mercoledì 22 dicembre 2010

XMAS ON THE BLOCK

      CHRISTMAS 
           SONG
      maschere incenso e mirra 

Ventuno dicembre, solstizio d’inverno. Ventuno grammi: il peso dell’anima. "... se la psiche è l'anima, e l'anima è il mondo della nostra esperienza, come sostiene Aristotele, essa ci fa paura. Non ne vogliamo troppa o troppe varietà. La vogliamo ridotta a percezione e a immaginazione terrene, niente sogni a colori". (R. D. Laing).
Anima disanimata, parole senz’anima. Questo spesso è lo ‘spirito’ del Natale. Ma il Natale può essere altro, e ‘oltre’: Anche ultra (o ultrà). L’importante è che dietro lo specchio delle parole ci sia un’anima. Meglio, anima e sangue.
Sì, bloody Christmas (anche un po’ blue & green). Natale rosso vitale – anche Babbo Natale si è tinto di rosso: che sotto sotto non sia anche lui un ultrà? Carne e sangue: non solo sangue dei vinti (come in molti siamo tuttora – ‘sconfitti’ all’interno della lotta, o teatro, o cosmo, o caos, dell’esistenza), ma sangue dei vincitori.
Natale al sangue (non ‘esangue’). Sang real. Come quello di Aung San Suu Kyi. In attesa dell’instaurazione (o restaurazione), dopo tanta retorica, del modello di uomo e donna ‘persuasi’ – come direbbe Michelstaedter: la ‘persuasione’ dell’individuo (indiviso) autentico vs la ‘retorica’ dell’(in)dividuo (diviso) inautentico. Il Pensiero ‘diversificato vs il Bispensiero ‘unico’. E last but not least, un Natale eclar, cristico e solare, vs il Natale d’accatto e d’achat.
In sintesi (senza psicanalisi), una modalità di vita ‘vera’, pregna di senso e di valore, vs la falsità, la banalità, la massificazione, il vivere pseudomoderno basato sulla platitude di un sapere e di un vivere inautentico, impersonale, non creativo, come quello della tecnica, del consumismo e del mordi e fuggi su SUV con la protesi-cellulare incollata a orecchie sempre più insordite.
OK. Orecchio, occhio, good vibrations. Toti e Tata. Vi titillo, dopo tante quisquiglie, con due pinzellacchere: una mia, l’altra, più ‘corposa’, tratta per copia e incolla dall’ultimo post di Alessandra Colla, una cui il Natale non si attacca proprio…

Blue in green. Kind of blue. L’atmosfera si fece rosé. Fuori, buio assoluto (la luna dormiva, le stelle erano in libera uscita). A frotte sciamarono dalla discoteca, danzando, cantando, urlando (eppure sembrava s’udisse solo un sottile suono di silenzio). Si sparsero nelle strade, corsero sui muri, scivolarono sui tetti… A piedi, in bici, in moto (le macchine, appiedate). Cristo e l’arte della manutenzione dell’anima.
Tutti furono toccati. Soprattutto, i cuori. L’aria fu tutta impregnata, saturata, ossigenata. Cominciò a piovere. Diluvio universale (per il momento solo un inizio di piovasco estivo. Ma quante nuvole all’orizzonte!). Nessuna sirena nella notte, solo musica e danze. Preparate il vitello grasso (anche solo un’insalatona).
Il cielo s’illuminò. Solo un lampo. Eclar. I lampioni, più luminosi del solito. La luna si affacciò al verone (ma Firenze continuava a dormire). Le stelle si precipitarono sotto di lei (non tutte: Florence sogna e c’era chi sognava con lei. Anche chi flirtava all’ombra dei portici – del cielo).
Pioggia a catinelle. Diana inciampò in un barbone (e le stelle a guardare. Anche la luna, ritrosa). Poco mancò che cadesse (il marciapiede, per di più, era scivoloso). Non si allontanò. Si avvicinò ancor più. Nessuno la trattenne. Volle dargli un po’ d’amore. Ma si limitò a carezzarlo con affetto, carità. S’inginocchiò, lo guardò negli occhi. Pianse. Lui sorrise. I suoi denti erano più bianchi delle perle.

