INCIPIT
(SECONDA PARTE)
Ieri la prima parte, oggi la seconda. Gocce, piogge, acquazzoni, di parole: fluide, solide, eteree… (sempre dal primo capitolo di Gocce di pioggia a Jericoacoara).
Sì, la frase... Un lampo tra gli emisferi cerebrali (il fulmine lampeggiante della creazione: Madonna… come gli piaceva questa frase puro stile Qabbalah!) e l’appartamento vuoto s’illuminò, riempiendosi di presenza.
Lorenzo era rientrato da pochi minuti nel residence – così sprofondato nei suoi pensieri da lasciare intonse le persiane, malgrado il saloncino-cucinino reclamasse impaziente un po’ di luce – ed eccolo, all’improvviso, assalito, quasi scaraventato a terra, dalla certezza di poter trovare la fonte delle arcane parole della ragazza. E di quella sua stimmung così intrigante, di quell’atmosfera così rarefatta. Ma che radeva il suolo.
Atterrato, non senza qualche scossone, sul letto, iniziò, guidato da mano invisibile (e dalla provvidenziale lampada sul comodino), a scartabellare fremente i libri (non c’erano solo Panikkar e Maslow, anema e core) che accompagnavano pazienti le sue ore monastiche nel villaggio-vacanza – Lorenzo si trovava da solo, né era in cerca di compagnia –, puntando infine diritto su un libricino nero, un po’ sgualcito e dall’aria démodé.
Si soffermò ancora una volta – era da trent’anni che lo faceva – sulla copertina ‘vissuta’, retrò nel design ma dal messaggio ancora attuale. La scritta – La politica dell’esperienza – campeggiava in giallo su un fondo nero costellato da immagini smozzicate: mani, braccia, gambe, piedi, un occhio, un orecchio, un ventre... (l’assemblaggio, seppur sessantottino, occhieggiava a Hieronymus Bosch). E poi, scorrendo all’impazzata la densa copertina, quasi come sottotitolo: “Esiste per caso qualcosa come un uomo normale? Imparate a conoscere la vostra pazzia, le vostre nevrosi, e le camicie di forza che la società v’impone!”
E non era finito… Ancora: “Noi che siamo ancora vivi per metà e abitiamo nel cuore alterato di un capitalismo decrepito, possiamo fare di meglio che riflettere lo sfacelo che è fuori e dentro di noi, e che cantare le nostre tristi canzoni di sconfitta?”
Ne era ormai certo (lo sentiva nello spirito, la ‘cantaride’ dell’anima): lo sconosciuto oggetto del desiderio non poteva aver attinto che dal libretto underground di Ronald D. Laing – strizzacervelli fuori rotta – che portava sempre con sé, quasi un Così parlò Zarathustra da viaggio (per lo spirito, e non solo, ci pensava la Bibbia pocket); ma anche, più prosaicamente, un vademecum di frasi a effetto da snocciolare in circoli radical-chic e dintorni (Lorenzo era un po’ à la page un po’ vintage, mai retrò).
E così, dopo un attimo di sospensione, un tentativo di retromarcia, scavalcate le prime pagine del ‘breviario’, che conosceva ormai a memoria, imboccò a tavoletta la scorciatoia verso l’epilogo, lì dove i dialoghi da épater le bourgeois si facevano più frequenti e intensi. Tra un “Cristo mi perdona se Lo crocifiggo?” e “nel mio vagabondare d’un tratto m’imbattei in una delle mie molte fanciullezze conservate nell’oblio, per questo momento in cui più ce n’era bisogno”, finalmente si scontrò, a pagina 188, con la frase fatidica. Crash, ecco dove l’aveva scovata, la scippatrice radical-chic!
Fatta chiarezza dentro di sé, momentaneamente soddisfatto, rabbonito, placato, Lorenzo si sentì blandire dalla voglia di abbandonare il campo di battaglia e andarsene in giro per il villaggio. Il luogo meritava, la carne reclamava, lo spirito scalpitava. Aveva smesso di piovere da un paio d’ore: lame di luce tagliavano, tra i residui delle pozzanghere, le aree pavimentate sottostanti alla terrazza, sfrigolii e luccichii s’insinuavano tra l’erba bagnata.
Affacciatosi con aria imbambolata – aveva finalmente aperto le persiane –, intorpidito dalla mancata, consueta, siesta pomeridiana, d’incanto i sensi rattrappiti si sciolsero, cosa per lui inconsueta, davanti al panorama, che pur frequentava da oltre un decennio. Il prato, la piscina, i cespugli, il mare, il cielo, ogni cosa gli parve nuova, viva, vivace.
Ancora a torso nudo e costume al cloro, risparmiato dai morsi della fame (mangiava solo per sfizio o dovere sociale, pur non disdegnando le abbuffate conviviali), ricaricatosi e rivivificatosi Lorenzo si fiondò di colpo verso la porta (non aprire quella porta…), quasi alla ricerca di un qualcosa d’indefinito che riuscisse a lenire quel suo bisogno interiore. L’ineffabile voleva esprimersi, la sua dynamis interiore (sprigionata dal suo daimon – il suo angelo) premeva con insistenza sulla ‘corazza’, chiedendo solo di ‘scatenarsi’: l’animale era pronto a entrare nel palcoscenico.
Un fugace scalpitio, rimbalzante gommoso tra i gradini della breve ma ripida scala, e poi uno sfrigolio metallico di passi frettolosi sulla stradina sottostante gli fecero da apripista. Catturato dalla foga di uscire, in apnea tra mille pensieri e bolle blu (tendenti al rosa: la malinconia stava svaporando), non se ne curò affatto – era poco curioso, piuttosto superficiale e todo modo distratto – e aprì senza fretta, e apparentemente senza frutto, la porta, poco interessato a scoprire chi avesse deflorato la quiete, non solo pomeridiana ma anche domenicale, del residence. Tutt’intorno, verginale, il silenzio.
Sounds of silence. Solo qualche timido, malcelato, clandestino sonoro approccio da parte di sons et lumiéres: un inizio di petting ai fianchi delle ore sul viale del tramonto. La piscina vuota, l’appartamento di fianco altrettanto.
La sua riottosità verso i dettagli – la mente di Lorenzo era più sintetica che analitica – non gl’impedì, tuttavia, di soffermarsi su di un particolare su cui aveva glissato al rientro dal fatale buen ritiro in piscina (non per nonchalance, o perché ‘fatto’ dalla musica ‘suicida’ dei Joy Division – dead men walking sul suo sempre vivo walkman –, ma in quanto il ‘particolare’ era assente: di questo era certo): vergati sulla parete sinistra del pianerottolo, appena sopra al campanello, campeggiavano, dramatically, tre numeri – un vistoso 666 e due più minuscoli 13 e 18.
Questione di attimi: la parete, fattasi improvvisamente concava, occupò tutta la sua visuale e lo circondò. Comprimendolo, quasi soffocandolo nella stretta delle sue spire, bloccando ogni suo tentativo di fuga dal residence.
Frastornato e impedito nei movimenti, la stringente sensazione di un black-out totale – in sincronia col calare a ghigliottina della notte più tetra che la magica Pugnochiuso dai venerei chiarori di luna tra brillii di stelle avesse mai conosciuto – Lorenzo si ‘spense’ anche lui, afflosciandosi devitalizzato sull’esiguo pianerottolo, contraendosi more and more, fino a diventare un puntino nero.
Polvere, pulviscolo, pula al vento…
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