anno appena svezzato. (…) L’urbe capitolina: in bilico tra capitolazione e ricapitolazione (per il momento ancora tutta lucchetti, ma anche moine e smorfiette). Tutta generazione dello scusa-ma-ti-chiamo-amore. E con un look al passo col vento (dal ponentino era passata all’’attimino’).
Tappeto rosso, città color rosso vermiglio… (città futurista, o passatista?). (…)
“Coi secchi di vernice coloriamo tutti i muri, case, vicoli e palazzi…”
“In una città di due milioni e mezzo di scheletri, la presenza di qualche migliaia di viventi passa inosservata.” Frenesia flaccida d’inconsapevole mestizia. Ebbrezza da vino di buon mosto. Già acqua, trasformatasi in vin rouge ai primi sentori di una presenza vicina (Quo vadis? Maranathà!). Roma rosso-trevi, rubiconda di vernice e di mestruazioni. Urbe gioconda, ancora faconda di emozioni (e di nuovi figli). Complice. Sfuggente (tocco fuggitivo alla Cecchini e rintocchi stonati di aromatici Toscani).
“…al tramonto il rosso infuoca i ricami di pietra il tempio interiore è silenzio.” (…)
La città appariva dimagrita, quasi scheletrica, tutta ossa secche, ma conservava intatta la sua sensualità. Ne era passata di acqua (non rossa, ahimè) sotto i ponti... Anche il tempo scorreva, ma, ora, più lentamente. Si era prossimi al “tramonto rosso fuoco” ricamato da Sandro Giovannini, poeta ‘comunitario’ (…)
“New York è dove tutti vengono a farsi perdonare” confessa in Shortbus il vecchio gay, già sindaco (alla frutta) della Grande Mela. Sì, Shortbus, il gay-movie un po’ a Le fate ignoranti (ma oltre misura…), porno qui porno là, ma d’autore (film trans-portato al Festival di Cannes; portata un po’ indigesta…), che ben descrive la metropoli metrosexual. Alla Beckham.
Posh. Qui, più che altrove, Lorenzo avvertiva la disseminazione della cultura, costantemente contrattata e in divenire. Eppure, era solo da un paio di giorni che camminava col naso in su. E senza puzza sotto le narici. La metropoli puzzava, la campagna odorava? Era tutto oro quel che luceva? La metropoli versus la città rurale. Due realtà sostanzialmente diverse secondo Georg Simmel, filosofo quanto mai attento alla realtà urbana (Lorenzo se n’era occupato ultimamente, in un breve saggio su un giornale locale. Discettando, una ciliegia tira l’altra, anche di Kevin Lynch, Kurt Lewin e, dulcis in fundo, della percezione-Gestalt dell’immagine urbana).
Due realtà fisiche e due gestalt – forme, strutture – che incidono diversamente sul modus viventi dei loro abitanti. E sull’immaginario urbano. Imago mundi. L’architettura che ‘co-stringe’ fisicamente, psichicamente, ‘pneumaticamente’, i suoi sudditi. Architettura da de-costruire, reset psico-territoriale, bouleversement creativo. (…)
Punto di partenza, tra riva e ‘deriva’: la metropoli. Ritmo veloce, giungla di stimoli, sensazioni e immagini. Versus: l’ambiente rurale, dal ritmo lento, più abitudinario e uniforme. “Più la folla è densa, più ci sentiamo soli”, così Zygmunt Bauman ‘liquida’ la ‘città del troppo’ (altro che villaggio globale… Troppo annacquato: perciò i localismi stavano tornando a galla). Ma anche del troppo poco, del troppo uguale, dell’indistinto. E dell’outlet (e dei continui outing e coming out). Città-teatro-off, metropoli del ‘passaggio veloce’, del nulla – anche se iper… (e quella di Marc Augè non è un’iperbole: passiamo la maggior parte della nostra esistenza in ‘non-luoghi’, dove si consuma il presente e si abortisce l’avvenire).
La metropoli del denaro e di Mammona versus la campagna del baratto (e della mamma, quella con le tette gonfie di latte). Ma anche lo sfilacciamento del tessuto comunitario – altro che manna – a vantaggio della scolorita ‘stoffa’ periurbana (le periferie anonime e suicidofile, ipermercati inclusi, per quanto architettonicamente ben disegnati). Luoghi, non-luoghi? Vita, non-vita? Il bello non ha prezzo.
Vita tra i confini. Identità versus alterità. Ma ancor di più: alterità nell’identità. Equilibrio in bilico. Città plurale, campagna singolare. Spaesamento. Urbanizzazione selvaggia. Portici, shopping malls, clochardization. Marginalità inclusiva, gentrification elitaria. Minimal o segno ipergrafico. Fast-food versus slow-food. Boutique versus ipermercato? Un po’ l’uno un po’ l’altro. Ma con juicio.
Adelante. Ingoiare, piluccare. Vivere, sopravvivere. Morire, sognare, svegliarsi, risvegliarsi. Fare del silenzio un’opportunità, un ‘possibile appuntamento’ per ricevere intuizioni dal superconscio. Il silenzio della natura che (tra cinguettii e fruscii) annacqua l’ebbrezza urbana. Vivere tra i margini (e, spesso, sconfinare…). Questo l’universo quotidiano. Ma anche l’intellettualità sofisticata, la riservatezza fino alla ritrosia, il formalismo blasé e il distacco anodino, il tempo che tutto scandisce e cronometra: questa la metropoli e i suoi ‘numeri’. Ma dietro il numero c’è Dio…
“Tu sapessi che cosa è Roma! Tutta vizio e sole, croste e luce: un popolo invasato dalla gioia di vivere, dall’esibizionismo e dalla sensualità contagiosi, che riempie le periferie... Sono perduto qui in mezzo.” Parole (corsare) di Pasolini, incartate e spedite – si era nel 1952 – all’amico Giacinto Spagnoletti, critico militante (e di pari natali di Lorenzo, in quell’anno appena svezzato. (…) L’urbe capitolina: in bilico tra capitolazione e ricapitolazione (per il momento ancora tutta lucchetti, ma anche moine e smorfiette). Tutta generazione dello scusa-ma-ti-chiamo-amore. E con un look al passo col vento (dal ponentino era passata all’’attimino’).