Socchiuse la porta della toilette sbirciando da una parte e dall’altra per assicurarsi di non essere vista da nessuno, e scivolò veloce lungo il corridoio per rientrare nel suo ufficio. Dalla più grande delle sale riunioni arrivava il brusìo festoso del rinfresco offerto dalla direzione, ma lei non vedeva l’ora di immergersi nuovamente nel silenzio della sua stanza, lontano da tutta quell’ipocrisia luccicante che le toccava subire ogni benedetto dicembre. Pazienza per il Capodanno: anche se non ricordava di essersi mai veramente divertita in quelle occasioni di allegria forzata che le mettevano addosso la voglia di scappare. Ma il Natale proprio no. Quello sì che era insopportabile, con le sue troppe luci, i troppi sorrisi, la troppa gentilezza — tutta roba destinata a finire in uno scatolone da portare in cantina e tirar fuori l’anno dopo, alla faccia dei buoni sentimenti.
Finalmente al sicuro dietro la scrivania, contemplò il calendario. Era soltanto il 21: mancavano ancora quattro giorni — lunghi, noiosi e minacciosamente traboccanti di telefonate, messaggi e biglietti d’auguri ai quali le sarebbe toccato rispondere. Qualcuno bussò alla porta, e lei si tuffò dietro il pc per dare l’idea di essere una persona molto impegnata. La porta si aprì lasciando spuntare un paio di teste sorridenti: «Ma come, è ancora qui?!? Le abbiamo portato qualcosina, se proprio non ce la fa a liberarsi e a venire di là con noi…» e una delle segretarie le mise sul tavolo un piatto di stuzzichini e un bicchiere di champagne. Poi scapparono via in un turbinìo di volants e paillettes — un cocktail in ufficio, che occasione di sfoggio…
Si tolse dalla faccia il sorriso di circostanza, e si riadagiò sulla poltrona (ergonomica e lussuosa, servirà pure a qualcosa essere in carriera, no?), sospirando. In realtà di lavoro da fare ne aveva sul serio, e parecchio. Ma in quei giorni prefestivi sembrava che la gente non ci stesse più con la testa, e anche le cose più semplici diventavano inspiegabilmente complicate. Avevano tutti quell’espressione indisponente, come bambini che già avessero combinato una marachella o che ne stessero architettando una, ma grossa grossa… E non c’era angolo in città che non fosse afflitto da qualcosa di scintillante o di rosso o di tintinnante, come se l’unico pensiero fosse — dovesse essere! — per forza quello del Natale col suo strascico di stucchevoli rituali.
Guardò l’ora, e andò ad aprire la porta: il brusìo si era smorzato, e gli uffici lentamente si svuotavano. Richiuse e andò alla finestra: giù in strada tutti sciamavano verso casa, impazienti di dare inizio al lungo ponte festivo. A lei, di andare a casa, non importava poi un granché — non l’aspettava nessuno, neanche un cane o un gatto. Nemmeno una pianta, per la verità: quelle che aveva gliele curava il portinaio, che si premurava di fargliele trovare sul pianerottolo il venerdì sera, con le foglie lustre e ben innaffiate, pronte a fare bella figura nel fine settimana. Non in tutti i fine settimana, naturalmente: perché spesso era fuori casa, in viaggio da sola o con qualcuno.
Se le avessero fatto notare che la sua indipendenza si avviava pericolosamente a far rima con solitudine, si sarebbe messa a ridere. Stava bene così, lei. Diceva. Forse lo pensava davvero: anche se le capitava raramente di pensare a se stessa. Si trattenne ancora un po’ a sistemare le ultime cose, poi chiamò un taxi e scese alla svelta. Ebbe la fortuna di trovare un tassista introverso — o semplicemente appassionato di radio, dal momento che la teneva a un volume troppo alto per fare conversazione. Durante il tragitto, più lungo del consueto a causa del traffico, ebbe modo di farsi una cultura sul solstizio in corso — vero, il 21 dicembre è il solstizio d’inverno, e la mente le si affollò anche di leggende ed equinozi e vaghe reminiscenze di geografia astronomica, tanto che si ritrovò sotto casa senza quasi accorgersene. Pagò il tassista, che ebbe la compiacenza di non augurarle un bel niente, e salì in casa.
La sera la trascorse uguale a mille altre sere, nell’appartamento curatissimo in cui soltanto il calendario denunciava l’avvicendarsi delle stagioni. La mezzanotte giunse veloce, e poi passò; non mancava molto alle due quando si decise ad andare a letto, dopo la routine di libri e film che le tenevano compagnia quando non c’era nessuno con lei, e mentre si preparava per dormire fu attratta da un insolito tremolìo nel cielo stellato che riempiva la finestra: l’aria era gelida e cristallina, e lassù all’undicesimo piano la notte sembrava in qualche modo diversa. Si avvolse in uno scialle e uscì sulla terrazza, guardando il cielo incuriosita come se fosse la prima volta: sul nero implacabile della notte d’inverno le stelle baluginavano incerte, e il fenomeno la sorprese. A un tratto, con la coda dell’occhio, colse un movimento strano, come quando si scorge per caso una stella cadente — siamo a dicembre, che sciocchezza! Ma il movimento strano si ripeté dopo qualche istante, e finalmente riuscì a capire: là dove prima aveva visto una stella, ora c’era soltanto il buio. L’idea le parve così assurda che non riuscì a staccarsi da dov’era, e rimase col naso in su, a contemplare incredula quello che sicuramente doveva avere solo immaginato. Ecco, di nuovo: era sparita un’altra stella. E poi, lentamente, una terza, e poi ancora un’altra e un’altra…
Attonita — no, spaventata — pescò nella tasca della tuta il cellulare (e chi avrebbe chiamato? la polizia? i carabinieri? i vigili del fuoco? a chi si telefona quando sparisce una stella? bisogna fare una denuncia?) e si avvide che ormai erano quasi le tre: e intanto piano piano, lentamente, le stelle sparivano lasciando la notte sempre più buia, e l’alba sembrava così lontana e chissà quando sarebbe sorto il sole a squarciare quelle tenebre… Ma se le stelle si stavano spegnendo, che sarebbe successo al sole? È una stella, no? Si sarebbe spento? Cioè, sarebbe sorto ancora? O era già sparito anche lui? Si accorse che stava battendo i denti, e non soltanto per il freddo; sentiva di avere gli occhi spalancati dal terrore, ormai, e non più dal semplice sforzo di vedere nel buio. Rientrò precipitosamente, mentre il cervello pulsava frenetico alla ricerca di un appiglio razionale che le permettesse di contenere il panico. L’unica cosa a cui riusciva a pensare era “luce”; e d’un tratto le vennero in mente le cose che aveva sentito per radio, e insieme a quelle anche gli echi di vecchi racconti e i ricordi delle serate in famiglia, quando era bambina e le carte da scegliere nel mazzo erano così tante da non poterle contare…
Il cielo s’incupiva sempre più, lentamente ma senza posa, mentre lei rovesciava i cassetti e vuotava le scatole nel ripostiglio, alla ricerca dell’unico rimedio che avrebbe rimesso le cose a posto — forse… Forse?!? Finalmente, dal fondo di un sacchetto di nastri, carte da regalo e cianfrusaglie, emerse una candelina rossa, infiocchettata di verde, con un campanellino d’oro un po’ ammaccato. Reggendola trionfante fra le mani corse in cucina e l’accese sul fornello; poi corse sul terrazzo e la levò alta verso il cielo sempre più nero. Rabbrividiva — e non soltanto per il freddo — mentre ripeteva il gesto antico per scongiurare un terrore altrettanto antico: la fiammella tremolava nella notte, e aveva le mani ghiacciate.
A un tratto, con la coda dell’occhio, percepì qualcosa nelle tenebre che la sovrastavano: volse la testa di scatto ed ecco, là dove c’era il buio, brillava debolmente una stella. Poi, dopo un tempo interminabile, apparve un altro bagliore, e poi pian piano un terzo e un altro ancora, e il cielo non fu più un drappo denso ma un velo scintillante. Ora non sentiva più il freddo, e le labbra gelate le si stirarono in un sorriso spontaneo mentre restava lì, in piedi sul terrazzo, ad aspettare l’aurora. Sarebbe arrivata, lo sapeva; e dopo di lei l’alba e finalmente il sole — un sole tutto nuovo, trionfante nella luce che avrebbe spazzato via quelle ore cupe, rese ancora più buie dalla paura di una notte senza fine. All’orizzonte, il cielo si tinse lentamente di un lilla tenue che sfumava nel lavanda e poi in un rassicurante rosa pesca. L’alba era prossima, e con essa il nuovo sole.
Sbadigliò: era ora di andare a riposare, perché il giorno dopo sarebbe stato pieno di impegni — scrivere auguri e comprare regali e addobbare la casa. Natale è già qui.
P. S. Buon Natale e Buon Anno Nuovo.


