DOMUS IN FABULA
È domenica – ogni giorno porta la sua “pena” (e “penna”) –
e mi sento in modalità (vena) poetica.
Da tagliar le vene. Ed ecco che
ripropongo la mia introduzione, di circa 30 anni fa, per il mio progetto (pubblicato
su un libro dedicato) per il concorso “La casa più bella del mondo”.
Era l’alba, il momento più
degno per l’incontro cui tanto aveva anelato.
Si avvicinò al locus: il genio aveva ghestalticamente ricomposto le mille tessere in quarant’anni gelosamente serbate. “I have a dream” si trasfigurò: la sua domus era lì, del sito proserpina, eppur ecumenica.
Si avvicinò al locus: il genio aveva ghestalticamente ricomposto le mille tessere in quarant’anni gelosamente serbate. “I have a dream” si trasfigurò: la sua domus era lì, del sito proserpina, eppur ecumenica.
Nell’aura dai colori non
ancora accesi, il portico audace tentò l’approccio, baroccamente giocoso,
novecentescamente solenne. Incuriosito, come bambino quarant’anni addietro,
scartò la pur breve scalinata, infilò la rampa di sinistra, sospinse l’uscio ed
entrò: una luce soffice lo accolse mentre s’incamminava incerto verso qualcosa
che gli appariva un curioso dialogare tra reale e virtuale.
Scartò la scala di
sinistra e acquisì la tattile consistenza cromatica che l’imago autre offriva di sé sulla flessuosa parete di destra: eterna diatriba
tra essere e non essere, o forse qualcosa di più semplice? Scelse la prima
ipotesi e, baldanzosamente attratto da “sons et lumiéres”,
s’affacciò nella cavea ellittica.
Improvviso s’elevò un urrà
di benvenuto: elfi e umani lo avevano per quarant’anni atteso e ora
pubblicamente lo ringraziavano. Ripresosi dallo stupore, gli parve persino di
riconoscere figure settecentesche, perfettamente a proprio agio, così come
cantava quel loro dialetto, così antico, eppur così vicino al suo.
Improvvisamente, vicino al camino, tra le griffe spuntò il figlio che se n’era
andato appena grande, forse rientrato nei ranghi dopo anni di romitaggio
esistenziale.
Lasciò le sequenze che
l’ultimo videoclip affastellava sulla parete e, sentendo il desiderio di
allontanarsi un po’ da quel clamore, volle ritirarsi nella stanza appena
discosta dall’ingresso.
La porta era socchiusa; la sospinse, e si meravigliò assai vedendo lei, che l’aveva abbandonato, e i suoi vecchi, in un unico abbraccio. Salutò con familiarità, quasi non avesse subito il distacco, prese lei per la mano e salì le scale; ma tale era lo stordimento, più di quanto volesse far credere, che salì per la rampa “trompe l’oeil”, accompagnato da chissà quale genio.
La porta era socchiusa; la sospinse, e si meravigliò assai vedendo lei, che l’aveva abbandonato, e i suoi vecchi, in un unico abbraccio. Salutò con familiarità, quasi non avesse subito il distacco, prese lei per la mano e salì le scale; ma tale era lo stordimento, più di quanto volesse far credere, che salì per la rampa “trompe l’oeil”, accompagnato da chissà quale genio.
Superato l’ultimo gradino,
si affacciò dall’alto sulla cavea ancor echeggiante e la immaginò vuota: in
essa avrebbe potuto sistemare per sé, per la moglie e per il figlio, l’ufficio
dell’operatore immobile, eppur collegato col villaggio ecumenico. Per la sua
intimità, e per i messaggi col villaggio cosmico, pensò invece a una sala al
piano superiore, dove, nelle notti stellate, la cupola, una volta aperta dalla
magia dell’elettronica, gli avrebbe dischiuso tutti i luoghi delle sue
eterotopie.
S’immerse in queste
digressioni, la mano di lei ancora stretta, la cupola ancora dischiusa sullo
spazio irreale che virtualmente si apre oltre la coscienza, quando un
improvviso temporale gl’inseminò il capo: pensò allora che forse
una più stabile copertura, magari colorata d’azzurro, avrebbe garantito la pace
domestica.
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