giovedì 3 settembre 2015

CLANDESTINO





CLANDESTINO



Comincio a riscaldarmi, a sentirmi felice. Non è ancora nulla di straordinario, è una piccola felicità di Nausea: si estende sul fondo della pozza vischiosa, sul fondo del nostro tempo – il tempo delle bretelle color malva e delle panche sfondate…
Le parole di Sartre ben si addicono a questo nostro tempo così ‘panchinaro’, in attesa di scendere in campo (campo di battaglia? campo di gioco? campo rom? Per il momento solo roaming…).


Dal roaming al room (la mia stanza al posto del rum l’acqua: c’è tempo per il primitivo e lo zinfandel quello californiano, rosé). E nella stanza, i miei libri: books, booklets, penguin classics, livres de poche, pocket, tascabili, purché libri… (anche ebook: ammazza – amazon che bibliofilo!). 
Li compulso, li slinguo, odoro, sniffo e poi mi ci tuffo. Anche a occhi chiusi. Sono uno junkie, un drogato (di fogli stampati, non di cartine), un book-addicted: ho più d’una scimmia sulla spalla (e mi fanno pure le linguacce).
Domandano tutti come si fa a scrivere un libro: si va vicino a Dio e gli si dice: feconda la mia mente, mettiti nel mio cuore e portami via dagli altri, rapiscimi. (Alda Merini)
D’altronde, un libro che non abbia Dio, o l’assenza di Dio, come protagonista clandestino, è privo d’interesse. (Nicolás Gómez Dávila).
E visto che parlo di clandestini, ecco un mio contributo – l’incipit di un mio romanzo inedito (by the way, prima si parlava più che altro di amori clandestini, nelle canzoni, nella letteratura, nei gossip, ora l’argomento del giorno è l’orrore clandestino – ognuno lo interpreti secondo le proprie categorie di pensiero, ma sempre con amore).
Che questi nuovi clandestini si moltiplichino, crescano nel centro e nelle periferie, facciano rumore…

Ci incontriamo agli angoli delle strade. A coppie, a grappoli, a stringhe sempre meno sottili. Cresciamo all’ombra dei portici, come batteri, morule, embrioni di future miriadi, angeli sparsi in cerca di paradisi possibili.
Siamo le membrane plasmatiche del centro e delle periferie urbane, giunzioni occludenti il vuoto delle menti e delle anime, teurgi plastici in cerca di corpi da rigenerare. Col forcipe dello spirito recidiamo le sbarre dell’anima e liberiamo dai ceppi impazienti i dèmoni dormienti. I nostri e gli altrui.
Senza addomesticarli li mandiamo allo sbaraglio tra i ‘petits bourgeois’ della ‘comédie humaine’ (dèmoni versus demòni: slitta l’accentazione cambia l’eone). Randomizzati vagano impacciati ma indomiti nelle piazze, nelle case, nelle menti, nelle paludi del caravanserraglio globale – dove sbuffa behemot, gingillo degli dèi e trastullo dei titani, e striscia il leviatano, un po’ biscione un po’ caimano.
Bariamo sui numeri (ma nel frattempo cresciamo a dismisura), saltiamo sui corpi, puntiamo sulle anime (e lo spirito? Sotto sale). Ci arrampichiamo sui muri, scivoliamo nei sottotetti, glissiamo sui salotti buoni. Ma verrà anche il loro turno – tour e retour.
E allora, che aspettate? Il turn-over? Tornite e guarnite le tartine al caviale, la pallina sta per fermarsi! Là bas.
Rien va plus. Il gioco si fa duro. E scivoloso. Ma dolce è l’attesa (meno le doglie). Arde il rovo, la voce chiama… “Siate caldi oppure freddi: ma i tiepidi li vomiterò nella Geenna.” Caos calmo, ciechi spasmi, miasmi cosmici: l’universo attende con ansia l’epifania teandrica – non sa cosa vuole, ma vuole qualcosa!
Alta marea: la terracquea arena è lì che aspetta, vociante, torbida, ondeggiante. Bassa marea: nella platitude vacua vaticina torpida la platea (e non è il Vaticano). Ogni tribuna e tribuno è in tiepida attesa di un messia o di una miss (tutto fa brodo – questa la voce del mondo). “Ah, se Erostrato il grande li ghermisse e facesse assaggiare a tutti i tiepidi il caldo estremo che raggela!” (la cultrea voce dal profondo).
E noi? Infine nudi nello spirito, ancora paludati nell’azione, palestrati nell’animo  continuiamo a nasconderci nelle segrete latebre delle lubriche piazze affollate. Per poi sbucare alla Kubrik nelle strade bucate e imbucarci, zampillanti e ludici come eroine zompanti, tra gli zombi nei corridoi sussurranti – riservando ai gorgoglianti portici le nostre residue ore aliene (è lì, nelle gallerie urbane, il nostro brodo di coltura).
Tuareg nel deserto che cresce, effimeri panici al galoppo, ossimorici lunatici grondanti gelide passioni; cammelli sgobbanti, leoni reboanti, fanciulli vocianti investiti da folate di sottile silenzio: questi noi siamo. L’ultimo uomo è appena nato e una donna sta per ucciderlo.