mercoledì 15 dicembre 2010

WWW WHAT WOMEN WANT

VENI VIDI VICI
TRE SOMARI E TRE BRIGANTI

    Dall’ultimo post del blog di Gabriele La Porta estraggo questa perla (tale, se non altro, rispetto a certi ‘rifiuti’ e a certe ‘cozze’ di oggi): “Se riusciamo a capire e a sentire che già in questa vita abbiamo un legame con l’infinito, i nostri desideri e i nostri atteggiamenti mutano … Anche nel nostro rapporto con gli altri uomini la questione decisiva è se in essi si manifesti o no un elemento infinito. Il sentimento dell’illimitato, comunque, si può raggiungere solo se siamo definiti al massimo.” (Jung)
Parlare di infinito e illimitato, di “essere definiti al massimo”, rispetto alla finitezza e ai “minimi termini” d’oggi (e a un paio di dipietristi spietrati – o spretati/spietati – e finiane desafinados – stonate, ribelli, ballerine…), sembrerebbe fuori luogo. Specie poi quando, tanto per battere il ferro (Berluska: più ghisa che acciaio) quando è caldo (hot), i tre voti in più (X X X nel senso di censored), alla Totò (con tutti gli annessi e connessi – pinzillacchere incluse – v.  su YouTube Totò l'aveva detto negli Onorevoli: “3 voti sono importanti"), fanno inneggiare i sampietristi (gli ‘antidipietristi’) al “senso della vita”. Che poi questo distacco di tre punti non sia così extralarge lo si scopre more geometrico (nel senso di ‘triangolo’ monco) quando si riflette sul fatto che, in effetti, se solo due dei ‘proditores’ (ma Prodi non c’è più: è rimasta la ‘res’, la ‘cosa’…) avessero votato contro, venendo meno due voti ai Berluscones e aggiungendosene due ai Marluscones, alla fin fine i ‘contras’ (Bocchino e pasdaran rouge et noir) avrebbero vinto per un voto. Come si vede, tra il due (numero ‘imperfetto’: dys – disturbo, disservizio, disgrazia, diabolos…) e il tre (numero perfetto) il passo, scivoloso, è breve.
Quindi, no drama non pain (come canterebbe Mary J. Blidge), i giochi (di potere) sono tutt’altro che fatti. Adda passà ‘a nuttata… E per passare a temi più generali, se proprio si è rimasti turbati (ma non è certo quello del 14 il caso), allora basta cancellare l’’errore’ con un colpo di spugna (o di gomma) e ripartire: una sgommata e via. L’importante, come per ogni progetto, è mantenere il focus (sia fuori, sia dentro – nel senso di ‘fuoco dentro’, ossia entusiasmo: Dio dentro di te). A proposito di “senso della vita”, “massima definizione” e di “riconversione delle emozioni”, ti sverso prima qualche goccia dal mio Che cos'è la PNL. Come vincere ansia, fobie e dipendenze, poi, tanto per rimanere nell’ambito della “scrittura creativa” (e ‘consapevole’), una mia breve esercitazione estemporanea.

