IL CAOS HA PARTORITO
LA SUPERSTAR DANZANTE
Fermate il mondo,
voglio scendere...
Domani è il mio compleanno. Torno, quindi, alle
mie origini (ma ne ho più d’una… “Mi contraddico? Certo che mi contraddico! Sono vasto, contengo moltitudini...” – Walt Whitman).
In particolare, let’s go back alla mia “arké” architettonica. Riposto quindi un mio ancien contributo a un blog di architettura online.
N.B. Per colmo di contraddizione, anche se qui le critico, le
archistar spesso mi piacciono, a cominciare dalla compianta Zaha Hadid e,
soprattutto, dal vivo e vegeto Frank Gehry…
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IL CAOS HA PARTORITO
LA SUPERSTAR DANZANTE
di Nicola Perchiazzi (pubblicato il 20/01/2009)
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”La verità non è venuta nel mondo
nuda, ma è venuta in simboli ed immagini: il mondo non la riceverà in altra
maniera. C’è una rigenerazione e un’immagine di rigenerazione. Ed è veramente
necessario che si sia rigenerati attraverso l’immagine…” (dal Vangelo di
Filippo).
“Gesù disse loro: Quando farete di due
uno e quando farete che l’interiore sia come l’esteriore e l’esteriore come
l’interiore, e ciò che sta sopra come ciò che sta sotto, e quando farete che
maschio e femmina siano una sola cosa, così che il maschio non sarà maschio e
la femmina non sarà femmina, e farete che occhi siano al posto di un occhio,
e una mano al posto di una mano, e un piede al posto di un piede, e
un’immagine al posto di un’immagine, allora entrerete nel Regno.” (dal Vangelo di
Tommaso).
Verità, simboli, immagini… L’architettura
è la ‘materializzazione’ (tekton) del ‘principio’ (arké),
è il ‘rivestimento’ dell’’idea’ (la verità). E come si sa,
l’abito non serve solo a proteggere dal freddo, ma è anche ‘esibizione’ di
sé… È quindi naturale (è nella natura delle cose) che, a fronte di tanta
architettura (o solo ‘edilizia’) ‘organica’ o comunque ‘etero-referenziale,
ci siano “architetture auto-referenziali”, egomaniache, de-contestualizzate,
sempre diverse le une dalle altre, ma tutte eguali nell’impossibilità di
poter trovare un criterio di giudizio se non di tipo esclusivamente
individuale” (Pietro Pagliardini in “LPP:Star-system
da bocciare? Si, forse, anzi no”, su De Architectura).
Architettura ‘bella’, architettura ‘brutta’? È nella natura delle cose… Il problema è che, mentre un vestito lo si può togliere o eliminare tout-court, l’architettura ha anche, e soprattutto, un corpo e l’eliminazione del suo ‘vestito’ quasi sempre non risolve il problema: l’impatto visivo e la risonanza di un ‘fatto’ di architettura ‘disturbante’ può avere effetti, non solo sul singolo passante o utente, ma anche, e soprattutto, sull’immagine e sull’idea di città.
Ed ecco che il genius loci, sempre in
allerta, può reagire rigettandola, e questo a livello subliminale può
incidere negativamente in chi frequenta certi luoghi, sommandosi così al disturbo percettivo, ‘somatizzandolo’. L’unico fatto positivo, sempre alla
Kevin Lynch, è che un’architettura ‘esibizionista’ può fungere da riferimento
e orientamento, essendo un oggetto dello spazio velocemente
identificabile anche a distanza.
Fatto è che l’architettura è soggetta
anch’essa all’unità triadica, e per questo conflittuale, tra Io, Super-Io ed
Es, ossia tra continuità (Super-Io) e discontinuità (Es) nel
tempo e nello spazio (integrazione o dis-integrazione nel tessuto urbano),
con l’Io che dovrebbe fungere da ars combinatoria, nell’arduo
tentativo di contemperare la ‘fuga da’ (fuga dalla ‘storia’, dalla
‘tradizione’, dall’’usuale’, ecc.) con l’’accanto a’
(contestualizzazione, integrazione). [è questo il problema delle zone
terremotate: costruzione nuova o mimesi dell’antico?].
