PASQUA
De profundis clamo ad te
No
wonder many Italians worry that the stability that Mr. Letta is offering will
turn out to be the stability of the graveyard.
(Simon
Nixon, Wall Street Journal,
24 novembre 2013)
“Le zone interdette che caratterizzano e costellano il
posto in cui abitiamo viviamo lavoriamo non sono solo e semplicemente fisiche
(L’Aquila, Taranto, i CIE, la Val di Susa), ma più integralmente psichiche:
a essere interdette, proibite, negate sono intere narrazioni, racconti storici,
versioni di come sono andate le cose davvero: di come siamo arrivati a questo
punto.
(E d’altra parte, il sequestro è il concetto-guida
che ci accompagna regolarmente e che ci ossessiona segretamente da più di un
trentennio: questo periodo inaugura se stesso con i due fantasmi rimossi che continuano
a ritornare, Aldo Moro e Alfredo Rampi, le due figure della costrizione in
spazi claustrofobici: una cella che è un interstizio e un pozzo profondo che è
un cunicolo percettivo, le due capsule spaziotemporali in cui siamo rinchiusi
ancora oggi, da cui stiamo tentando con fatica di uscire).
Il nostro – il luogo
una volta conosciuto come “il Belpaese”, in cui il paesaggio aveva un ruolo
così importante nella costruzione dell’identità individuale e collettiva, nel
suo rapporto stretto con il contesto architettonico e urbanistico, al tempo
stesso quinta teatrale su cui rappresentare l’io e proiezione dell’altro – è
divenuto incredibilmente e indubbiamente un Paese “claustrofilico”, come
afferma Giorgio Vasta.
Siamo intrappolati all’interno di narrazioni che ci sono
state consegnate, ma che non ci appartengono. Versioni che conosciamo bene come
finzionali e soprattutto atrocemente semplificanti, ma che non sappiamo ancora
esattamente come disinnescare. Versioni imposte da generazioni precedenti, e
presentate come le uniche esistenti, le uniche valide per interpretare il
passato e soprattutto il presente (perché autocelebrative,
autoassolutorie). (…) i racconti sono già tutti pronti, confezionati, ready-made.
Il racconto del precariato; il racconto dell’Aquila; il racconto della crisi;
il racconto della “fine della cultura”, della “fine dell’arte”, della “fine
della letteratura”, della “fine della civiltà”.
Si fa molta fatica in genere a considerare che il tuo
declino non è un torto che qualcun altro ti fa, non è un furto, né una
maledizione divina, ma è proprio… il tuo declino. Del resto, il pensiero
apocalittico de “l’Italia sta fallendo; tutto finisce, tutto è finito” è
in fondo la consolazione ultima. Definitiva. È la più articolata – e al
tempo stesso la più semplice – delle retoriche con cui ci avvolgiamo, nelle
quali ci imbozzoliamo come in coperte sbrindellate e marcescenti. Perché
permette di rimuovere il pensiero atroce e semplicissimo che tu sei finito,
tu stai finendo, mentre il resto va avanti e andrà avanti, in forme che
neanche riesci a immaginare. Che il nuovo inizio non ti riguarderà in alcun
modo – come è perfettamente naturale che sia.
(…) In questo momento, è come se un linguaggio, un codice,
un intero sistema di convenzioni elaborate in e da un’altra epoca (chiusa,
conclusa per sempre) stesse cercando di raccontare un presente totalmente
alieno, inedito, oscuro. Così facendo, se ne colgono ovviamente solo gli
elementi terribili, spaventevoli, inquietanti, mai quelli interessanti (che
sono – ovviamente – gli stessi).
Un unico punto di vista, per giunta incredibilmente piatto e
noioso, non è in grado per definizione di generare nuove prospettive sulle
situazioni che stiamo vivendo giorno per giorno, e che intessono a loro volta
la nostra esperienza. Occorre imparare molto in fretta a fessurare
costantemente questo presente e i racconti mainstream che lo dominano e
lo imprigionano – rendendolo inerte, paralitico.
Una delle cose in assoluto peggiori che ci è stata
insegnata è che occorreva e occorre a tutti i costi evitare ogni forma di
conflitto. Ma senza conflitto, senza scontro culturale – che è scontro di
visioni, di punti di vista, di prospettive, di interpretazioni, di sistemi
morali – non esiste nulla: esistiamo solo noi in questa distopia realizzata, in
questo spazio mentale claustrofobico e asfissiante. Esistiamo noi con questa
persistente sensazione di sospensione, di estraneità. Finora può essere stata
interessante (perfino divertente a tratti): adesso va infranta, lesionata,
sbriciolata.”
