giovedì 30 gennaio 2020

IL (PER)DONO


 IL (PER)DONO

Il perdono è un iper-dono. Ma per perdonare è necessario, innanzitutto, donare. O meglio, saper donare… Il che è difficile, e per molti impossibile. È un voler forzare la propria dignità e autostima, si sente spesso dire; e poi è una questione di principio…  (principio de che?).
Fatto è che molti di noi sono schiavi del passato e del futuro, e soprattutto delle proprie convinzioni e presupposti: non solo influenzati, ma condizionati. E come ben sappiamo, lo schiavo odia sempre (sotto sotto) il padrone – e noi tutti siamo sempre schiavi di qualcosa… E poi, l’oggi non sappiamo nemmeno cosa sia (anche se vogliamo vivere alla giornata, godere l’attimo – carpe diem: spesso, solo parole, niente fatti!).

C’è poi l’amore del prossimo: “Ama il tuo prossimo come te stesso” è la regola d’oro del Vangelo, in forma positiva oppure negativa (“non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”…). Come si racconta avesse risposto il famoso rabbino Hillel all’interlocutore pagano che, provocatoriamente, gli aveva chiesto di riassumere la “Legge” nel tempo in cui lui sarebbe riuscito a rimanere in piedi su una gamba  sola : “«Ciò che ti è odioso, non farlo agli altri. Questa è tutta la Torah. Il resto è commento. Va’ e studia…»
Nondimeno, come asseriva Nietzsche (in Così parlò Zarathustra – “Dell’amore del prossimo”): “Più elevato dell’amore del prossimo è l’amore del remoto e futuro…” Invece, dobbiamo amare in primo luogo l’oggi (soprattutto, vivendolo), lasciandoci dietro il passato (che è comunque il seme di quel che siamo oggi), senza rancore e sensi di colpa o di vendetta – e senza la “sindrome della moglie di Lot” (che, durante la fuga verso la salvezza – un futuro migliore – si voltò indietro con nostalgia, diventando una statua di sale).
Solo allora sapremo anche perdonare e donare indiscriminatamente e incondizionatamente, perché saremo padroni delle situazioni e di noi stessi.

Se sei padrone del tuo passato , come “stato necessario”, e del tuo futuro, come “stato desiderato”, allora, per dirla ancora con Nietzsche, il futuro sarà la causa del tuo oggi. Ma anche di questo sarai padrone, e potrai cambiarlo, o viverlo. come vuoi.
E quindi, stando nel ben-essere, che necessità c’è di giudicare e, conseguentemente, di non perdonare?

