venerdì 26 giugno 2020

ROUGE et NOIR. SESSANTOTTO. RIVE GAUCHE e RIVE DROITE



ROUGE et NOIR
SESSANTOTTO
RIVE GAUCHE e RIVE DROITE

Fresca fresca. Ho avuto modo, feisbucando, di (ri)tirare in ballo il Sessantotto. Ed ecco, dancing in the dark, uno stralcio sul pezzo dal mio pazzo (anche pozzo – di san Patrizio) Gocce di pioggia a Jericoacoara.

     ”Meglio essere un delinquente che un borghese” aveva dichiarato lapidariamente il giovane Ernst Jünger. Prima pietra. La seconda: “…e mentre io guardo la tua pace, dorme quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.” Conclusione (foscoliana. Ai limiti del fosco, e del bosco): si svegliò guerriero. E Lorenzo, leopardato e jeopardized, iniziò a tirare le pietre (e non era brutto…).
     Fu lì e allora – nella Firenze post-alluvione (ma in pieno diluvio da turning-point esistenzial-planetario) – che, smessi gli inamidati abiti da borghese piccolo piccolo, acceso dai sinistri fuochi di Lotta Continua, destreggiandosi a piedi nudi sui carboni ardenti di Lotta di Popolo, Lorenzo-mix sessantottino, fascio e martello, fiamma e celtica, Sturm und Drang, scacciò, drag-king, il pulviscolo terra-terra. Dopo di che, (re)suscitato l’anarco-esistenzialista jüngeriano (e dintorni), da sempre accovacciato alla porta del suo animo – rebel, free lance, nemico della società del caos organizzato –, gettò via la maschera pirandelliana e indossò quella, tragica, di Mishima. Lui voleva avere ‘stomaco’, voleva essere saldo e valoroso. Soprattutto, vigoroso. Lorenzo voleva volare…
     Alea iacta est. Spada (e arco) in mano e lancia (e clava) in resta (con in testa il martello degli dèi – lo zeppeliano The hammer of the gods ), il ‘baldo’, da imbolsito e zeppoloso che era, si scremò e, screaming, iniziò a confessare baldanzosamente a destra e a manca i suoi peccatucci borghesi. Quindi, lasciata la strada maestra (ma presa quella magistra), sospinto da questo fresco ‘mistral’ – che aveva spazzato via scirocco e smog –, raggiunse senza battere ciglio il burrone. I tempi per il salto (e il saluto) ‘fascista’ (sia pure sessantottino) erano maturi. Nuovi profumi, nuovi finimenti. E non c’era solo Marte (o Odino), ma anche Hermes. Nuovi profumi.
     Lorenzo si buttò.

“Col compiersi del mio sviluppo, si acutizzarono in me l’insofferenza per la vita normale alla quale ero tornato, il senso dell’inconsistenza e della vanità degli scopi che normalmente impegnano le attività umane. In modo confuso ma intenso, si manifestava il congenito impulso alla trascendenza.” Frattali e frattaglie. Mentre a Berkeley, a Parigi, nelle stesse Firenze e Pisa, quando non infuriava la battaglia c’era per lo meno l’odore acre delle scaramucce (e di molotov e lacrimogeni), Lorenzo, chiuso – blindato – nella sua stanza (la pensione per studenti – i suoi si sarebbero trasferiti a Firenze da lì a poco), s’incartava cercando invano (indArno) di scacciare le mosche che gli si appiccicavano addosso.
     Aveva scartato l’inessenziale, ma l’essenza latitava (troppi i ‘buchi’ dell’anima da riempire). Tanto più la sua vocazione. Solo presunta. Continuava a sbattere come un lattante la testa contro la finestra chiusa (fosse stato donna, contro il soffitto di cristallo, se non di marmo), nella speranza di raggiungere una realtà che non riusciva ad afferrare. Per dirla con Baudrillard, era come una mosca di fronte ad un vetro.  
     “C’è un tempo per costruire e un tempo per vivere e generare. E un tempo perché il vento rompa il vetro sconnesso…” Finché ci riuscì (a infrangere la vetrata, senza spiaccicarvisi sopra). Uscito dall’impasse con l’aiuto (il vento) di Julius Evola e del suo congenito impulso alla trascendenza (e di Thomas Eliot e i suoi Quattro Quartetti). Il filosofo maledetto (Julius) – il nichilista aristo-creativo, il ‘barone nero’, il no-global ante-litteram che non dispiace a Max Cacciari il filo-lagunare – lo aveva aiutato, col suo bastone, a uscire dal gregge belante per entrare nel branco ululante. Fuori dal recinto maleodorante per introdursi, nottetempo, nella selva oscura, il bosco prêt à porter da sradicare e portarsi appresso, come un giovane Jünger ribelle (quello che piace pure a Roberto Saviano, l’anti-camorra/gomorra).
     Quinto: uccidi il padre e la madre. Lorenzo: il giovane novizio da iniziare alla vera vita, allontanato dalla madre (non solo quella biologica, ma anche quella ‘social-borghese’) per essere condotto nella ‘foresta’, per ivi morire e rinascere (simbolicamente e nei fatti). Eden pagano scippato agli dèi. Pagato a caro prezzo. E senza usura, alla Ezra Pound (e con Jerry Rubin, e gli altri beat e radical west coast, a dettare i nuovi ‘comandamenti’). Hashish e mirra contro ogni camarilla. Cameratescamente. Giardino inaccessibile, intorno a cui ruggiva il leone e in cui strisciava, sbuffando, il leviatano, un po’ biscione, un po’ caimano (Berluska era ancora di là da venire).