LA RICONVERSIONE DELLE EMOZIONI

Come hai ben compreso, innanzitutto devi ‘utilizzare’ l’immaginazione. Puoi guidare la tua mente come se fosse una macchina (ovviamente è molto di più), pilotandola nella direzione da te prescelta e cambiandola quando vuoi. Se vuoi, inserisci il ‘pilota automatico’, che, una volta impostato, ti condurrà allo stato emozionale più funzionale al momento. Ciò detto, superiamo il perché (ti serve per comprendere il meccanismo generatore delle fobie, non per risolverle): come ricorda Bandler, la comprensione non produce il cambiamento. Ma produce ben poco anche il cosiddetto ‘condizionamento operante’, ossia dare un rinforzo positivo per i comportamenti ‘corretti’ e uno negativo per i comportamenti ‘scorretti’: se può andare bene con gli animali, non funziona con l’uomo.
Tu puoi conoscere bene il perché delle tue paure e delle tue dipendenze, puoi darti lo ‘zuccherino’ davanti a un ascensore e una piccola scossa elettrica ogni volta che prendi una sigaretta in mano, ma difficilmente otterrai un risultato. A questo punto meglio un’abbuffata: fuma una decina di sigarette una dietro l’altra...

Esercizio di riconversione delle emozioni 
(da negative a positive)
·      Pensa a una tua credenza limitante o demotivante che t’impedisce di raggiungere il tuo obiettivo (non so parlare in pubblico…). Fa’ un fermo-immagine del tuo film mentale e visualizza un’immagine di quella credenza limitante. Estraine le submodalità visive, auditive e cinestesiche, cercando di sentire dentro di te tutte queste sensazioni di disagio e sconforto.
·      Pensa ora a una credenza potenziante, che ti motivi davvero e che t’infonde energia e sicurezza (voglio avere solo applausi!): fa’ anche qui un fermo-immagine ed estrai le submodalità.
·      Sostituisci ora le submodalità della credenza potenziante a quelle della credenza limitante, ossia ‘copia’ le sensazioni della prima e ‘incollale’ sulla seconda. Fa’ girare tutte queste sensazioni dentro di te, fatti ‘invadere’ da esse…

    Torna ora a pensare alla credenza limitante: ti apparirà del tutto indifferente (non sentirai più alcuna sensazione di disturbo dentro di te). Visualizzati ora nel modo migliore in cui vorresti essere: vivi nel tuo film la vita che vuoi…
·      Abbandonati alla fantasia, alle immagini, ai suoni…  
Visualizzati mentre, come in un videoclip, cavalchi la tua cabrio nera, bordeggiando una spiaggia senza fine: tu occhi ardenti, lei capelli al vento…
E poi di', con intensità: questo è il giorno, sì, ora…
·      Visualizzati poi nella tua condizione attuale… mettila fuori fuoco, fa’ sì che le immagini siano sempre più sfocate e… a passi veloci entra nel film a colori della tua vita desiderata. Corri, corri… finché raggiungi la cabrio nera. E ci entri dentro… E non sei solo! Ora sei un altro!

Fa’ tutto con emozione, illuminando e colorando il tuo film, ingigantendo i particolari e soffermandoti sulle situazioni positive. Ossia, lavorando sulle submodalità dei sistemi rappresentazionali (visivo: luminosità, colore, grandezza; uditivo: velocità, tono, timbro; cinestesico: peso, forma, intensità…). Ormai sai bene che, ogniqualvolta sei in presenza di una memoria intrusiva o di una situazione fobica (un balcone, se soffri di acrofobia, oppure una piazza vuota – agorafobia – o un ascensore, una gallina… c’è chi ne ha paura), si riattiva il percorso neurale attivatosi la prima volta che ti sei trovato in quella situazione per te traumatica. E sai anche bene che per smorzare le sensazioni fisiche devi lavorare su come ti rappresenti mentalmente la situazione ‘fobica’. A tal proposito, una dritta: come per acquietarti fai l’occhiello pollice-indice con la mano destra, per lavorare sulle submodalità (avvicinare le immagini, aumentare la luminosità o i suoni) usa il ‘telecomando’. Fa’ così:
·      passa, strisciando, il pollice sinistro sotto il pollice, l’indice, il medio, l’anulare e il mignolo destro quando vuoi ‘aumentare’; al contrario (l’indice sinistro che tocca il mignolo destro, poi, strisciando, di seguito, anulare, medio, indice) quando vuoi ‘diminuire’.