venerdì 24 gennaio 2020

DE ARCHITECTURA


DE ARCHITECTURA

”La verità non è venuta nel mondo nuda, ma è venuta in simboli ed immagini: il mondo non la riceverà in altra maniera. C’è una rigenerazione e un’immagine di rigenerazione. Ed è veramente necessario che si sia rigenerati attraverso l’immagine…” (dal Vangelo di Filippo – apocrifo)
“Gesù disse loro: Quando farete di due uno e quando farete che l’interiore sia come l’esteriore e l’esteriore come l’interiore, e ciò che sta sopra come ciò che sta sotto, e quando farete che maschio e femmina siano una sola cosa, così che il maschio non sarà maschio e la femmina non sarà femmina, e farete che occhi siano al posto di un occhio, e una mano al posto di una mano, e un piede al posto di un piede, e un’immagine al posto di un’immagine, allora entrerete nel Regno.(dal Vngelo di Tommaso – apocrifo)
Verità, simboli, immagini… L’architettura è la ‘materializzazione’ (tekton) del ‘principio’ (arké), è il ‘rivestimento’ dell’’idea’ (la verità). E come si sa, l’abito non serve solo a proteggere dal freddo, ma è anche ‘esibizione’ di sé… È quindi naturale (è nella natura delle cose) che, a fronte di tanta architettura (o solo ‘edilizia’) ‘organica’ o comunque ‘eteroreferenziale, ci siano architetture autoreferenziali, egomaniache, de-contestualizzate, sempre diverse le une dalle altre ma tutte eguali nell’impossibilità di poter trovare un criterio di giudizio se non di tipo esclusivamente individuale” (Pietro Pagliardini – in “La crisi dell’archistar”, su Architettura Moderna).
Architettura ‘bella’, architettura ‘brutta’? È nella natura delle cose… Il problema è che, mentre un vestito lo si può togliere o eliminare tout-court, l’architettura ha anche, e soprattutto, un corpo e l’eliminazione del suo ‘vestito’ quasi sempre non risolve il problema: l’impatto visivo e la risonanza di un ‘fatto’ di architettura ‘disturbante’ può avere effetti, non solo sul singolo passante o utente, ma anche, e soprattutto, sull’immagine e sull’idea di città; e il genius loci, sempre in allerta, può reagire rigettandola (a livello subliminale probabilmente ciò può incidere negativamente in chi frequenta certi luoghi, sommandosi così al ‘disturbo’ percettivo e ‘somatizzandolo’). L’unico fatto positivo, sempre alla Kevin Lynch, è che un’architettura ‘esibizionista’ può fungere da riferimento e orientamento, essendo un oggetto dello spazio velocemente identificabile anche a distanza.
Fatto è che l’architettura è soggetta anch’essa all’unità triadica, e per questo conflittuale, tra Io, Super-Io ed Es, ossia tra continuità e discontinuità nel tempo e nello spazio (integrazione o dis-integrazione nel tessuto urbano), con l’Io che dovrebbe fungere da ars combinatoria, nel tentativo di contemperare la ‘fuga da’ (fuga dalla ‘storia’, dalla ‘tradizione’, dall’’usuale’, ecc.) con l’’accanto a’ (contestualizzazione, integrazione) e il verso (il futuro).
Diceva Pierluigi Nicolin (in Lotus 1984/2): “L’architettura contemporanea va alla ricerca della figurazione in aperta polemica con l’astrattismo degli anni passati; ma questo avviene in quella circostanza che Lyotard ha chiamato la fine delle grandi narrazioni. Per l’architettura si verifica un’altra più specifica circostanza, che possiamo chiamare la fine della progettazione per modelli (nozione spesso confusa con quella della tipologia). Una fine confermata anche dai progetti di architetti che per essere legati a questo concetto sono costretti dai fatti a realizzare i loro edifici come unità infrante …”
Firmitas, utilitas, venustas, propinquitas… Fine dei ‘modelli’, destandardizzazione, unità infrante.
La casa romana fu l’esito di complesse sedimentazioni e di ri-definizione o ri-orientamento del significato stesso di ‘abitazione’. Ulteriori sedimentazioni e articolazioni hanno attraversato tutta l’architettura fino a oggi, in un connubio, non sempre felice ma comunque vitale, tra mythos e logos (il mito tace, il logos parla). Parole e silenzi, idee senza parole… Il mito è il ‘vivaio’ delle idee d’architettura, in quanto racconta sempre la stessa cosa – essendo la matrice di ogni forma culturale e simbolica, con forte valenza estetica – ma in modo sempre diverso. Il logos, logos endiathetos –discorso interiore – e logos prophorikos, è il tentativo dell’idea di farsi ‘fatto’, ‘evento’ ‘avvenimento’.  Il mito è il ‘silenzio’ dell’architetto che, nel farsi parola, provoca la ‘scintilla’ (il  ‘fiat lux’/Big Bang) che muta il Caos in Cosmos (il caos – nel ‘cuore’ dell’architetto – partorisce la stella danzante). Ma sempre più spesso si sentono balbettii, o urla…
Cade il ‘grande stile’, o lo stile tout-court basato sulla concinnitas (armonia, simmetria, equilibrio, eleganza, bellezza, proporzione). E si batte la via della ‘dissoluzione della totalità’ e della sua ricostruzione ‘soggettiva’, caotica, disorganica (pur con la pretesa di puntare a un presunto organicismo, ossimoricamente disorganico, della natura): ciò può partorire il ‘monstrum’ (nel senso, latino, di prodigio – i non molti capolavori in circolazione – o, forse più spesso, di mostro vero e proprio, nel senso comune del termine).
Ma perché tanti monstra? Dimostrazione di bravura o desiderio di migliorare il mondo? Esibizionismo dal basso o lo Zarathustra che scende dal mondo a portare i suoi doni? Più che altro, il desiderio dell’architetto contemporaneo di abbracciare anche nel più breve brano la totalità del mondo. Se la sintesi medioevale lasciava spazio alla differenziazione (il tutto nel frammento) e la modernità assumeva la totalità indifferenziata, riflessa nel progressivo depauperamento e sradicamento dell'individuo (la sua dis-animazione), mentre il post-modern tutto dissolveva (e continua a dissolvere), in una tiepida liquidità scongelante, il nostro tempo (post-liquido? sublimato?) cerca una nuova solidità ‘sublime’ in costruzioni sempre più decostruite, in un funambolico vorticoso tentativo di ri-creare un nuovo ordine (s)oggettivo, frantumando così l’idea progettuale in un fantomatico (fantasmatico, talvolta fantastico) flusso di segmenti di realtà. In una società (post)liquida come la nostra l’architettura rischia, dunque, di perdere la sua ‘solidità’, senza per questo ‘sublimarsi’. Per dirla alla Spengler: idee senza parole è l’unica cosa che garantisce la solidità dell’avvenire”.
Educare l’uomo è impedirgli la “libera espressione della sua personalità” reagisce Nicolás Gómez Dávila, dall’alto della sua turris eburnea. Nondimeno, ‘incatenando’ l’architetto, ‘educandolo’, si avranno città forse vivibili, ma senza respiro ‘sacro’. E io – e qui sto con Dávilarespiro male in un mondo non attraversato da ombre sacre…
(Tratto da un mio vecchio contributo su una rivista d'Architettura).




mercoledì 22 gennaio 2020

FRANKIE GOES TO HOLY WOOD (In the sky with diamonds)


FRANKIE GOES TO HOLY WOOD
(In the sky with diamonds)
(cover)

