DE ARCHITECTURA
”La verità non è venuta nel mondo nuda, ma è venuta in
simboli ed immagini: il mondo non la riceverà in altra maniera. C’è una
rigenerazione e un’immagine di rigenerazione. Ed è veramente necessario che si
sia rigenerati attraverso l’immagine…” (dal Vangelo di Filippo – apocrifo)
“Gesù disse loro:
Quando farete di due uno e quando farete che l’interiore sia come l’esteriore e
l’esteriore come l’interiore, e ciò che sta sopra come ciò che sta sotto, e
quando farete che maschio e femmina siano una sola cosa, così che il maschio
non sarà maschio e la femmina non sarà femmina, e farete che occhi siano al
posto di un occhio, e una mano al posto di una mano, e un piede al posto di un
piede, e un’immagine al posto di un’immagine, allora entrerete nel Regno.” (dal Vngelo di Tommaso – apocrifo)
Verità, simboli, immagini… L’architettura è la ‘materializzazione’
(tekton) del ‘principio’ (arké), è il ‘rivestimento’ dell’’idea’ (la verità). E come si sa, l’abito non
serve solo a proteggere dal freddo, ma è anche ‘esibizione’ di sé… È quindi
naturale (è nella natura delle cose) che, a fronte di tanta architettura (o
solo ‘edilizia’) ‘organica’ o comunque ‘eteroreferenziale, ci siano “architetture autoreferenziali, egomaniache, de-contestualizzate,
sempre diverse le une dalle altre ma tutte eguali nell’impossibilità di poter
trovare un criterio di giudizio se non di tipo esclusivamente individuale” (Pietro Pagliardini – in “La crisi
dell’archistar”, su Architettura
Moderna).
Architettura ‘bella’, architettura ‘brutta’? È nella natura delle cose… Il
problema è che, mentre un vestito lo si può togliere o eliminare tout-court, l’architettura ha anche, e soprattutto,
un corpo e l’eliminazione del suo
‘vestito’ quasi sempre non risolve il problema: l’impatto visivo e la risonanza
di un ‘fatto’ di architettura ‘disturbante’ può avere effetti, non solo sul
singolo passante o utente, ma anche, e soprattutto, sull’immagine e sull’idea di città; e il genius loci, sempre in
allerta, può reagire rigettandola (a livello subliminale probabilmente ciò può
incidere negativamente in chi frequenta certi luoghi, sommandosi così al
‘disturbo’ percettivo e ‘somatizzandolo’). L’unico fatto positivo, sempre alla
Kevin Lynch, è che un’architettura ‘esibizionista’ può fungere da riferimento
e orientamento, essendo un oggetto
dello spazio velocemente identificabile anche a distanza.
Fatto è che l’architettura è soggetta anch’essa all’unità
triadica, e per questo conflittuale, tra Io,
Super-Io ed Es, ossia tra continuità e discontinuità nel tempo e nello spazio (integrazione o
dis-integrazione nel tessuto urbano), con l’Io
che dovrebbe fungere da ars combinatoria,
nel tentativo di contemperare la ‘fuga
da’ (fuga dalla ‘storia’, dalla ‘tradizione’, dall’’usuale’, ecc.) con l’’accanto a’ (contestualizzazione,
integrazione) e il verso (il futuro).
Diceva Pierluigi Nicolin (in Lotus 1984/2): “L’architettura contemporanea va
alla ricerca della figurazione in aperta polemica con l’astrattismo degli anni
passati; ma questo avviene in quella circostanza che Lyotard ha chiamato la
fine delle grandi narrazioni. Per l’architettura si verifica un’altra più
specifica circostanza, che possiamo chiamare la fine della progettazione per
modelli (nozione spesso confusa con quella della tipologia). Una fine
confermata anche dai progetti di architetti che per essere legati a questo
concetto sono costretti dai fatti a realizzare i loro edifici come unità
infrante …”
Firmitas, utilitas, venustas, propinquitas…
Fine dei ‘modelli’,
destandardizzazione, unità infrante.
La casa romana fu l’esito di complesse sedimentazioni e di
ri-definizione o ri-orientamento del significato stesso di ‘abitazione’.
Ulteriori sedimentazioni e articolazioni hanno attraversato tutta
l’architettura fino a oggi, in un connubio, non sempre felice ma comunque
vitale, tra mythos e logos (il mito tace, il logos parla).
Parole e silenzi, idee senza parole… Il mito è il ‘vivaio’ delle idee
d’architettura, in quanto racconta sempre la stessa cosa – essendo la matrice
di ogni forma culturale e simbolica, con forte valenza estetica – ma in modo
sempre diverso. Il logos, logos endiathetos
–discorso interiore – e logos prophorikos, è il tentativo
dell’idea di farsi ‘fatto’, ‘evento’
‘avvenimento’. Il mito è il ‘silenzio’
dell’architetto che, nel farsi parola, provoca la ‘scintilla’ (il ‘fiat lux’/Big Bang) che muta il Caos in Cosmos (il caos – nel
‘cuore’ dell’architetto – partorisce la stella
danzante). Ma sempre più spesso si sentono balbettii, o urla…
Cade il ‘grande stile’,
o lo stile tout-court basato sulla concinnitas (armonia, simmetria, equilibrio, eleganza, bellezza,
proporzione). E si batte la via della ‘dissoluzione della totalità’ e della sua
ricostruzione ‘soggettiva’, caotica, disorganica (pur con la pretesa di puntare
a un presunto organicismo, ossimoricamente disorganico, della natura): ciò può
partorire il ‘monstrum’
(nel senso, latino, di prodigio – i non molti capolavori in
circolazione – o, forse più spesso, di mostro
vero e proprio, nel senso comune del termine).
Ma perché tanti monstra? Dimostrazione di bravura o desiderio di
migliorare il mondo? Esibizionismo dal basso o lo Zarathustra che scende dal
mondo a portare i suoi doni? Più che altro, il desiderio dell’architetto
contemporaneo di abbracciare anche nel più breve brano la totalità del mondo.
Se la sintesi medioevale lasciava spazio alla differenziazione (il tutto nel
frammento) e la modernità assumeva la totalità indifferenziata, riflessa nel
progressivo depauperamento e sradicamento dell'individuo (la sua dis-animazione), mentre il post-modern
tutto dissolveva (e continua a dissolvere), in una tiepida liquidità
scongelante, il nostro tempo (post-liquido? sublimato?) cerca una nuova
solidità ‘sublime’ in costruzioni sempre più decostruite, in un funambolico
vorticoso tentativo di ri-creare un nuovo ordine (s)oggettivo, frantumando così
l’idea progettuale in un fantomatico (fantasmatico, talvolta fantastico) flusso
di segmenti di realtà. In una società (post)liquida come la nostra
l’architettura rischia, dunque, di perdere la sua ‘solidità’, senza per questo
‘sublimarsi’. Per dirla alla Spengler: ”idee senza parole è l’unica cosa che garantisce la solidità
dell’avvenire”.
Educare l’uomo
è impedirgli la “libera espressione della sua personalità” reagisce
Nicolás Gómez
Dávila, dall’alto della sua turris eburnea. Nondimeno, ‘incatenando’
l’architetto, ‘educandolo’, si avranno città forse vivibili, ma senza respiro
‘sacro’. E io – e qui sto con Dávila – respiro male
in un mondo non attraversato da ombre sacre…
(Tratto da un mio vecchio contributo su una rivista d'Architettura).