Fa’ questa ‘strisciata’ mentre visualizzi una situazione con un crescendo di emotività. Poi, per ‘fissarla’ in modo ‘energico’, fa’ il click sinistro (pollice stretto tra indice e medio). Dopo un po’ di prove vedrai che il ‘telecomando’ comincerà a funzionare… Variando d’intensità le modalità percettive, ossia ‘sfumando’ o intensificando i suoni, i colori, le sensazioni… cioè agendo sulle ‘submodalità’ come se usassi il telecomando della televisione, potrai modificare i tuoi stati d’animo, quindi gestire le emozioni. 

INCONTRO AL BUIO
È tardi, la macchina è in panne, ma la casa di Gioia è vicina, in pieno centro.
    Me la faccio a piedi. Me la sbatto di SUV e gipponi – ma indulgo con le cabrio, rigorosamente nere. Del resto, per dirla con la Verasani di Quo vadis, baby? “… dove ci sono le Range Rover non può esserci una gran sete di conoscenza.”
    Il vento fischia sulla pelle. Gocce di pioggia m’imperlano il viso: il nevischio liquefatto dal fuoco interno mi avvampa. Allungo il passo. È la mia prima volta e non posso tardare. L’atmosfera è da romanzo giallo. Tinta di noir. V’intingo la penna dei miei pensieri – quelli dopo l’ultima chat – e riscrivo mentalmente le ultime parole di Gioia: “Ti aspetto a mezzanotte, l’ora giusta per passare dalle parole ai fatti.”
    Uno schizzo da una pozzanghera, un clacson, due voci che battibeccano. Crudo il ritorno alla realtà. Il portico mi inghiotte pietoso, la luna si piega, s’incurva maliziosamente – alla Totò –, cerca d’infilarsi nel passaggio coperto. Vi sbatte la testa (è luna piena), tenta d’illuminarmi, ma non ce n’è bisogno: sono tutto un fuoco.
    “Stanotte allenerò le mie labbra a sorridere e dovrò quindi pensare a lavarmi fino alla morte i denti.” Un pensiero (a) folle alla Piero Ciampi mi assale. Sbando, complice un’altra pozzanghera, ingaggio una breve lotta con le mie fumisterie cerebrali, inciampo ma tiro dritto. Rimetto la mia mente a cuccia e proseguo. Niente facce, niente piedi, solo ombre. Notte d’ambra: una cocotte mi sussurra qualcosa, un transex traballa su tacchi follemente siliconati, ma io glisso su entrambi.
    Scivolo a folle sull’impalpabile velo del pavé, spio tutt’intorno: sono di nuovo solo, tutto il resto è noia. Pioviggina, sono disarmato: un altro portico mi accoglie prodigo nel suo seno, ma io lo titillo solamente. Sarà per la prossima volta.
    Un quarto a mezzanotte. La città è tutta colorata di buio e di fari arancio – ne sento la fragranza. Nient’altro, solo l’aria della notte e l’odore del fumo. E le stelle. Spremo il parapioggia, sotto i portici non serve, tiro su il bavero – l’immancabile giubbotto para… di pelle nera alla Lou Reed – e sfilo via accanto a visi senza faccia.
    Asfalto bagnato. Fischia il vento – e mi gorgoglia il ventre: sono a digiuno. La città mi scivola accanto, sopra, sotto… Ma sento qualcosa d’incombente: c’è qualcosa nell’aria. Lascio il Fight Club dei sogni, allungo ancora il passo, scavalcando il tempo, dondolo ondeggio sbando scivolo. Suoni sincopati e barriti alla Miles Davis mi inseguono, sbucati da chissà dove: mi sento come un ‘miles gloriosus’ nella giungla urbana. Ma sono solo un tassello nel suo patchwork di stoffe e colori, nella jam-session di suoni, parole, fiati, sussurri, bisbigli.
    Tutto il mondo dorme. Respiro a plesso solare aperto, mi ricarico guardando la luna piena e mi disintossico inspirando la polvere delle stelle. “Mugola in lontananza un aspirapolvere.”
    Tre minuti a mezzanotte. Sono in orario. Sbatto contro un tipo. Il ganzo – virante al gonzo – mi guarda, caracolla, scocca la saetta: stecca, il dardo cade afflosciato. Lo guardo, senza riguardo, lo fulmino. Getta la spugna. Si allontana frettolosamente, quasi inciampa su se stesso, sfuma nelle tenebre.
    Mezzanotte. Spremo il citofono (notte da arancia meccanica?). Non ce n’è bisogno, lei è dietro al portone. Me lo apre, con circospetta levità, quasi fosse uno scrigno segreto. Tattoo senza tabù. Le nostre labbra s’incrociano, s’incollano, rimarginano ogni vuoto. Atmosfera da Cantico dei Cantici: Le tue labbra somigliano a un filo scarlatto, la tua bocca è graziosa; le tue gote, dietro il tuo velo, sono come un pezzo di melagrana.
    Entro. Non c’è bisogno di parola d’ordine. In ogni caso, la conosco: Doppio specchio – ma è tanto per giocare. Ma non è sempre un gioco…
   