“E un giorno esce sul giornale di una squadra di uomini vestiti
di nero che hanno fatto irruzione nel salone di un concessionario di macchine
di lusso in un quartiere elegante sfondando a colpi di mazza da baseball i
paraurti anteriori delle macchine per far esplodere gli airbag in imbrattanti
nuvole di polvere nel fracasso spaventoso degli antifurto. E una notte nel
giardino di una piazza cittadina un altro gruppo di uomini ha versato benzina
sotto tutti gli alberi e da albero ad albero ha appiccato un perfetto piccolo
incendio boschivo.”
“Ci
vengono addosso i fari, sempre più grandi e più grandi, clacson che strillano,
e il meccanico allunga il collo nel riverbero e nel fragore e grida: «Tu non
sei le tue speranze». Nessuno gli fa eco. Questa volta la macchina che ci sta
venendo addosso sterza in tempo e ci salva. Ce ne viene addosso un’altra,
lampeggia, abbaglianti anabbaglianti, clacson a
tutta, e il meccanico grida: «Tu non sarai salvato». Il meccanico non sterza,
ma sterza l’altra macchina. Ne arriva un’altra e il meccanico grida: «Tutti noi
moriremo, un giorno o l’altro.»
(Fight Club,
Chuck Palahniuk)
Sì, tutto sembra cospirare affinché la tomba (il graveyard dell’incipit) sia la nostra
destinazione, ma, come la Pasqua insegna, il sepolcro è solo temporaneo: ognuno di noi è un potenziale Lazzaro "risvegliato" (alla faccia del lazzaroni e dei caciaroni cianciaroni fancazzisti del can-can mediatico).
Bene, svestito l’uovo di Pasqua (il re è nudo), vediamo di
romperlo: infrangiamo le convenzioni cui siamo asserviti, come afferma, a ragione,
l’articolo, e scartiamo il regalo.
Sì, perché un regalo c’è: dietro ogni piagnisteo, sia pure
legittimo, ci dev’essere una risata (un fou
rire, una risata folle alla Nietzsche: "Coloro che leggono Nietzsche senza ridere, e senza ridere molto, senza ridere spesso, colti talvolta da un fou rire, è come se non leggessero Nietzsche" - Gilles Deleuze).
La Pasqua è anche questo: un Dio
che, dopo un pianto a folle, si fa una risata folle della Sua morte… perché sa
che, morendo, dà la vita.
L’angelo della morte sta passando davanti alle porte di tanti
uomini, famiglie, aziende, città, nazioni, ma va oltre la porta di chi è “uscito
dalla narrazione” imposta (pur con le sue ragioni e i suoi effetti, palpabili) ed è passato a una nuova
narrazione, anche se questa all’inizio può essere solo una finzione, un agire “come se” (fosse
davvero così): se rompi l’uovo del “come è” imposto dai media (che puntano al “minimo”)
e agisci “come se” – ossia agisci al massimo, sia pure solo nelle intenzioni – la
tua Pasqua non sarà quella banalizzata delle masse e della stessa chiesa
(quella della "moralina", del mercato e del supermercato), ossia un rito senza profondità, né alterità,
né altezza e profondità, ma si dimostrerà una Pasqua
di Risurrezione (anche di insurrezione, nel senso di “rivolta ideale”).
J'implore ta pitié, Toi, l'unique que j'aime, Du fond du gouffre
obscur où mon coeur est tombé. C'est un univers morne à l'horizon plombé …
(Baudelaire, Les fleurs du Mal)
Sì, c’è un chiarore oltre l’orizzonte (quello “orizzontale”
della quotidianità). Che questa Pasqua sia, dunque, un salto nella Luce: dagl’inferi al terzo cielo, e poi di nuovo giù,
ma a metà strada, sulla terra, nell’acqua, nelle case, dentro e fuori di te.
Acqua
e Spirito: il vento della Ruah (femminile), dello Pneuma
(neutro), dello Spirito (maschile), comincerà a soffiare
sull’Abisso. Sentirai sempre più il flusso della vera vita, le sue onde… perché la vita è “liturgia”, non quella
esangue (talvolta da sanguisughe) propinata in questi giorni:
“La liturgia è come una grande onda del mare. Due sono i
nuotatori. Uno, vedendo arrivare l’onda, raddoppia i suoi sforzi per restare a
galla. E ci riesce anche; però si stanca e alla fine è contento di ritornare a
terra. L’altro si abbandona all’acqua e si lascia portare dalle onde. Per lui
non c’è nulla di più bello che un’onda grande che porta lontano. Egli ama la
sensazione di essere portato, di essere tutt’uno con l’onda, la sensazione dei
ruscelli di acqua fresca che massaggiano la pelle, la luce del sole che brilla
e che si rispecchia in un mare di cristallo mescolato con fuoco... La liturgia
è come una grande onda del mare.”
(Dieter Kampen).
Lasciati andare, onda su onda…
E mangiati l’uovo!
E mangiati l’uovo!