LIGHT MY FIRE
“Il mondo impazzisce. Il mio capo è morto. La mia casa non c’è più. Il mio lavoro non c’è più. E il responsabile di tutto questo sono io.” Trauma della nascita, nascita del trauma. Karmacoma. Per rinascere dovevo uscire dalla torma. “Non vedi che il cielo, grave di presentimenti, s’oscura e tace?” Se prima ero ‘in fieri’, ora mi sento proprio in forma: ma sì, voglio proprio infierire… A colpi di clava. Un po’ Stirner un po’ Fight club, un po’ Ezra Pound.
“Chi è sicuro del valore della propria causa non sente il bisogno della sua vittoria: il valore della causa ne segna già il trionfo.” Infierire. Non solo sfiorare, ferire, interferire. Turbare, non solo tubare. Devo uscire dalla mia comfort zone. Voglio avere la mia fighting chance! Diventare leggenda (e tuttavia invecchiare…). E tr… danzare sul mondo (a suon di tromba) e… ridere, ridere, ridere (il romanzo come terapia?). Riso dionisiaco-nicciano e witz surrealista-freudiano: un po’ di seltz nell’acqua bassa del mondo (se non altro, del mio mondo).
“Non c’è fine, ma aggiunta: il trascinato conseguire di giorni ulteriori e ore, mentre l’emozione prende a sé gli anni di emozione privi, vissuti fra i detriti di quel che si credeva più affidabile e perciò più adatto all’abbandono.” Ne ho scritto un romanzo (“Nessun vascello c’è che come un libro possa portarci in contrade lontane”), con molte fughe in avanti (se al vascello ha provveduto la Dickinson, quanto al dérriere mi sono barcamenato tra prestiti a destra e a sinistra. Usura? Jamais!). La mia missione? (e sono solo all’inizio): “Non essere limitato da ciò che è più grande, essere contenuto in ciò che è minimo, questo è divino.”
E per questo ho scritto la pulp story del ventunesimo secolo (e non avevo ancora spolpato il ventesimo…). By the way, ha vinto pure un premio Emily Dickinson!
Sentiva nella ghianda dell’anima che c’era something new in the air. Qualcosa di nuovo stava per accadere: su di sé, intorno a sé, dentro di sé, sentiva good vibrations. Sentì vibrare il nucleo, il cuore, l’antro sotterraneo che si celava dentro: un desiderio violento lo pervase, come magma pronto a eruttare che la crosta esterna comprimeva, tratteneva, faceva muraglia tutt’intorno. Bramose voglie in cerca di un significato, aneliti vulcanici, ma spesso degradati a basic instincts senza profondità vitale.
Nondimeno, dal mondo del sogno – il Tjukurrpa aborigeno in cui spesso si rifugiava, e da sempre (già nel ventre materno – così gli sussurrava l’Io subliminale) – più di una volta era riuscito a tirar fuori il ‘nucleo immaginale immanente’ (frase a effetto esplosa da Lorenzo in una delle conferenze amatoriali del suo periodo rosa), cioè la qualità ‘numinosa’ che lo sottendeva. In pratica, aveva dato corpo (nel vero senso del termine) ai voli della sua immaginazione.
Quel bisogno di creatività, di fuga dal mondo, di fantasie da realizzare, che può creare sia il gigante sia il mostro. Ma Lorenzo non era riuscito a essere né l’uno né l’altro; se non a sprazzi o, nel migliore dei casi, in maniera discontinua, frammentata. Arenato, frenato, appesantito dall’io sociale che non lasciava correre il suo io reale. Eppure la voce tiranna – Krishnamurti dixit – gridava...
E come strillava! Munch… Sussurri e grida. Un urlo sul ponte.
Ginsberg… che urlo! “Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa…” Anche Lorenzo arrancava, ma senza strillare. Non più nero di rabbia. Solo frenato. Senza remi, con molte remore. Ramingo.
Freni interni ed esterni. Per rompere i quali, e catapultarsi nella vita, aveva cercato – pensando che fosse lì il problema – d’integrare il puer con il senex (quest’ultimo, in lui, pressoché assente), affinché si riconciliassero e passeggiassero insieme. Ma il fanciullo aveva avuto sempre la meglio.
Aveva, infine (passo decisivo), compreso che il suo malessere esistenziale derivava da un bisogno inespresso di esplorare le contrade del mondo dello spirito, le città invisibili: un mal-essere che solo un rivolgimento completo del suo essere, una metànoia, avrebbe potuto dissolvere.