     “Non verso Nord o verso Sud, né Est né Ovest, ma verso l’Alto...” Tra due pesi (e misure), ma imponderabile. I tre fili – quello bianco, la pulsione ascendente; il rosso, la tendenza espansiva; quello nero, la pulsione discendente – fittamente intrecciati. Pronti a slacciarsi. E a diventare uno. Fili lunghi, ma resistenti. Dacci un taglio! Lorenzo, il filosofo da srotolare… Senza misura: un po’ global un po’ no; figlio naturale degli hippies e, hip-hop, della droite barricadera. In the cut.
      Lui era per l’et-et più che per l’aut-aut. Ma non per questo si era fermato. Con il suo vel vel era andato oltre il velo (anzi, l’aveva stracciato). Al seguito di Péguy e Sorel era andato oltre. Al di là della serra riscaldata del conservatorismo spicciolo e del perbenismo borghese. Ma non era un ultrà. Evaso dalle gabbie della vita non vissuta, mercificata, aveva percorso, sulle tracce dell’ombroso Heidegger (non solo Jünger), gli Holzwege, i ‘sentieri del bosco’, i sentieri interrotti, che, pure, portano alla Lichtung, la ‘radura’ dell’esistenza autentica. Un sentiero luminoso per Lorenzo, in cerca di lumi.
     Parto cesareo del ’68, il Lorenzo-matricola. Levatrici: Sartre, Reich, Burroughs, ma anche Evola, Spengler, Jünger. Due tris in attesa del poker (poi sarebbe venuta la scala reale). Svezzato, a giochi (laurea) fatti, col pensiero antiglobale di Toni Negri e, manco a dirlo, con le dritte di Alain De Benoist. E la sua rottura epistemologica con la destra cadente. Lui cercava nuovi astri, oltre lo star-system. Figlio del Sole, non meno che delle stelle. Solare, stellare, lunatico. Anarca e Miles (gloriosus), Davide e Golia (di Jonathan manco a parlarne). Oltre le antinomie ‘destra-sinistra’, ‘conservazione-rivoluzione’, ‘hippy-yuppy’, alla ricerca di una sintesi originale. Che tardava a nascere…
     Epos ai confini dell’eros, questo il suo antidoto contro la banalità del quotidiano. Kulturkampf esistenziale. Progettualità viva piuttosto che memoria morta (e corta). Voleva andare avanti voltandosi, di tanto in tanto, indietro. Tantum verde e tantra nero. Tramonto dell’Occidente, alba dell’Oriente (non quello massonico, ma il messianico). Con Guénon, Aurobindo e Coomaraswamy a offrirgli mammelle sempre gonfie di latte. E Mishima pronto a dargli il suo mantello (e il pugnale).
     Lorenzo: cuore nero, mente rossa, spirito viola. Grillo parlante. Ma anche cicala. E farfalla. Un po’ grullo (grillino ex ante? Ai posteri l’ardua sentenza…). Ingenuo, alla latina (in-gens: gentilizio, ma alla buona). Nobile di umili origini, povero di spirito. E si sa, i poveri di spirito sono il regno dei cieli. Spirituale, subsonico, individualista anarchico. Nero, rosso, un po’ verde (bossiano ex ante? Finiano, piuttosto, a latere, sia di Gianfranco sia di Massimo): questo, in sintesi, Lorenzo l’ambidestro, futuro e libertà, il pastore-guru risvegliatosi dall’’ipnosi cristallizzata’ dell’uomo comune, il poeta Pound & Kerouac di una nuova mistica e di un nuovo mito. Pieno di devozione verso tutto ciò che è nobile, con la vocazione a guardare lontano e a volare alto. Pronto a far dei polli delle aquile, delle pecore lupi…  