Oggi mi piace recuperare un mio vecchio post in memoria di un collega d’ufficio, dalla vita travagliata, ma con sprazzi di sublime poesia e spiritualità. Fu lui che un giorno mi risvegliò da un sonno spirituale – eppure mi sembrava d’essere “sveglio” (ero su altri lidi spirituali: ne ho attraversati diversi), quando – mentre ero lì a esaltare un libro di spiritualità orientale, dicendogli pure: Altro che la Bibbia… (che lui vantava) – mi rispose: Ma tu l’hai mai letta la Bibbia, la conosci? E lì mi colse in fallo (come quelli che parlano male di un film senz’averlo mai visto). Fu un anticipo del mio “risveglio”, avvenuto poi, in modo palese, un paio d’anni dopo (nel 1991).
Ma ecco il mio post ad memoriam.
In memoria di un poeta. Un poeta absconditus, un cordon bleu dell’ars verbalia (pardon per lazzardo). Verba volant, ma lui, Francesco (Paco ai tempi d’oro, quando duettavamo verbis et orbis, tra l’ispanico e il teutonico, le nostre due nature), è sì volato in the sky with diamonds, ma qualche perla l’ha lasciata… (e l’ha pure lanciata). Francesco Fumarola, crispianese nato a Firenze, un po’ milanese, come tanti tarantini (a partire dal Raffaele Carrieri di “Se qualche poco di luce da lontano mi viene, è da te Jonio gentile, che le muse riconduci ai lidi degli Dei: fra l’uva e l’uliva Eros ancora versa vino agile e resina…”).
Autodidatta puro (quando più mi sento spirituale tanto più la carne brucia, amava dire), fu il mio primo mentore spirituale nel mio ritorno al cristianesimo (dopo un ‘viaggio’ a oriente, che comunque mi ha lasciato i suoi aromi speziati). ”Fuori delle mura delle città grigie camminiamo in bosco e in campagna; chi vuole vada alla malora – noi ci incamminiamo attraverso il mondo…” “Meglio il bosco che l’asfissia civile, meglio la battaglia che una pace da salotto” potevano ben essere i suoi motti, la sua ‘cifra’ profetica. Nondimeno, nemo propheta in patria: così fu per lui, vox clamans in deserto. E se non mi ha spianato la strada (non pretendo tanto…), di certo il mio spirito grezzo l’ha certo sgrossato… Alchimista delle parole e del pensiero, rhema e logos, talvolta logorroico, spesso illogico, poeta sempre, in tutti i luoghi e laghi…    
Suona la diana, corre la parola, e anch’io m’immergo nel Silenzio. Logos endiathos e logos prophorikos. “… è un ‘andare incontro alla luce’, è via che conduce verso l’alto, che porta l’uomo alla sapienza mediante una ‘visione’ diretta, una contemplazione…” Questo – cito dal ‘Viso verde’, di Meyrink – il senso, il ‘suono’, della sua parola interiore. Parola che lo ha proiettato in Alto: verbo sublime. Francesco è andato oltre, ha rotto, con la vibrazione giusta, con la frequenza shock, il soffitto di cristallo che ci separa dal Trascendente, dal Divino, dallo Spirito (per noi la barriera era ‘trasparente’, per la gente ‘comune’ – le persone ‘volgari’, fossero almeno brut… – è un solaio di cemento armato). Lui che andava alla radice, al suono della parola, lì dove c’è il suo senso profondo, l’essenza della cosa significata.
Di Francesco resta molto: di lui quasi niente (per il momento) per la planitude, ma da lui, il ‘celato’ (al mondo, e nell’ufficio in cui entrambi lavoravamo) è sortito il non-celato, quell’aletheia (verità) che illumina il sentiero di chi Francesco l’ha compreso (Ronnie Laing ne avrebbe fatto un suo ‘case study’: sì, Francesco/Paco, il borderline, sulla linea di confine 
l’’altro’, l’’oltre’, l’’ultrà’ del pensiero e del non-pensiero, oscillante tra ‘Paco’ Garcia Lorca e Paco Rabanne..).
Il deserto cresce, ma qualche radura, tra sentieri interrotti, pure c’è! E ora che è volato, give Paco a chance…
A proposito, anch’io gli ridò un’opportunità: quella di riascoltare due sue poesie (flos de floribus)
L’ANCESTRALE SASSOFONO
Lungo i raggi obliqui di una magica luna
e su fluttuanti note di un ancestrale sassofono
io m’oblio incantato in estasianti emozioni
nell’arcana alcova di una notte cosmica!
(fatal combinazione: su YouTube, nella playlist random, vibra il sax di Marion Meadows)
SE LA VITA È AMORE
E un vento nasce,
e un vento muore,
e poi rinasce.
E come vento alitoso,
la vita corre, corre, corre…
come treno nella notte,
vuoto e solo, perché non tocca
le proprie stazioni.
Ma se la vita è Amore,
dopo incrollabili paure
Amore diventa straripante fiume,
che  tutto tocca, tutto plasma,
tutto trasforma, tutto eleva.
… E un sole nasce,
e un sole muore, e poi rinasce.
Ma tu sei vivo! Francesco (almeno nella mia memoria).