“Dovunque vado c’è la carcassa bruciata e ammucchiata di una macchina ad attendermi. So dove sono tutti gli scheletri. Vedetelo come la mia garanzia d’impiego.” Il mio mal-essere… Il vuoto annienta il mio essere e riempie il mio mal-di-vivere (ogni tanto torna a galla quell’oscuro, seppioso, gargoyle della mia multipolarità attiva: mi elevo e poi ripiombo giù. Basta… non mi appartiene! Dal ‘due’ – il dubbio, l’errore – devo passare al ‘tre’: la perfezione, o giù di lì. E se proprio il radicale ‘du’ ci deve essere, che sia Dyaus, dies, Dio, giorno, luce, donna…).
Quando sono debole, è allora che sono forte… Devo uscire dalla noia senza passare dalla paranoia (ci vuole una metànoia!). Per il momento sto passando per la mia fase viola: nichilismo borderline (quasi psicopatico), fondamentalismo anarchico, trascendentalismo (un po’ critico). Tutto il resto è noia… M’interrogo sul futuro, sul presente, sul passato (quando alle donne, sono in stand-by). Adda passà l’annata. Ma prima devo tagliare il cordone, uscire dal ‘giardino’… Diventare gallo cedrone,
“L’esistenza non la puoi mai dedurre; la incontri.” Devo uscire definitivamente dalla mia bolla (la comfort zone), devo passare sotto le spade degli angeli buttafuori, devo estrarre la spada dalla roccia, devo sciogliere il nodo a guardia del bosco, devo scegliere, far luce. Devo vivere… a costo di essere-gettato-nel mondo. Sartre… ho le nausee: sarò incinto?
“E da tutti questi esempi illustri non volete apprendere che il miglior partito è quello dell’egoista? Io per mio conto faccio tesoro di queste lezioni e piuttosto che servire disinteressatamente a quei grandi egoisti, voglio essere l’egoista io stesso.” Anarchia, politica, apolitìa? Beatles, Rolling Stones, Police? Light my fire.
Sting… solo immergendomi nel mio romanzo-turbillon – ma tracce di Palahniuk mi sono rimaste addosso (ultimamente ero ‘fatto’ di lui e Jay McInerney: le sue mille luci di New York mi hanno accecato) – riesco a essere-nel-mondo (e poi ogni libro è politica – un vagare con un senso nelle mie città, visibili e invisibili). Sarò diventato egoiste (grazie allo Stirner di ritorno), ma, se non altro, comincio a vivere in una tasca della vera vita: un abito che non mi sono mai potuto permettere (il mio, quello logoro e bisunto, ha pure i buchi nelle tasche…). Ma ora è alla mia portata, sia pur sotto vetro (una parete di cristallo blindato: aspetto, da un momento all’altro, il colpo d’ariete).
“Perdersi, smarrirsi. Ci sono momenti del mio lavoro in cui questo è necessario, vitale. Perdere le certezze, abbandonare le abitudini, rischiare.” Sì, leggendo e rileggendo la fiaba-apologo, niccianamente perso nella mia fiaba sull’origine (le definizioni morfologiche di Propp m’intrigano, ben più di Popper: dalla potenza – nietzscheana – al ‘potrebbe essere’… così traluce la nicciana doc, quella con la cappa – e il cappio. E intorno fiorisce il cappero). Anche se la mia più che fiaba è un effluvio quasi diluviale posso cominciare a srotolare il mio universo parallelo, proiettarmi al di là della materia, intrufolarmi nell’energia oscura, tra buchi neri e comete bianche (nella mia fantasia al laser non ci sono soffitti di cristallo che tengano…). Ma non ci sono più le fiabe d’una fiata…
Coppie, grappoli, stringhe sempre meno sottili. Batteri, morule, embrioni di future miriadi… Tutto d’un fiato. Avevo trovato il passaggio (o forse, sono io quel passaggio…). Posso finalmente viaggiare avanti e indietro negli spazi curvi dell’imagery, cavalcare la time-line – non del chronos ma dell’aion – e combattere contro il drago, scalare la torre, conquistare l’amata, strappare il talismano agli dèi… E sopravvivere al grande meriggio.
Tratto dall’inedito “Nietzsche: sneakers o tacchi a spillo?”
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