     Lupus in fabula. Lupus eritematoso, coma assistito, noia mortale, nausea. “E uccidemmo la noia annoiando la morte e vincemmo soltanto cantando più forte. Ora siamo lontani siamo tutti vicini e lanciamo nel cielo i nostri canti assassini.” ’Divina mania’, furore elitario, guerra eraclitea, dionisismo pacificato dalla grazia apollinea del grande stile. Che fico! E che sfascio…
     Ma poi, Lorenzo – arriviamo al dunque – era veramente ‘fascio’ o ‘nazi’? C’era nel suo animo, l’aura, la Stimmung, lo spleen da ultimo tango ariano alla Massimo Morsello, il cantore nero? (Lorenzo, a onor del vero, preferiva Francesco De Gregori, Guccini e Claudio Lolli – e poi, negli anni dell’immaginazione al potere, Massimo era poco più che un bambino). E fin dove era ariano? “Sei nazifascista?” “Quel che basta” rispondeva Drieu La Rochelle. E Lorenzo? Quel che serviva per dare sapore alla minestra…
     Sì, è vero, lui voleva opporsi alla ‘deriva plebea’, far terra bruciata tutt’intorno al milieu petit-bourgeois (e ai suoi ‘fuochi fatui’), ma la nicciana ‘razza dei signori’ di cui tanto parlava era solo questione di ‘qualità’, non di ‘catalogo’: a Lorenzo non interessavano colore della pelle, moneta, titoli… Se ne fregava! A lui bastava l’onore. In lui urgeva l’Übermensch nicciano (e stavano nascendo il ‘terzo uomo’ di Giorgio Locchi e il transumanista dei suoi epigoni), colui che sa che ‘Dio è morto’ (ma Cristo stava per bussare alla porta) e de-cide, di conseguenza, di forgiarsi da sé il proprio destino. Social-aristocratico, per così dire (un po’ sorcio, un po’ aristogatto, per essere più precisi). E poi, quanto a ortodossia, non era nemmeno un ‘Testimone di Evola’ doc! Con tutti quei suoi sconfinamenti rock e beat… Ed è pur vero che Julius aveva avuto i suoi trascorsi dadà.
     Dudù e cocò a passi di tango. Ma lui amava il rock (e gli scrittori e poeti beat). Lorenzo on the road: tra Jack Kerouac e Jack Frusciante. Doveva andare e non fermarsi finché non era arrivato: Andare dove? Non lo sapeva, ma doveva andare… Eppure era realista, voleva l’impossibile. Ed era ben ‘collocato’: convitato di pietra tra Allen Ginsberg ed Ezra Pound, americani contro, intento come loro a fumare pensieri alternativi e marijuana d’ordinanza al suono dei Fab Four di Liverpool. E a sfiorare (solo sfiorare…) il ben più deflorante LSD, alla Timothy Leary e alla Ernst Jünger (lasciamo nell’armadietto l’etere dell’Evola pischello). Ma lui era più per Jack Kerouac, specie (l’avrebbe capito dopo) quello di: Io non avrei scritto nulla di Gesù? …tutto ciò su cui scrivo è Gesù.”

