VITA TRA I CONFINI
Punto di partenza, tra riva e ‘deriva’: la metropoli. Ritmo veloce, giungla di stimoli, sensazioni e immagini. Versus: l’ambiente rurale, dal ritmo lento, più abitudinario e uniforme. “Più la folla è densa, più ci sentiamo soli”, così Zygmunt Bauman ‘liquida’ la ‘città del troppo’ (altro che villaggio globale… Troppo annacquato: perciò i localismi stavano tornando a galla). Ma anche del troppo poco, del troppo uguale, dell’indistinto. E dell’outlet (e dei continui outing e coming out). Città-teatro-off, metropoli del ‘passaggio veloce’, del nulla – anche se iper… (e quella di Marc Augè non è un’iperbole: passiamo la maggior parte della nostra esistenza in ‘non-luoghi’, dove si consuma il presente e si abortisce l’avvenire).
La metropoli del denaro e di Mammona versus la campagna del baratto (e della mamma, quella con le tette gonfie di latte). Ma anche lo sfilacciamento del tessuto comunitario – altro che manna – a vantaggio della scolorita ‘stoffa’ periurbana (le periferie anonime e suicidofile, ipermercati inclusi, per quanto architettonicamente ben disegnati). Luoghi, non-luoghi? Vita, non-vita? Il bello non ha prezzo.
Vita tra i confini. Identità versus alterità. Ma ancor di più: alterità nell’identità. Equilibrio in bilico. Città plurale, campagna singolare. Spaesamento. Urbanizzazione selvaggia. Portici, shopping malls, clochardization. Marginalità inclusiva, gentrification elitaria. Minimal o segno ipergrafico. Fast-food versus slow-food. Boutique versus ipermercato? Un po’ l’uno un po’ l’altro. Ma con juicio.
Adelante. Ingoiare, piluccare. Vivere, sopravvivere. Morire, sognare, svegliarsi, risvegliarsi. Fare del silenzio un’opportunità, un ‘possibile appuntamento’ per ricevere intuizioni dal superconscio. Il silenzio della natura che (tra cinguettii e fruscii) annacqua l’ebbrezza urbana. Vivere tra i margini (e, spesso, sconfinare…). Questo l’universo quotidiano. Ma anche l’intellettualità sofisticata, la riservatezza fino alla ritrosia, il formalismo blasé e il distacco anodino, il tempo che tutto scandisce e cronometra: questa la metropoli e i suoi ‘numeri’. Ma dietro il numero c’è Dio…
“Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul lavoro, chi non rischia la certezza per l’incertezza, per inseguire un sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli sensati. Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi non ascolta musica…” Aveva cominciato a leggere la città dal vivo. Ne voleva capire la ‘cifra’. Decifrarla. Carpirla. Era, però, da parecchio tempo che non faceva ‘letture’ urbane. Ma già ventenne – seguendo Neruda e i suoi sogni – aveva ‘letto’ Roma, Milano e, soprattutto, Parigi (tra una lezione e l’altra all’università si permetteva delle ‘fughe’ metropolitane, un po’ per ‘apprendere l’arte’, un po’ per mettere da parte il frutto. Ma la sua era anche esperienza ‘politica’. Sognava la Jeune Europe e l’Occident).
Parigi, come amava la Ville Lumiére! Ne respirava a pieni polmoni l’essenza vitale. La risucchiava nel suo plesso solare. Rive droite e Rive gauche. Lui si tuffava in (da e su) entrambe. Senza costume. E s’immergeva (in quella decina di giorni, o poco più) in ogni profondità. Per poi risalire a galla. E respirare cultura (Apollinaire diceva che la Senna corre tra due muri di libri). Romanzi, poesie, canzoni. Romanico, gotico, rinascimentale, manierista, barocco, rococò, neoclassico, art nouveau, art deco, razionalismo, post-modern (era rimasto alla Stendhal di fronte a un mastodontico palazzo di Bofill, post-mortem). Soprattutto, romantico.
Che romance. Compulsava avidamente ogni luogo, ogni edificio, tastandolo, carezzandolo, odorandolo. Quasi adorandolo. Ma aveva le sue preferenze. Le sue devozioni. E deviazioni. Le gambe (diritte) di Parigi (con una predilezione per la ‘Parigi con le gambe aperte’ di Ricky Gianco e Gino Paoli) e, soprattutto, il suo volto (un po’ storto), quello della Paris (non Hilton) perduta e indimenticabile di Juliette Greco.
Dell’esistenzialismo come stato d’animo. “Ma che ragazza! che ragazze! che ragazzi! portano il nero…” aveva commentato Ezra Pound (ma forse si riferiva ad altro). In ogni caso, dal Moulin Rouge ai blouson noir, la strada era tracciata: quella, comunque, della ricerca di un senso, di uno ‘stile’. E Lorenzo aveva fatto suo il detto pitagorico “evita le strade affollate e cammina per i sentieri.” Per questo era volato via, come un’oie sauvage.
E poi leggeva. Per questo aveva imparato il francese (quanto all’inglese, le frequentazioni di ragazze americane, che, ai tempi dell’università, incontrava a frotte tra Piazza della Signoria e – in fuga – a Piazza dei Miracoli, ne aveva fatto quasi uno di madrelingua). Conservava ancora Combat del 14 maggio ‘72: “Sull’orizzonte filosofico contemporaneo si stagliano tre figure: Marx, Freud, Nietzsche, la cui influenza marca tutte le ricerche contemporanee.” Questo il succo dell’articolo. Sufficiente perché lo conservasse con cura da trentatré anni.
Tratto da Gocce di pioggia a Jericoacoara
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