lunedì 30 marzo 2020

KILLING ME SOFTLY


KILLING ME SOFTLY

Oltre il virus. Continuo, dopo l’incipit, col mio inedito – in risposta a un commento entusiastico, che mi ha ricuorato (v. in calce al post precedente). In questo caso come #ashtag: #becausethenightbelongstolovers

Uccidimi dolcemente, ma uccidimi… Entra nel rovescio del mio mondo e affonda il tuo cultro lì dove gli altri hanno fallito. Trascrivo febbrilmente i loghia onirici, battendo sul tempo i famelici gargoyle del subconscio, spasmeggianti nevrilmente dalla brama d’ingoiarli nei lenti gorghi amnesici. L’oceano notturno si è ormai contratto in un’anoressica pozzanghera: solo i vortici di alcuni citri d’acqua dolce – i sogni che hanno bucato le porte di corno (quelli che verità li incorona se un mortale li vede) – sono sopravvissuti. V’intingo la mia plume mentale, strappata all’uccello nottaiolo attardatosi a oziare sullo spoglio ramo dell’ultimo ramingo albero della fuggente selva dell’oblio e… fandango.
     Because the night belongs to lovers, because the night belongs to lust, because the night belongs to us… È l’alba, la notte è scappata coi suoi amanti, i dardi aurorali scippati alla febica faretra hanno colpito a morte le mie effervescenti passioni ctonie (ma rivivranno allo scoccare della mezzanotte) e i gendarmi del mattino hanno ammanettato le mie voglie corsare (adieu fuitina stellare con Jessica Alba… ogni notte un trip diverso). It’s too late to apologize. Non ho più scuse. Dalla radiosveglia la voce velvet del sempre cool Timbaland mi riporta sulla battigia. It’s too late… Lascio Garden of nights (il Village da dreamer radical-chic – niente di particolarmente osé: solo Muse e qualche strip) e mi butto giù dal letto.
     Della notte mi è rimasto solo il sorriso: lentamente passo per l’ultima volta il dito sulle sue labbra di sogno, prima che si assottiglino e sublimino, impalpabili come labili fili evanescenti, al balenare delle prime pallide luminescenze diurne. L’eco narcisa degli ultimi sparsi frammenti onirici cerca invano di raggiungermi, ma ammutolisce spaurita davanti all’alba sorgiva, sfiatando pudica nel lete delle memorie fuggitive. No pain no drama: ho già trascritto le stille essenziali, lascio senza magone le vaghe stelle dell’orsa.
     Il telefono squilla (l’ultima, definitiva, rupture al notturno soffitto di cristallo – di lì, rapito, posso mirare l’epifania degli dèi). Squallida cocotte, vattene per la tua strada… io sono fedele al mio computer (e pensare che fino a qualche annetto fa manco me lo filavo…). Lascio a letto i miei clandestini philosophes prêt-à-porter (nouveaux o anciens, tutti mi fanno il filo, ma io mi fermo ai preliminari), snobbo la cornetta – di giorno sono fedele – e vado a tirare. Slash-flash: qualche strisciata di piccì, per tenermi su. Inizia la mia giornata.

sabato 28 marzo 2020

MORULE


MORULE

In questo periodo così virale (tra coronavirus e messaggi virali) riposto l’incipit del mio inedito (e incompiuto: come i grandi scrittori…) “Nietzsche: sneakers o tacchi a spillo?”. C’è l’incontro-scontro tra i “poveri di spirito” e i “ventri molli” (e grassi). Come #ashtag: #tuaregneldesertochecresce