Tappeto rosso, città color rosso vermiglio… (città futurista, o passatista?). (…)
“Coi secchi di vernice coloriamo tutti i muri, case, vicoli e palazzi…”
“In una città di due milioni e mezzo di scheletri, la presenza di qualche migliaia di viventi passa inosservata.” Frenesia flaccida d’inconsapevole mestizia. Ebbrezza da vino di buon mosto. Già acqua, trasformatasi in vin rouge ai primi sentori di una presenza vicina (Quo vadis? Maranathà!). Roma rosso-trevi, rubiconda di vernice e di mestruazioni. Urbe gioconda, ancora faconda di emozioni (e di nuovi figli). Complice. Sfuggente (tocco fuggitivo alla Cecchini e rintocchi stonati di aromatici Toscani).
“…al tramonto il rosso infuoca i ricami di pietra il tempio interiore è silenzio.” (…)
La città appariva dimagrita, quasi scheletrica, tutta ossa secche, ma conservava intatta la sua sensualità. Ne era passata di acqua (non rossa, ahimè) sotto i ponti... Anche il tempo scorreva, ma, ora, più lentamente. Si era prossimi al “tramonto rosso fuoco” ricamato da Sandro Giovannini, poeta ‘comunitario’ (…)
“New York è dove tutti vengono a farsi perdonare” confessa in Shortbus il vecchio gay, già sindaco (alla frutta) della Grande Mela. Sì, Shortbus, il gay-movie un po’ a Le fate ignoranti (ma oltre misura…), porno qui porno là, ma d’autore (film trans-portato al Festival di Cannes; portata un po’ indigesta…), che ben descrive la metropoli metrosexual. Alla Beckham.
Posh. Qui, più che altrove, Lorenzo avvertiva la disseminazione della cultura, costantemente contrattata e in divenire. Eppure, era solo da un paio di giorni che camminava col naso in su. E senza puzza sotto le narici. La metropoli puzzava, la campagna odorava? Era tutto oro quel che luceva? La metropoli versus la città rurale. Due realtà sostanzialmente diverse secondo Georg Simmel, filosofo quanto mai attento alla realtà urbana (Lorenzo se n’era occupato ultimamente, in un breve saggio su un giornale locale. Discettando, una ciliegia tira l’altra, anche di Kevin Lynch, Kurt Lewin e, dulcis in fundo, della percezione-Gestalt dell’immagine urbana).
Due realtà fisiche e due gestalt – forme, strutture – che incidono diversamente sul modus viventi dei loro abitanti. E sull’immaginario urbano. Imago mundi. L’architettura che ‘co-stringe’ fisicamente, psichicamente, ‘pneumaticamente’, i suoi sudditi. Architettura da de-costruire, reset psico-territoriale, bouleversement creativo. (…)
Punto di partenza, tra riva e ‘deriva’: la metropoli. Ritmo veloce, giungla di stimoli, sensazioni e immagini. Versus: l’ambiente rurale, dal ritmo lento, più abitudinario e uniforme. “Più la folla è densa, più ci sentiamo soli”, così Zygmunt Bauman ‘liquida’ la ‘città del troppo’ (altro che villaggio globale… Troppo annacquato: perciò i localismi stavano tornando a galla). Ma anche del troppo poco, del troppo uguale, dell’indistinto. E dell’outlet (e dei continui outing e coming out). Città-teatro-off, metropoli del ‘passaggio veloce’, del nulla – anche se iper… (e quella di Marc Augè non è un’iperbole: passiamo la maggior parte della nostra esistenza in ‘non-luoghi’, dove si consuma il presente e si abortisce l’avvenire).
La metropoli del denaro e di Mammona versus la campagna del baratto (e della mamma, quella con le tette gonfie di latte). Ma anche lo sfilacciamento del tessuto comunitario – altro che manna – a vantaggio della scolorita ‘stoffa’ periurbana (le periferie anonime e suicidofile, ipermercati inclusi, per quanto architettonicamente ben disegnati). Luoghi, non-luoghi? Vita, non-vita? Il bello non ha prezzo.
Vita tra i confini. Identità versus alterità. Ma ancor di più: alterità nell’identità. Equilibrio in bilico. Città plurale, campagna singolare. Spaesamento. Urbanizzazione selvaggia. Portici, shopping malls, clochardization. Marginalità inclusiva, gentrification elitaria. Minimal o segno ipergrafico. Fast-food versus slow-food. Boutique versus ipermercato? Un po’ l’uno un po’ l’altro. Ma con juicio.
Adelante. Ingoiare, piluccare. Vivere, sopravvivere. Morire, sognare, svegliarsi, risvegliarsi. Fare del silenzio un’opportunità, un ‘possibile appuntamento’ per ricevere intuizioni dal superconscio. Il silenzio della natura che (tra cinguettii e fruscii) annacqua l’ebbrezza urbana. Vivere tra i margini (e, spesso, sconfinare…). Questo l’universo quotidiano. Ma anche l’intellettualità sofisticata, la riservatezza fino alla ritrosia, il formalismo blasé e il distacco anodino, il tempo che tutto scandisce e cronometra: questa la metropoli e i suoi ‘numeri’. Ma dietro il numero c’è Dio…