     Sì, anche Lorenzo era on the road, come quei due bei tomi dreamers che fanno l’autostop fino in California alla ricerca di un qualcosa che non riescono a trovare veramente. Per poi perdersi on the road e tornare ingloriosamente indietro – back home – con la speranza di trovare qualcos’altro…
     “Eccolo qui tutto adunato insieme, questo secolo del reale e del conoscere, in cui lo spirito ha creato la statistica e l’analisi dell’orina, in cui la tabella trionfava e la creazione sprofondava…” Lorenzo era, in definitiva, un enfant du siècle (malgré Gottfried Benn). Nondimeno, avvertiva nel profondo la crisi dell'uomo moderno (come G. B.). Di qui il suo vagabondaggio intellettuale, la sua recherche. Anche USA e UK. Woodstock e Isola di White. Bianco e Nero. USA e jet (più che altro, autostop). Sunset boulevard e route six six six (poi sarebbe passato a  Sunset @ Cafe Del Mar). Ragazzo selvaggio alla Burroughs, chitarra e bandiera in mano, warrior, Lorenzo (dalle bande nere) voleva diventare artefice e padrone del suo destino. Alla ricerca del ‘paradiso possibile’.
     “Paradise now”. “L’immaginazione al potere”, “siamo realisti, vogliamo l’impossibile”, “dimenticate ciò che avete imparato, cominciate a sognare!” Affascinato dalla gioventù ribelle, immaginifico futurista alla Marinetti, trans-idealista e trans-esistenzialista alla Evola, situazionista alla Debord, in attesa di diventare transumanista… Questo il succo del Wikipedia-tour giro-girotondo intorno a Lorenzo, sempre in fase d’implementazione. D’altronde, il nostro voleva degustare tutto, ingoiare cucchiaio e città… Swallow: la controcultura giovanile, la beat generation, i concerti rock. Wow: le droghe allucinogene (ma solo in sogno) per “aprire le porte della percezione.” Sogno e realtà. Doors. Apri quella porta… Fantasia e ragione. A magical mystery tour.
     “Vedo la realtà e mi chiedo: perché? Sogno l’impossibile e mi chiedo: perché no?” Come Bob Kennedy, anche Lorenzo sognava. Un po’ Martin Luther King, un po’ King Crimson. Sognatore alla corte del ‘re cremisi’. The ‘dreamer’ (anche un po’ alla Bertolucci, ma lui era per Ultimo tango a Parigi – quello sì che era Marlon Brando…), alla ricerca spasmodica del graal della purezza ancestrale, della lancia di Longino da brandire, delle sempre fresche fonti della sacralità e del vitalismo. Giovinezza, giovinezza. Da blandire (e vecchiaia da bandire). Come Drieu La Rochelle, “il suo spirito era abituato a confrontare la vecchiezza di oggi, che si dibatte con scosse secche e nervose, alla giovinezza creatrice con le sue armonie calme e piene.”
     In disagio sì, ma sempre impiedi, a galla. Non affondato nel mare giallo del terrorismo black-block, o cullato dalle stagnanti acque – mar morto – del nichilismo senza speranza. Lui era per la vita, anche salata, per il vivere pericolosamente (almeno in teoria. Quanto ai fatti, è un’altra storia). Ma con stile. Per dirla alla Anna K. Valerio – una young angry woman dei giorni nostri – “i fascismi spalancarono praticamente, e non solo per sistemi filosofici, le possibilità di un mondo, di una vita, di un universo di là dal bene e dal male. Un universo extramorale, tutto sangue e stile. Mirarono a opporre il sangue e lo stile – il sangue che, nella razza, è già stile; lo stile che, nell’eugenetica, o nel contegno delle SS, tende alla vita, perché vuol fare più bella la vita – al bene e al male. Mirarono a opporre la voluttà di egemonia, di eccellenza, il mantice del mito, al condizionamento cristiano dell’innocenza, al feticcio della esistenza individuale: i tripudi dell’orda alle emozioni del singolo, la grandiosità alla meschinità, nell’impassibilità della grande passione.”
    E così, tra la schiavitù accettata e la violenza rivoluzionaria – pensò il nostro in un ‘ascesso’ alla Camus – la creazione è la vera libertà, il più umile e il più fiero sforzo umano. E lui era un creativo. Alternativo. Pieno di humus (e humour). Ma non di tritolo. Ed era riuscito a non farsi adescare dal richiamo delle sirene del velinismo sanbabilino o pariolino tutto ray-ban e stivaletto a punta (con un’eccezione per i jeans Fiorucci), né dal razzismo più bieco, dall’antisemitismo logoro e liso o dall’anticomunismo viscerale. Lorenzo cercava un’autentica Scienza dello Spirito (non le SS – ma lo Spirito Santo, quello sì. In ogni caso, lo aspettava, più prosaicamente, Scienza delle Costruzioni). Voleva andare oltre l’iconostasi che vela lo spazio sacro. Veleggiava verso mete più lontane. E più alte. Un’odissea apparentemente senza fine.


martedì 23 giugno 2020

IL CAOS HA PARTORITO LA SUPERSTAR DANZANTE


IL CAOS HA PARTORITO LA SUPERSTAR DANZANTE
Fermate il mondo, voglio scendere...