C’incontriamo agli angoli delle strade. A coppie, a grappoli, a stringhe sempre meno sottili. Cresciamo all’ombra dei portici, come batteri, morule, embrioni di future miriadi: angeli sparsi in cerca di paradisi possibili.
Siamo le membrane plasmatiche del centro e delle periferie urbane, giunzioni occludenti il vuoto delle menti e delle anime, teurgi plastici in cerca di corpi da rigenerare. Col forcipe dello spirito recidiamo le sbarre dell’anima e liberiamo dai ceppi impazienti i dèmoni dormienti. I nostri e gli altrui.
Senza addomesticarli li mandiamo allo sbaraglio tra i ‘petits bourgeois’ della ‘comédie humaine’ (dèmoni versus demòni: slitta l’accentazione, cambia l’eone). Randomizzati vagano impacciati ma indomiti nelle piazze, nelle case, nelle menti, nelle paludi del caravanserraglio globale – dove sbuffa Behemot, gingillo degli dèi e trastullo dei titani, e striscia il Leviatano, un po’ biscione un po’ caimano.
Bariamo sui numeri (ma nel frattempo cresciamo a dismisura), saltiamo sui corpi, puntiamo sulle anime (e lo spirito? Sotto sale). Ci arrampichiamo sui muri, scivoliamo nei sottotetti, glissiamo sui salotti buoni. Ma verrà anche il loro turno – tour e retour.
E allora, che aspettate? Il turn-over? Tornite e guarnite le tartine al caviale, la pallina sta per fermarsi! Là bas.
Rien va plus. Il gioco si fa duro. E scivoloso. Ma dolce è l’attesa (meno le doglie). Arde il rovo, la voce chiama… “Siate caldi oppure freddi: ma i tiepidi li vomiterò nella Geenna.” Caos calmo, ciechi spasmi, miasmi cosmici: l’universo attende con ansia l’epifania teandrica – non sa cosa vuole, ma vuole qualcosa!
Alta marea: la terracquea arena è lì che aspetta, vociante, torbida, ondeggiante. Bassa marea: nella platitude vacua vaticina torpida la platea (e non è il Vaticano). Ogni tribuna e tribuno è in tiepida attesa di un messia o di una miss (tutto fa brodo – questa la voce del mondo). “Ah, se Erostrato il grande li ghermisse e facesse assaggiare a tutti i tiepidi il caldo estremo che raggela!” (la cultrea voce dal profondo).
E noi? Infine nudi nello spirito, ancora paludati nell’azione, palestrati nell’animo  continuiamo a nasconderci nelle segrete latebre delle lubriche piazze affollate. Per poi sbucare alla Kubrik nelle strade bucate e imbucarci, zampillanti e ludici come eroine zompanti, tra gli zombi nei corridoi sussurranti – riservando ai gorgoglianti portici le nostre residue ore aliene (è lì, nelle gallerie urbane, il nostro brodo di coltura).
Tuareg nel deserto che cresce, effimeri panici al galoppo, ossimorici lunatici grondanti gelide passioni; cammelli sgobbanti, leoni reboanti, fanciulli vocianti investiti da folate di sottile silenzio: questi noi siamo. L’ultimo uomo è appena nato e una donna sta per ucciderlo.

N.B. Avrei potuto mettere l'immagine delle morule, ma ho preferito i delfini...




domenica 22 marzo 2020

ELOGIO DELLA PARESSE (cover)


ELOGIO DELLA PARESSE
(cover)

In questi tempi di corona-stasi, riposto un vecchio post (di circa dieci anni fa), che pesca dal mio romanzo. È un mio piccolo contributo a questi giorni di lettura continua (un po’ lotta continua, un po’ lectio continua…). Ed è quanto mai attuale: oggi è il giorno!

Coach, coachee, counselor, trainer, terapeuta, mentore, cliente, paziente… Nomen est numen.
Esistono tanti tipi di coach, di coachee e tanti tipi di coaching. Tante le strategie possibili… ma l’alveo (la PNL e associati), sia pur grande è unico. A ognuno il suo personal Jesus… (che ascolta le tue preghiere e ha cura di te).
Reach out and touch faith. Your own personal Jesus.
Someone to hear your prayers. Someone who cares
Nondimeno, un programma ‘terapeutico’ o comunque ‘strategico’, per quanto personalizzato, ha dei punti fissi, che sto disseminando nel blog e che possono essere articolati in tanti ‘passi’ (come p. es. nel programma terapeutico dei diciotto passi di Cloé Madanes).
Solo per indicare una traccia, accenno a un possibile percorso (do solo alcuni ‘passi’):
·   il primo passo consiste nell’ascolto empatico del problema;
·   il secondo passo, nella riformulazione del problema, in vista del cambiamento possibile;
·   il terzo passo, nel riconoscimento dei propri errori.
· Successivamente: miglioramento del proprio equilibrio, delle relazioni interpersonali, individuazione delle attese, formulazione degli obiettivi, “sentiero dell’eroe”… (ricerca di nuove mete, ricerca di senso).
Potrei andare avanti, ma un attacco di paresse mi adagia su uno st(r)ato alfa. Torno alle mie Gocce di pioggia a Jericoacoara e mi faccio bagnare dalla pioggia dannunziana (a voi solo qualche ‘goccia’, ma l’effetto sarà dilavante).