venerdì 10 dicembre 2010

MASS-MEDIA, MESS & MISS

MASS-MEDIA, MESS & MISS 
Da Emmaus a Mickie Mouse

Ragni (e galline: non solo topi…), vuoto (e ‘pieno’: la folla), buio, altezza (e la minima profondità di un ascensore): questi alcuni degli inneschi delle fobie e degli attacchi di panico. Ma talvolta (o sempre?) tutto scatta nella mente. In ogni caso, siamo qui in presenza della modalità evitamento e fuga: per evitare l’ascensore fai le scale a piedi… basta che tu veda un cane e cambi marciapiede.
Ansia, paura e panico coinvolgono tutta la tua sfera emotiva: ti senti impotente, in quel momento vorresti solo scomparire... Un caso emblematico: da piccolo sei stato morso da un cane e il trauma da fisico si è tramutato in psicologico (cinofobia). L’esperienza traumatica originaria – il morso – è lo ‘stimolo incondizionato’; l’abbaiare del cane, il suo pelo, le sue fattezze (fosse pure un chihuahua), sono gli ‘stimoli condizionati’, quelli che ‘elicitano’ (estraggono) l’ansia come ‘onda lunga’ della burrasca iniziale. E se servono a tenerti lontano da un’eventuale fonte di guai, sono gli stessi che generano la risposta ansiosa, provocandoti gli attacchi di panico situazionale.
Sull’altra sponda, invece della modalità ‘via da’, troviamo il suo opposto: l’attaccamento (il metaprogramma ‘verso’). Se prima “evitavi per non fuggire”, ora “vai disperatamente in cerca”. E sono tante le cose a cui sei attaccato (le dipendenze): tivvù e tivvù, pensieri su pensieri, sigarette e pillole, frigo e dispensa, la bottiglia…
E non finisce qui… “Non riesco a cominciare… m’imballo e non vado più avanti Non ce la faccio… ce la metto tutta ma non riesco a concentrarmi: mi sento disorientato, confuso, demotivato. È tutto uno schifo! Sclero e rinunzio a tutto… Dopo il ‘fobico’ e il ’dipendente’, ecco qui il depresso, lo stressato, l’inconcludente (e lo sfigato).
E poi c’è l’uomo ‘normale’: “aspirato dai suoi pensieri, dai suoi ricordi, dai suoi desideri, dalle sue sensazioni, dalla bistecca che mangia, dalla sigaretta che fuma, dall’amore che fa, dal bel tempo, dalla pioggia, dall’albero vicino, dalla vettura che passa...” Questo è l’uomo ‘robot’ (ne parla Gurdjieff, ma un po’ tutti ne aspiriamo qualcosa…). E che dire dei tanti pseudo-manager fuma-fuma (anche solo mamme o babbi che portano il pargoletto a scuola) che impazzano per le strade sgommando come folli su SUV ingrifati, quasi dovessero correre a chissà quale appuntamento ‘capitale’. Alla fin fine tutti stressati (e non sto parlando dello stress positivo – l’eustress – quello del primo bacio o della discesa su una pista di sci, e sei uno sciatore provetto, ma del distress: quello che ti logora la vita, ti avvelena l’anima e ti può condurre sul baratro).
Insomma, da una parte l’uomo robotico (moscio o agitato), dall’altra l’uomo comatoso. Sì, lo so, certe cose ci sono sempre state (è nella natura dell’uomo: un po’ in cielo un po’ a terra…), ma il tam tam dei mass-media – puoi avere tutto subito (dal fast food al prestito su misura, fino al fast love) e devi essere ‘così’ (tacco dodici o rasoterra, tutta-tette o filiforme, grasso è bello…) – ha creato l’era dell’ansia: un continuo mordi e fuggi alla ricerca di una soddisfazione effimera e un susseguirsi di copia-e-incolla di modelli mass-mediatici belli ma impossibili.
Dall’eccesso d’informazione all’eccesso di attenzione: si è passati dall’epoca delle ‘grandi narrazioni’ a quella del gossip. Basta cliccare e hai tutto in un attimo: qui le ultime news dalla Kamchatka, lì un contatto face to face con il tuo compagno di banco affacciato su Facebook. Ottimo, pure indispensabile, ma con questo volere tutto, poco, maledetto e subito, abbiamo disimparato, non solo a fare i calcoli a mente, ma a sbrogliarcela con le minime difficoltà quotidiane. Un piccolo intoppo e… il mondo ci crolla addosso. Vediamo subito la montagna nella sua immensità: abbiamo perso la capacità di riflettere, fermarci un attimo e scomporre il problema nelle sue componenti più piccole, ognuna facilmente risolvibile, oppure aggirarlo con uno stratagemma. Allora, perché non seguire l’esempio dei cinesi? Se noi vediamo una lunga distanza nella sua interezza (il che ci spaventa), loro, da sempre, sanno che mille miglia cominciano con un solo passo.

