GLI ASCIUGAMANI,
GLI ZOCCOLI, I LIBRI…
La lama affilata guizzò nel buio. Il corpo disteso, il sangue a fiotti. La donna dai lunghi capelli corvini e gli occhi azzurri non aveva perso nulla della sua bellezza. Anzi, il ritirarsi della linfa vitale nelle remoti sorgenti dell’Abisso accresceva il fascino senza tempo di questa vestale dell’amor cortese. La posizione e la strana, diffusa, luminescenza erano le stesse della misteriosa donna della piscina: memento mori, ma anche ricordo di Vitruvio, Leonardo e – onda lunga del Codice da Vinci – …di una messa satanica.
Non appena sullo schermo mentale di Lorenzo – ora in fase rem, dopo il sonno profondo cullato dalle onde delta – balenò, in bianco e nero, quest’ultima, sulfurea, ambientazione (una location da urlo, comunque da loculo), il viso della donna, prima angelico (ma non eterico, né asessuato, anzi da etéra), ebbe un piccolo sussulto. S’increspò, come un domino al rovescio, dopo di che le prime onde pervasero le guance, arrossatesi al punto da costringere il naso (fino ad allora alla francese) a gibbosità estranee al corredo genetico della fanciulla. Infine, senza preavviso, lo tsunami: come in un corto(-metraggio o -circuito) a colori intensi, gli occhi si spalancarono all’improvviso, gialli, vetero-felini, cisposi, e folate schiumose di vomito si abbatterono, aritmicamente, sul volto di Lorenzo.
Un ghigno diabolico, strappato alle viscere di un Ades alla Hieronymus Bosch – e qui un deja-vu: la cover del libricino sessantottino, condiviso con Gaia –, eruppe dalla gola grinzosa della bieca megera, sovrastando il frastuono delle onde che si frangevano caoticamente sugli scogli (il tempo, sino ad allora sereno, sembrava volgere al peggio). All’unisono con la bava lavica fuoriuscente dalla bocca repentinamente rinsecchita.
Le mani affusolate, trasformatesi in artigli, si staccarono dai fianchi del corpo supino, di colpo rizzatosi in piedi, ghermendo alla gola Lorenzo, sbiancatosi di tutta l’abbronzatura accumulata dai primi di giugno (era sempre precoce quanto ai bagni di sole, ma anche quanto mai restio ad abbandonarli). Una forte pressione alla carotide di Lorenzo, poi i denti aguzzi della donna – ora geneticamente mutata in vecchia baba jaga –, scortati dalle mani-artiglio ungulate, cominciarono a scavare frementi sul suo petto nudo, in cerca forsennata del cuore, o di quel che ne rimaneva.
Lorenzo si svegliò all’improvviso, le mani sudaticce, le articolazioni doloranti, il cuore in fibrillazione. Era da solo sulla piattaforma. Gaia sembrava essersi volatilizzata, evaporata, sublimata, ma qualcosa di lei aleggiava ancora (non i residui della baba jaga – ma un po’ femminista Gaia lo era). Quasi impalpabile eppur ricco di succosa polpa.
Un foglio, stropicciato, non rifilato, mangiucchiato qua e là, con su scritto: Il tempo passa, ma la sua essenza rimane. La mia assenza testimonia della mia presenza. Sono assente nella persona ma presente nell’essenza (il suo profumo si sentiva… Romance). Ti lascio per non so quanto – forse solo poche ore, chissà –, affinché tu rifletta su tutto quello che è successo finora. L’ora viene, il Kairòs sta per ingoiare il tuo Chronos: l’immensa folla, finora solo quattro gatti, suggerà, anzi ingoierà quanto tu dirai, perché al tuo fianco ci sarà qualcun altro. Io te l’ho solo presentato. E preservato. Naturalmente non era chi tu conoscevi. Quello era solo una controfigura; non un travestimento, o un impostore, beninteso, ma solo uno stuntman, un ‘modello’, un ‘tipo’, un ‘analogo’ del Logos, il Giovanni Battista che ti stava preparando al deep impact.
Gli asciugamani, gli zoccoli, i libri… Solo allora Lorenzo si ricordò di aver lasciato la zavorra (non i suoi amati libri, suoi gemelli siamesi) sulla spiaggia. Un po’ di peso l’aveva scaricato sul pianoro dello yoga e dei primi timidi approcci con Gaia (sempre più audaci man mano che la spiaggia, e poi il mare, lo andavano calamitando – lui prima calamaro, poi camaleonte, infine sciamano scalmanato), altra zavorra ne aveva lasciata nel suo fortino residenziale.