Lorenzo aprì la bocca, ma uno sbadiglio virato male soffocò la prevista debordante risposta (positiva) e lo sciabordio delle onde settembrine fecero il resto; nel frattempo, si ributtò come un falco sull’’ariana’ – Anna K. Valerio –, con cui avrebbe volentieri fatto ‘pasto comune’, anche se aveva affermato, la ri-balda neopagana, che i cristiani non fanno sul serio, la loro è proprio la religione dell’elusione e della menzogna.” Per poi riscattarsi, sempre sullo stesso ‘mirabile’ blog (quello di Miro Renzaglia), con: “Il Cantico, come certe sublimi effusioni delle mistiche cristiane … è un inno al Divino, più che al Dio cui Paolo di Tarso assegnò lineamenti ‘nosocomiali’. E resta con ciò, del giudeo-cristianesimo, una ‘eresia’  taciuta.”).
«A cuccia, coachee!»
Galatea si alzò un attimo e puntò il dito contro Lorenzo (con l’altra mano continuava a giocherellare con la rosa-croce – un più intersecato, barrato, da una x – appesa sfrontatamente al collo piacevolmente modì).
«Che?» (non quello del ‘diario della motocicletta’: Guevara, questo sì che era un must per Lorenzo – calmo sì, ma sempre rivoluzionario. “Une passion pour El Che ”, di Jean Cau, lo aveva fatto entrare nei suoi ranghi.)
«Sì, coachee, cliente del coach. Io sono una coach, una life coach. Meglio, una peak performance coach. Un po’ caucciù un po’ babà. Dolce e duttile, ma anche dura se necessario. Sì, mio caro Alì Babà… Dolce, ma mai da gabbare. Un gabbiano…» 
Galatea spiccò il volo (col pesciolino in bocca – quello appeso al collo di Lorenzo: anche questo, ma svogliatamente, modì).
«Coach, termine di moda, fico, modaiolo, trendy, ma operativo, efficace, ficcante. Eccome... Dai, Lorenzo, so che con te si può parlare alto e profondo. Tu sì che puoi mangiare la mela e non metterti poi la foglia di fico. Seguimi, che t’insegno qualcosa. Da cliente ti farò mio partner…» 
Passò al dunque. Cominciò a snocciolare ‘arachidi’ e ‘ciliegine’. Vari assaggini per saggiare il ‘grande saggio’ (così lo chiamava, per sfotterlo).
«Mettiti bello comodo. Meglio riesci a rilassarti, meglio sei capace di operare. Dopo di che registra tutto quello che ti dirò. Apri i cassetti della memoria e poi, a giochi fatti, non chiuderli a chiave.» 
Lorenzo obbedì e Galatea, la romanina (romanaccia d’origine – trasteverina doc –, poi toscanaccia d’adozione, ora ‘ubiqua’), dopo averlo addolcito con un bacio alla nocciola, aprì la sua cassaforte e tirò fuori le prime ‘perle’ (coltivate). 
«Se vuoi star bene e partire ogni giorno col piede giusto, per prima cosa copia e incolla i tuoi pensieri positivi, duplicali e ripetili più volte che puoi: in questo modo potrai maneggiare la mente, cioè la base operativa di ogni tua azione. Questo come premessa. Poi fa’ qualcosa di bizzarro: rompe la routine e t’induce a pensare che la realtà è quella che tu decidi, non quella che ti viene imposta dall’esterno. E sii sciolto, libero, sfacciato… Se ti trovi a disagio, in imbarazzo, emozionato, mentre sei ‘coinvolto’ con chi ti è di fronte, respira dentro di te la sua presenza; inspirala con piacere, con voluttà, e rilassati poi nell’espirarla; e ripeti, insisti, finché non ti senti a tuo agio con lui (meglio, con una ‘lei’: con questo sistema andrai forte all’attacco della ‘preda’…). È un modo pratico per incominciare a imparare a gestire i tuoi stati d'animo E non ho finito. Vedo che con me sei a tuo agio, per cui ti clicco un’altra chicca (parlava un po’ come Gaia!). Questa è davvero chic: Trasforma il ‘voglio’ in ‘dare’, ossia fa’ finta di dar via la cosa che vuoi, fingi di non farci caso, che non t’interessa. Dalla indietro, non accettarla, restituiscila. Ma solo virtualmente. Accadrà invece che, non solo sarà tua, ma l’avrai oltre ogni misura. Comprendi il senso, viziosetto caro? Il ‘voglio’ indica una mancanza, il dare significa abbondanza (al che Lorenzo si ricordò del detto evangelico: “Cerca prima il Regno e avrai ogni altra cosa…“).»   