Ho tratto questo dal mio Che cos''è la PNL. Come vincere ansia - Sovera Edizioni  in cui parlo di come uscire dall’empasse esistenziale (spero che questo valga anche dal 14 in poi…). Un aggancio: a proposito di empasse, gossip e di quel che sta accadendo in queste ore – un remake, così la “vox populi” (vox dipietri), di Giuda e dei trenta denari (e di Alì Babà e i quaranta ladroni: a buon intenditor…) – nel leggere appena un’oretta fa questa breve considerazione del noto counselor Charlie Fantechi, mi è venuto in mente, come un flash, qualcosa, per l’appunto, di evangelico (non nel senso di Giuda o di Pietro, quello del tradimento – poi però cambiò…): 
“Se il cliente continua a divagare non rispondendo esaurientemente alla nostra domanda o non dichiarando la sua richiesta di aiuto torniamo ripetutamente alla domanda stessa finché il cliente, a volte anche solo per stanchezza, non ci dà una risposta utile. Se la persona ha dei dubbi sul fatto che lo potete aiutare, anticipatelo, dicendo: “Se non sai come posso aiutarti probabilmente non posso farlo… forse hai bisogno di qualcos’altro.” Non rincorrete mai, aspettate e quando il cliente si muove leggermente verso di voi iniziate ad allontanarvi per farvi seguire e per aumentare in lui la motivazione a farsi aiutare.”

Bene, questa è la classica tecnica PNL del ricalco e guida (in questi giorni, c’è quella della ‘calca’ e dei ‘giuda’ – cosa diversa è cambiare opinione). Ma vediamone un esempio antico, quando più che il gossip (che c’è sempre stato: allora erano ‘rumores”…) c’erano le “grandi narrazioni” (un po’ la differenza tra la più banale Historie e la più profonda Geschichte pesco nei miei studi, un po’ freelance, di teologia):
Ed ecco in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio distante circa sette miglia da Gerusalemme, di nome Emmaus, e conversavano di tutto quello che era accaduto. Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro. (…) Quando furon vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano.  Ma essi insistettero: «Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino». Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista. (Dal vangelo di Luca, cap. 24). 

Compreso? (Gesù aveva scoperto la PNL ben prima di Bandler e Grinder…): quindi, in un primo tempo bisogna andare al passo con l’amico (o l’avversario), poi, dopo essersi ‘sintonizzati’ con lui (rapport, empatia) ed essere entrati nel suo mondo (essersi fatto greco col greco, giudeo col giudeo, diceva san Paolo), bisogna fare uno ‘scarto’: allontanarsi un po’ per poterlo fare entrare nel tuo mondo… Non solo, altro insegnamento (non solo buddhista, ma anche cristiano, come si nota dal passo evangelico): Quando l’allievo è pronto il maestro appare. Ma quando incontri di nuovo il maestro uccidilo… (e infatti, “sparisce dalla tua vista” perché sai ormai camminare con le tue gambe – “non sarò la vostra stampella” diceva Nietzsche nel suo Zarathustra).
Ok, visto che l’appetito viene mangiando chioso con il finale (rimosso per mancanza di spazio) del mio predetto libretto di self-help (io l’avrei voluto chiamare Sursum corda. Come slegarsi da ansia, fobie e dipendenze con la PNL, ma tant’è: a caval donato…). È un breve racconto sufi, che ben simboleggia il passaggio dalla schiavitù della ‘fissazione’ al ‘risveglio’ liberatorio.

A Mullah Nasruddin era giunta voce che la moglie lo tradisse. E gli avevano pure indicato il luogo (sotto la grande palma appena fuori città) e l’ora degli incontri clandestini (a mezzanotte in punto). Non sapeva però chi fosse il rivale.
Il pensiero del tradimento e la gelosia lo divoravano giorno dopo giorno. Ormai la sua era diventata una fissazione, una mania… E dal giorno della triste rivelazione aveva cominciato a soffrire anche di fobie e attacchi di panico; per non parlare degli stati d’ansia, della vergogna (erano ormai molti mesi che non frequentava più nessuno per paura dei commenti) e della depressione che lo buttava sempre più giù. Era ridotto a uno straccio…
Un giorno prese il coraggio a due mani e disse fra sé e sé: devo far fuori il mio rivale! Si preparò psicologicamente a puntino, si rimise in sesto, disse in anticipo le preghiere riparatorie, si armò di tutto punto e andò di soppiatto sul luogo deputato, Era quasi mezzanotte, luna piena, nessuno intorno, solo una leggera brezza e il sommesso vocio degli animali notturni…
Salì sulla palma e iniziò ad aspettare. Mezzanotte: niente, mezzanotte e mezza: niente… Ma lui imperterrito, sempre più carico di rabbia e indomito coraggio.
L’una, le due, le tre, l’alba… All’improvviso, il flash: ma io non ho moglie!

venerdì 3 dicembre 2010

WAKA WAKA WIKI WIKI (LEAKS)


WAKA WAKA WIKI WIKI
WHO?