Diceva Pierluigi Nicolin (in Lotus
1984/2): “L’architettura contemporanea va alla ricerca della figurazione in aperta
polemica con l’astrattismo degli anni passati; ma questo avviene in quella
circostanza che Lyotard ha chiamato la fine delle grandi narrazioni. Per
l’architettura si verifica un’altra più specifica circostanza, che possiamo
chiamare la fine della progettazione per modelli (nozione spesso confusa con
quella della tipologia). Una fine confermata anche dai progetti di architetti
che per essere legati a questo concetto sono costretti dai fatti a realizzare
i loro edifici come unità infrante.”
Firmitas, utilitas, venustas,
propinquitas… Fine dei ‘modelli’, destandardizzazione, unità infrante.
Insomma, contestualizzare l'architettura (local) o decontestualizzarla in nome
della modernità (global)? E che dire di un’architettura glocal, contemporanea
ma inserita nel contesto?
La casa romana fu l’esito di complesse
sedimentazioni e di ri-definizione o ri-orientamento del significato stesso
di ‘abitazione’. Ulteriori sedimentazioni e articolazioni hanno attraversato
tutta l’architettura fino a oggi, in un connubio, non sempre felice ma
comunque vitale, tra mythos e logos (il mito tace, il logos
parla). Parole e silenzi, idee senza parole…
Il mito è il ‘vivaio’ delle
idee d’architettura, in quanto racconta sempre la stessa cosa – essendo la
matrice di ogni forma culturale e simbolica, con forte valenza estetica – ma
in modo sempre diverso.
Il logos, logos endiathetos
– discorso interiore – e logos prophorikos (parola emessa, udibile),
è il tentativo dell’idea di farsi ‘fatto’, ‘evento’ ‘avvenimento’.
Il mito è il ‘silenzio’
dell’architetto che, nel farsi parola, provoca la ‘scintilla’ (il ‘fiat
lux’/Big Bang) che muta il Caos in Cosmos (il caos – nel
‘cuore’ dell’architetto, e non solo – partorisce la stella danzante). Ma
sempre più spesso si sentono balbettii, o urla…
Cade il ‘grande stile’, o lo stile
tout-court basato sulla concinnitas (armonia, simmetria, equilibrio,
eleganza, bellezza, proporzione). E si batte la via della ‘dissoluzione della
totalità’ e della sua ricostruzione ‘soggettiva’, caotica, disorganica (pur
con la pretesa di puntare a un presunto organicismo, ossimoricamente
disorganico, della natura): ciò può partorire il ‘monstrum’, sia nel
senso, latino, di prodigio – i non molti capolavori in circolazione – o,
forse più spesso, di mostro vero e proprio, nel senso comune del termine.
Ma perché tanti monstra? Dimostrazione di bravura o desiderio di migliorare il mondo? Esibizionismo dal basso o lo Zarathustra che scende dal mondo a portare i suoi doni?
Più che altro, il desiderio
dell’architetto contemporaneo di abbracciare anche nel più breve brano la
totalità del mondo.
Se la sintesi medioevale lasciava
spazio alla differenziazione (il tutto nel frammento) e la modernità
assumeva la totalità indifferenziata, riflessa nel progressivo depauperamento
e sradicamento dell’individuo (la sua dis-animazione), mentre il
post-modern tutto dissolveva (e continua a dissolvere), in una tiepida liquidità
scongelante, il nostro tempo (post-liquido? sublimato?) cerca una nuova
solidità ‘sublime’ in costruzioni sempre più decostruite, in un funambolico
vorticoso tentativo di ri-creare un nuovo ordine (s)oggettivo, frantumando
così l’idea progettuale in un fantomatico (fantasmatico, talvolta fantastico)
flusso di segmenti di realtà.
In una società (post)liquida come la
nostra l’architettura rischia, dunque, di perdere la sua ‘solidità’, senza
per questo ‘sublimarsi’. Per dirla alla Spengler: “idee senza parole è l’unica cosa che garantisce la solidità
dell’avvenire”. Educare
l’uomo è impedirgli la “libera espressione della sua personalità” ‘reagisce’
Nicolás Gómez Dávila, dall’alto della sua ‘turris eburnea’. Nondimeno, incatenando
l’architetto, ‘educandolo’, si avranno città forse vivibili, ma senza respiro
‘sacro’.
E io, malgré tout, respiro male in un
mondo non attraversato da ombre sacre…
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