Rifece sconcertato, ma non più di tanto (era un bel po’ che levitava in catalessi), parte del percorso a mezza costa. A piedi nudi, con apparente facilità, nonostante la scabrezza di alcuni tratti. Scelse, infine, di tuffarsi, sdegnando neghittosamente una delle scalette d’invito. Sì, tuffarsi, godersi l’attimo, riprendere il contatto a pelle con la natura …ma come portarsi appresso, senza contenitore, i due fogli del riscatto (o ricatto?), queste tessere indispensabili del mosaico che si andava formando sull’abside della sua vita?
La sua vita, la sua esistenza come spazio sacro calpestato da troppi piedi indegni: il nartece, ormai solo un ricordo del passato remoto, sempre meno affollato, sempre più esterno. La navata, completamente immersa nella nebbia del passato prossimo: vaporosa, a densità variabile, qua e là sfilacciata, costellata da tagli di luce a cui le vetrate istoriate avevano dato volentieri il lasciapassare. E lui, invece, in momentanea contemplazione al centro del transetto, a respirare a plesso solare completamente dischiuso al flusso dello Spirito. Sospirando sospirando, tutto preso a contemplare a occhi sgranati il mosaico sull’abside (virtuale), dalla policromia accesa, a grana grossa e fine – quasi completo, ma le cui particole mancanti, sia pur poche, e alcune zone d’ombra in punti strategici erano tali da inibirne la lettura definitiva –, Lorenzo si fece coraggio (di che avere paura?): si mosse, fece alcuni passi per avvicinarsi alla parete, alla decorazione musiva. Volle, infine, gustarne la consistenza tattile…
Un improvviso black-out e poi la luce: uscito dalla cattedrale mentale, nuovamente su una delle piattaforme a mezzacosta, Lorenzo si guardò frastornato attorno. Dopo più di un attimo di souplesse, frustato dal clash delle onde (e da qualche spruzzo sfuggito chissà come) ritornò in sé e, lucido, realizzò che qualcosa mancava: era troppo nudo per la meta.
A metà della piattaforma i due foglietti dall’aria smarrita – quelli del progetto – richiamarono la sua ritrovata attenzione. Ancora indeciso sul da farsi, dal margine di un piccolo cespuglio spuntò il ‘montone’ che avrebbe salvato ‘Isacco’ – i due reperti cartacei – dal ‘sacrificio’: una bottiglia di coca vuota in cui infilare i fogli del cuore, pronta a galleggiare al fianco di Lorenzo per quel centinaio di metri che lo separavano dall’ambita spiaggia. E sospirata: niente più indugi, nessuna residua remora a frenare il suo slancio vitale.
Un tuffo deciso, spavaldo, adamantino: non era uso a questi comportamenti – tuffarsi, nuotare in mare aperto, deliberare senza tema di aspettare il momento (ritenuto) più adatto; senza posporre e poi posporre… No doubt: aveva acquistato coraggio, baldanza, ardimento; aveva imparato a cavalcare la tigre (quella del Sessantotto era solo una lince – già qualcosa…).
Tigre: l’immagine felina gli riportò per un attimo alla mente Arianna (il black-out era durato sin troppo). E con lei la triade “sesso, amore romantico e attaccamento.” Come avrebbe poi argomentato l’antropologa new entry Helen Fisher, riguardo ai quattro fondamentali ‘tipi chimici’ (ma Lorenzo l’aveva anticipato di qualche mese), in Arianna si coagulavano, ossimoricamente, l’esploratrice (spontanea, ottimista, creativa), la costruttrice (calma, socievole, leale), la negoziatrice (immaginifica, intuitiva, amante della lettura) e, last but not least, la direttrice (ambiziosa, risoluta, logica). In un succoso mix sempre diverso, a seconda degli sbalzi di dopamina, serotonina, estrogeni e testosterone. Cocktail che Lorenzo centellinava, sorbiva, trangugiava, con gusto, ma che ultimamente gli era andato di traverso. Forse perché lui era suo chemical brother: affine ad Arianna, ma con dosaggi diversi. E poi, lui era primitivo.
Lorenzo: lui non feriscono l’armi, lui non brucia il fuoco, lui non bagnano l’acque, lui non dissecca il vento…
Da Gocce di pioggia a Jericoacoara.
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