«È vero, se ne sente la mancanza. C’è proprio bisogno di coach in questo mare in tempesta.»
Lorenzo, risvegliato dal ‘flash’ biblico, ancorché accucciato sgusciò in una performance a sorpresa (prima, forse per il vocio tutt’intorno, non aveva afferrato il termine, o aveva fatto finta; ma lo conosceva bene, sia pure da poco tempo. E conosceva bene pure lei…).
«Sì, il coaching è quello che più si adatta ai tempi d’oggi. Specie poi per chi ha fretta (e chi non ne ha?), per quanto oggi si stia tornando ai ritmi lenti. Lenti ma rock. Finalmente… (Lorenzo non aveva mai amato la fretta dei robot gasati o dei bipedi schizzati di cui erano piene le strade e i marciapiedi). Sto leggendo ‘Economia dell’ozio’, del sociologo Domenico De Masi (ma quanti libri leggeva contemporaneamente Lorenzo?!). Un attimo, ti cito un passo interessante...»
Lorenzo prese a prima botta il libro dalla borsa da mare (una matrioska quanto a letteratura) e si tuffò, anche qui a colpo sicuro, nella pagina deputata (fortunatamente in superficie).
«“Al pittore David, che gli chiedeva come preferisse essere ritratto, si dice che Napoleone abbia risposto: “Sereno su un cavallo imbizzarrito” (…) Imbizzarriti su cavalli sereni ci appaiono, invece, molti intellettuali di professione, molti studenti assillati dalla fretta di apprendere, molti moderni capitani d’industria con le coorti di manager che – punk in doppiopetto – praticano oggi le virtù marziali e contagiose della competizione globale.” E aggiungo io, tanta gente che riempie la giornata con tante corse inutili dietro al nulla. Non il Nulla, quello con la maiuscola, il Nulla mistico in cui il ‘Dio nascosto’, l’En Soph, frantuma il diaframma che lo cela alla vista degli uomini; non la ‘corona eccelsa’, il cratere magmatico in cui tuffarsi per riemergere bagnati di vera vita, ma il nulla minuscolo, quello che sarebbe mille volte meglio riempire con un ozio produttivo (c’era ancora il sapore salato delle gocce delle ‘nuotate’ teologiche di Gaia sulla sua pelle…). Tempi di pausa o attese sgradite, sfibranti (alla posta, all’aeroporto, tra un impegno e l’altro), da riempire, piuttosto, con qualcosa di ‘significativo’, di vibrante, dissonante (e qualche giorno prima Lorenzo aveva fermato il tempo con alcune sfrenate riflessioni di Marcello Veneziani, altro suo conterraneo della rive droite). Innanzitutto, letture: non diceva forse Isidoro di Siviglia che la crescita dello spirito deriva dalla lettura? E il cardinale Martini: “in una mano la Bibbia, nell’altra un giornale.” Per non parlare di Bonhoeffer: “la Bibbia sul pulpito, al lavoro, sull’inginocchiatoio…” Ma torniamo alla lentezza (la lentezza della poesia ci salverà dalla frenesia del mondo…), al pathos della distanza, contro il bieco e cieco pathos dell’attivismo. Le pause non sono inutili, sono i momenti più produttivi della giornata e della vita! La pausa è azione. Recuperiamo, diluito ogni giorno, lo shabbat, il riposo, l’otium, il sabato divino. Che non è ancora terminato. Ed è anche lui buono. Shalom! Approfittiamone per meditare, fare abbozzi di programmi per cambiare la nostra esistenza (ed essenza). Diamoci anima e corpo alla cultura, agli altri, allo sport, alla danza. Galatea, divertiti, gioisci, godi…» 
Galatea non se lo fece ripetere due volte e balzò su Lorenzo, per sedurlo seduta stante (in pratica, violentarlo alla fachiro sulla ghiaia chiodosa della morbida baia di Pugnochiuso). La presenza della gente intorno valse a  dissuaderla (di necessità virtù): d’altronde, la vacanza era solo al bocciolo.
Lorenzo, scampato il pericolo, sputato il nocciolo, prese a sua volta la palla al balzo. Non era impreparato sull’argomento: aveva in pugno, non solo l’elogio della pigrizia (bonjour paresse!), ma, per sopraggiunta necessità, la modernità della malinconia (proprio lui che incoraggiava il Pensiero Positivo e il fou rire – ma la malinconia, quella dell’otium, è bella. Bella di giorno. Belle toujors).
Si schiarì in volto e, raggiante, illuminò contorno e ripieno del telo da mare di Galatea, dissolvendo l’incombente ombra dell’ombrellone reboante. Poi diede fiato alle trombe: una jam-session sul coaching (negli ultimi mesi aveva letteralmente saccheggiato i siti internet alla ricerca di ‘reperti’ e tonalità nuove), a mani levate e passo sicuro (sia pure su virtuali tacchi a spillo. Quelli di Galatea erano reali: solo il pietrisco della spiaggia era riuscito a convertirli in più opportune infradito rasoterra, sia pure stilose).
«Il coaching è ‘allenamento’ dell’anima per migliorare le prestazioni del corpo. Corpo olisticamente inteso: la triade paolina corpo, anima, spirito. Un tutt’uno (alla giudea), ma, platonicamente (e cristianamente) separabili. Ognuno col suo viaggio. Lo so anch’io, il coaching è un processo interattivo short term, un programma dinamico focalizzato, più che sulle cause, sulla soluzione. Ti aiuta a crescere, a elaborare le emozioni, a creare equilibrio e produrre i risultati desiderati. Ti aiuta a focalizzarti sul malanno e sui punti di forza interiori per superarlo…»
Un sorriso marpione accompagnò l’ultima stoccata, dopo di che il tacchino ritornò pulcino.