Domani è il mio compleanno. Torno, quindi, alle mie origini (ma ne ho più d’una… Mi contraddico? Certo che mi contraddico! Sono vasto, contengo moltitudini... – Walt Whitman). 
In particolare, let’s go back alla mia “arké” architettonica. Riposto quindi un mio ancien contributo a un blog di architettura online.
N.B. Per colmo di contraddizione, anche se qui le critico, le archistar spesso mi piacciono, a cominciare dalla compianta Zaha Hadid e, soprattutto, dal vivo e vegeto Frank Gehry…
IL CAOS HA PARTORITO LA SUPERSTAR DANZANTE
di Nicola Perchiazzi (pubblicato il 20/01/2009)
Il nostro tempo (post-liquido? sublimato?) cerca una nuova solidità ‘sublime’ in costruzioni sempre più decostruite, in un funambolico vorticoso tentativo di ri-creare un nuovo ordine (s)oggettivo.

”La verità non è venuta nel mondo nuda, ma è venuta in simboli ed immagini: il mondo non la riceverà in altra maniera. C’è una rigenerazione e un’immagine di rigenerazione. Ed è veramente necessario che si sia rigenerati attraverso l’immagine…” (dal Vangelo di Filippo).
“Gesù disse loro: Quando farete di due uno e quando farete che l’interiore sia come l’esteriore e l’esteriore come l’interiore, e ciò che sta sopra come ciò che sta sotto, e quando farete che maschio e femmina siano una sola cosa, così che il maschio non sarà maschio e la femmina non sarà femmina, e farete che occhi siano al posto di un occhio, e una mano al posto di una mano, e un piede al posto di un piede, e un’immagine al posto di un’immagine, allora entrerete nel Regno.” (dal Vangelo di Tommaso).

Verità, simboli, immagini… L’architettura è la ‘materializzazione’ (tekton) del ‘principio’ (arké), è il ‘rivestimento’ dell’’idea’ (la verità). E come si sa, l’abito non serve solo a proteggere dal freddo, ma è anche ‘esibizione’ di sé… È quindi naturale (è nella natura delle cose) che, a fronte di tanta architettura (o solo ‘edilizia’) ‘organica’ o comunque ‘etero-referenziale, ci siano “architetture auto-referenziali, egomaniache, de-contestualizzate, sempre diverse le une dalle altre, ma tutte eguali nell’impossibilità di poter trovare un criterio di giudizio se non di tipo esclusivamente individuale” (Pietro Pagliardini in “LPP:Star-system da bocciare? Si, forse, anzi no”, su De Architectura).
Architettura ‘bella’, architettura ‘brutta’? È nella natura delle cose… Il problema è che, mentre un vestito lo si può togliere o eliminare tout-court, l’architettura ha anche, e soprattutto, un corpo e l’eliminazione del suo ‘vestito’ quasi sempre non risolve il problema: l’impatto visivo e la risonanza di un ‘fatto’ di architettura ‘disturbante’ può avere effetti, non solo sul singolo passante o utente, ma anche, e soprattutto, sull’immagine e sull’idea di città. 
Ed ecco che il genius loci, sempre in allerta, può reagire rigettandola, e questo a livello subliminale può incidere negativamente in chi frequenta certi luoghi, sommandosi così al disturbo percettivo, ‘somatizzandolo’. L’unico fatto positivo, sempre alla Kevin Lynch, è che un’architettura ‘esibizionista’ può fungere da riferimento e orientamento, essendo un oggetto dello spazio velocemente identificabile anche a distanza.
Fatto è che l’architettura è soggetta anch’essa all’unità triadica, e per questo conflittuale, tra Io, Super-Io ed Es, ossia tra continuità (Super-Io) e discontinuità (Es) nel tempo e nello spazio (integrazione o dis-integrazione nel tessuto urbano), con l’Io che dovrebbe fungere da ars combinatoria, nellarduo tentativo di contemperare la ‘fuga da’ (fuga dalla ‘storia’, dalla ‘tradizione’, dall’’usuale’, ecc.) con l’’accanto a’ (contestualizzazione, integrazione). [è questo il problema delle zone terremotate: costruzione nuova o mimesi dell’antico?].
Diceva Pierluigi Nicolin (in Lotus 1984/2): “L’architettura contemporanea va alla ricerca della figurazione in aperta polemica con l’astrattismo degli anni passati; ma questo avviene in quella circostanza che Lyotard ha chiamato la fine delle grandi narrazioni. Per l’architettura si verifica un’altra più specifica circostanza, che possiamo chiamare la fine della progettazione per modelli (nozione spesso confusa con quella della tipologia). Una fine confermata anche dai progetti di architetti che per essere legati a questo concetto sono costretti dai fatti a realizzare i loro edifici come unità infrante.”