       
“See me… Feel me… Touch me… Heal me… Gazing at you, I get the heat… Following you, I climb the mountain… I get excitement at your feet”. “Guardami, sentimi, toccami, guariscimi… Se ti guardo mi arrovento (le caldane?), seguendoti tocco le vette… sono tutto eccitato (spero nel senso di ‘estasiato’…) ai tuoi piedi”. A chi sono rivolte queste parole? No, non è quello che pensi… Basta con il (o lo?) waka waka di Berluska e il wiki-wiki (leaks). Che quella degli Who (chi? direbbe il berlu-ska in the sky with demons) sia solo l’indicazione di una nuova strada: non più quella del monaco, dello yogi e del fachiro (noi tra incappucciamenti, digiuni e chiodi di ogni genere), ma quella, finalmente, dell’uomo ‘scaltro’ (avveduto: con gli occhi, fisici e psichici, ben aperti). Sì, l’uomo del sogno (le donne da sogno – belle ma addormentate – se l’è pappate tutte il kaimano).
Basta con le lacrime del coccodrillo! We must have a dream! Mancano i sogni. Eppure, siamo fatti della stessa stoffa dei nostri sogni… Rivoltando la frase, potremmo dire – l’ho pescato dal mare magnum del web – che “i nostri sogni sono fatti della nostra stessa stoffa…” Ma io credo che i sogni, oltre a essere una ‘trama’ naturale, ‘tessuta’ per accelerare durante il sonno l’imprinting di alcune abilità apprese durante la veglia (ed è per questo che alcune illuminazioni – anche ‘scoperte’ – si hanno di notte: una notte illuminata a giorno), siano anche, junghianamente e oltre, dei ‘segnali’ indicatori di nuove ‘vie’ da percorrere durante il giorno (il dito che indica il ‘sole’). Non solo, diciamolo pure: i sogni sono delle ‘dritte’ provenienti direttamente dal mondo dello Spirito (comunque lo si voglia intendere: per l’agnostico, anche se non crede nella dimensione autre, conviene comunque agire ‘come se’).
Il sogno è da intendersi, quindi, come messaggio di ‘speranza’. Una speranza ‘reale’ (i sogni possono, repetita iuvant, essere forieri di realtà future: una sorta di viaggio sulla ‘linea del tempo’), nel senso di apertura completa del ‘ventaglio delle chance’: infatti, anche nei momenti più disperati dell'esistenza si guarda al sogno come a qualcosa di ‘sveglio’, da afferrare e tenere ben stretto. Mettiamo le mani dentro al sogno, balziamoci dentro…
A proposito di salti. Un balzo nelle balze del sogno (signum aeternitatis) Il ‘salto in favella’ l’ho tratto da una parte dell’incipit a un mio romanzo in progress (l’altro, già partorito nel mondo ‘astrale’, è in avanzato stato di gravidanza nel mondo dell’editoria. A marzo il parto).

KILLING ME SOFTLY
Uccidimi dolcemente, ma uccidimi… Entra nel rovescio del mio mondo e affonda il tuo cultro lì dove gli altri hanno fallito. Trascrivo febbrilmente i loghia onirici, battendo sul tempo i famelici gargoyle del subconscio, spasmeggianti nevrilmente dalla brama d’ingoiarli nei lenti gorghi amnesici. L’oceano notturno si è ormai contratto in un’anoressica pozzanghera: solo i vortici di alcuni citri d’acqua dolce – i sogni che hanno bucato le porte di corno (quelli che verità li incorona se un mortale li vede) – sono sopravvissuti. V’intingo la mia plume mentale, strappata all’uccello nottaiolo attardatosi a oziare sullo spoglio ramo dell’ultimo ramingo albero della fuggente selva dell’oblio e… fandango.
Because the night belongs to lovers, because the night belongs to lust, because the night belongs to us… È l’alba, la notte è scappata coi suoi amanti, i dardi aurorali scippati alla febica faretra hanno colpito a morte le mie effervescenti passioni ctonie (ma rivivranno allo scoccare della mezzanotte) e i gendarmi del mattino hanno ammanettato le mie voglie corsare (adieu fuitina stellare con Jessica Alba… ogni notte un trip diverso). It’s too late to apologize. Non ho più scuse. Dalla radiosveglia la voce velvet del sempre cool Timbaland mi riporta sulla battigia. It’s too late… Lascio Garden of nights (il Village da dreamer radical-chic – niente di particolarmente osé: solo Muse e qualche strip) e mi butto giù dal letto.
Della notte mi è rimasto solo il sorriso: lentamente passo per l’ultima volta il dito sulle sue labbra di sogno, prima che si assottiglino e sublimino, impalpabili come labili fili evanescenti, al balenare delle prime pallide luminescenze diurne. L’eco narcisa degli ultimi sparsi frammenti onirici cerca invano di raggiungermi, ma ammutolisce spaurita davanti all’alba sorgiva, sfiatando pudica nel lete delle memorie fuggitive. No pain no drama: ho già trascritto le stille essenziali, lascio senza magone le vaghe stelle dell’orsa.
Il telefono squilla (l’ultima, definitiva, rupture al notturno soffitto di cristallo – di lì, rapito, posso mirare l’epifania degli dèi). Squallida cocotte, vattene per la tua strada… io sono fedele al mio computer (e pensare che fino a qualche annetto fa manco me lo filavo…). Lascio a letto i miei clandestini philosophes prêt-à-porter (nouveaux o anciens, tutti mi fanno il filo, ma io mi fermo ai preliminari), snobbo la cornetta – di giorno sono fedele – e vado a tirare. Slash-flash: qualche strisciata di piccì, per tenermi su. Inizia la mia giornata.