Firmitas, utilitas, venustas, propinquitas… Fine dei ‘modelli’, destandardizzazione, unità infrante. Insomma, contestualizzare l'architettura (local) o decontestualizzarla in nome della modernità (global)? E che dire di un’architettura glocal, contemporanea ma inserita nel contesto?
La casa romana fu l’esito di complesse sedimentazioni e di ri-definizione o ri-orientamento del significato stesso di ‘abitazione’. Ulteriori sedimentazioni e articolazioni hanno attraversato tutta l’architettura fino a oggi, in un connubio, non sempre felice ma comunque vitale, tra mythos e logos (il mito tace, il logos parla). Parole e silenzi, idee senza parole… 
Il mito è il ‘vivaio’ delle idee d’architettura, in quanto racconta sempre la stessa cosa – essendo la matrice di ogni forma culturale e simbolica, con forte valenza estetica – ma in modo sempre diverso. 
Il logos, logos endiathetos – discorso interiore – e logos prophorikos (parola emessa, udibile), è il tentativo dell’idea di farsi ‘fatto’, ‘evento’ ‘avvenimento’. 
Il mito è il ‘silenzio’ dell’architetto che, nel farsi parola, provoca la ‘scintilla’ (il ‘fiat lux’/Big Bang) che muta il Caos in Cosmos (il caos – nel ‘cuore’ dell’architetto, e non solo – partorisce la stella danzante). Ma sempre più spesso si sentono balbettii, o urla…

Cade il ‘grande stile’, o lo stile tout-court basato sulla concinnitas (armonia, simmetria, equilibrio, eleganza, bellezza, proporzione). E si batte la via della ‘dissoluzione della totalità’ e della sua ricostruzione ‘soggettiva’, caotica, disorganica (pur con la pretesa di puntare a un presunto organicismo, ossimoricamente disorganico, della natura): ciò può partorire il ‘monstrum’, sia nel senso, latino, di prodigio – i non molti capolavori in circolazione – o, forse più spesso, di mostro vero e proprio, nel senso comune del termine.
Ma perché tanti monstra? Dimostrazione di bravura o desiderio di migliorare il mondo? Esibizionismo dal basso o lo Zarathustra che scende dal mondo a portare i suoi doni?  
Più che altro, il desiderio dell’architetto contemporaneo di abbracciare anche nel più breve brano la totalità del mondo. 
Se la sintesi medioevale lasciava spazio alla differenziazione (il tutto nel frammento) e la modernità assumeva la totalità indifferenziata, riflessa nel progressivo depauperamento e sradicamento dellindividuo (la sua dis-animazione), mentre il post-modern tutto dissolveva (e continua a dissolvere), in una tiepida liquidità scongelante, il nostro tempo (post-liquido? sublimato?) cerca una nuova solidità ‘sublime’ in costruzioni sempre più decostruite, in un funambolico vorticoso tentativo di ri-creare un nuovo ordine (s)oggettivo, frantumando così l’idea progettuale in un fantomatico (fantasmatico, talvolta fantastico) flusso di segmenti di realtà. 
In una società (post)liquida come la nostra l’architettura rischia, dunque, di perdere la sua ‘solidità’, senza per questo ‘sublimarsi’. Per dirla alla Spengler: idee senza parole è l’unica cosa che garantisce la solidità dell’avvenire”. Educare l’uomo è impedirgli la “libera espressione della sua personalità” ‘reagisce’ Nicolás Gómez Dávila, dall’alto della sua ‘turris eburnea’. Nondimeno, incatenando l’architetto, ‘educandolo’, si avranno città forse vivibili, ma senza respiro ‘sacro’. 
E io, malgré tout, respiro male in un mondo non attraversato da ombre sacre…