CHRISTMAS
SONG
euro assenzio e birra
Non c’è cosa più deprimente dell’appartenere a una
moltitudine nello spazio. Né più esaltante dell’appartenere a una moltitudine
nel tempo. (Gómez Dávila)
Scelgo di vivere per scelta, e non per caso.
Scelgo di fare dei cambiamenti, anziché avere delle scuse.
Scelgo di essere motivato, non manipolato.
Scelgo di essere utile, non usato.
Scelgo l'autostima, non l'autocommiserazione.
Scelgo di eccellere, non di competere.
Scelgo di ascoltare la voce interiore, e non l'opinione casuale della gente. (Eileen Caddy)
Scelgo di fare dei cambiamenti, anziché avere delle scuse.
Scelgo di essere motivato, non manipolato.
Scelgo di essere utile, non usato.
Scelgo l'autostima, non l'autocommiserazione.
Scelgo di eccellere, non di competere.
Scelgo di ascoltare la voce interiore, e non l'opinione casuale della gente. (Eileen Caddy)
Oggi, compleanno dello Spirito fattosi
Uomo, non potevo saltare l’appuntamento col blog: ormai appartengo a una moltitudine nel tempo. Ultimamente le uscite
si sono diradate, ma il 31 gennaio mi sarò liberato di un impegno lavorativo
diventato ormai insopportabile e potrò dedicarmi di nuovo alle mie passioni intellettuali:
riuscirò di nuovo ad ascoltare
la voce interiore, e non l'opinione casuale della gente.
Per oggi un déja vue (déja écrit), ma
ne vale la pena.
Ventuno dicembre,
solstizio d’inverno. Ventuno grammi: il peso dell’anima. "... se la psiche è l'anima, e
l'anima è il mondo della nostra esperienza, come sostiene Aristotele, essa ci
fa paura. Non ne vogliamo troppa o troppe varietà. La vogliamo ridotta a
percezione e a immaginazione terrene, niente sogni a colori". (R. D. Laing).
Anima disanimata,
parole senz’anima. Questo spesso è lo ‘spirito’ del Natale. Ma il Natale può
essere altro, e ‘oltre’: Anche ultra (o ultrà). L’importante è che dietro
lo specchio delle parole ci sia un’anima. Meglio, anima e
sangue.
Sì, bloody Christmas (anche
un po’ blue&green). Natale
rosso vitale – anche Babbo Natale
si è tinto di rosso: che sotto sotto non sia anche lui un ultrà? Carne e
sangue: non solo sangue dei
vinti (come in molti siamo tuttora – ‘sconfitti’ all’interno della lotta, o
teatro, o cosmo, o caos, dell’esistenza), ma sangue dei vincitori.
Natale al sangue (non ‘esangue’). Sang real. Come quello di Aung
San Suu Kyi. In attesa dell’instaurazione (o restaurazione), dopo tanta
retorica, del modello di uomo e donna ‘persuasi’ – come direbbe
Michelstaedter: la ‘persuasione’ dell’individuo (indiviso) autentico vs
la ‘retorica’ dell’(in)dividuo (diviso) inautentico. Il Pensiero
‘diversificato vs il Bispensiero ‘unico’. E last but not
least, un Natale eclar, cristico e solare, vs il Natale
d’accatto e d’achat.
In sintesi (senza
psicanalisi), una modalità di vita ‘vera’, pregna di senso e di valore, vs
la falsità, la banalità, la massificazione, il vivere pseudomoderno
basato sulla platitude di un sapere e di un vivere inautentico,
impersonale, non creativo, come quello della tecnica, del consumismo e del
mordi e fuggi su SUV con la protesi-cellulare incollata a orecchie sempre più
insordite.
OK. Orecchio, occhio, good
vibrations. Toti e Tata. Vi titillo, dopo tante quisquiglie, con due
pinzellacchere: una mia, l’altra, più ‘corposa’, tratta per copia e incolla da
un post di Alessandra Colla, una cui il Natale non si attacca proprio…
Blue in green. Kind of blue. L’atmosfera si fece rosé. Fuori,
buio assoluto (la luna dormiva, le stelle erano in libera uscita). A frotte
sciamarono dalla discoteca, danzando, cantando, urlando (eppure sembrava
s’udisse solo un sottile suono di silenzio). Si sparsero nelle strade, corsero
sui muri, scivolarono sui tetti… A piedi, in bici, in moto (le macchine,
appiedate). Cristo e l’arte della manutenzione dell’anima.
Tutti furono toccati. Soprattutto, i cuori. L’aria fu
tutta impregnata, saturata, ossigenata. Cominciò a piovere. Diluvio
universale (per il momento solo un inizio di piovasco estivo. Ma quante
nuvole all’orizzonte!). Nessuna sirena nella notte, solo musica e danze.
Preparate il vitello grasso (anche solo un’insalatona).
Il cielo s’illuminò. Solo un lampo. Eclar. I
lampioni, più luminosi del solito. La luna si affacciò al verone (ma Firenze
continuava a dormire). Le stelle si precipitarono sotto di lei (non tutte:
Florence sogna e c’era chi sognava con lei. Anche chi flirtava all’ombra dei
portici – del cielo).
Pioggia a catinelle. Diana inciampò in un barbone (e le
stelle a guardare. Anche la luna, ritrosa). Poco mancò che cadesse (il
marciapiede, per di più, era scivoloso). Non si allontanò. Si avvicinò ancor
più. Nessuno la trattenne. Volle dargli un po’ d’amore. Ma si limitò a
carezzarlo con affetto, carità. S’inginocchiò, lo guardò negli occhi.
Pianse. Lui sorrise. I suoi denti erano più bianchi delle perle.
Socchiuse la porta della toilette sbirciando da una parte e
dall’altra per assicurarsi di non essere vista da nessuno, e scivolò veloce
lungo il corridoio per rientrare nel suo ufficio. Dalla più grande delle sale
riunioni arrivava il brusìo festoso del rinfresco offerto dalla direzione, ma
lei non vedeva l’ora di immergersi nuovamente nel silenzio della sua stanza,
lontano da tutta quell’ipocrisia luccicante che le toccava subire ogni
benedetto dicembre. Pazienza per il Capodanno: anche se non ricordava di
essersi mai veramente divertita in quelle occasioni di allegria forzata che le
mettevano addosso la voglia di scappare. Ma il Natale proprio no. Quello sì che
era insopportabile, con le sue troppe luci, i troppi sorrisi, la troppa
gentilezza — tutta roba destinata a finire in uno scatolone da portare in
cantina e tirar fuori l’anno dopo, alla faccia dei buoni sentimenti.
Finalmente al sicuro dietro la scrivania, contemplò il
calendario. Era soltanto il 21: mancavano ancora quattro giorni — lunghi,
noiosi e minacciosamente traboccanti di telefonate, messaggi e biglietti
d’auguri ai quali le sarebbe toccato rispondere. Qualcuno bussò alla porta, e
lei si tuffò dietro il pc per dare l’idea di essere una persona molto
impegnata. La porta si aprì lasciando spuntare un paio di teste sorridenti: «Ma
come, è ancora qui?!? Le abbiamo portato qualcosina, se proprio non ce la fa a
liberarsi e a venire di là con noi…» e una delle segretarie le mise sul
tavolo un piatto di stuzzichini e un bicchiere di champagne. Poi scapparono via
in un turbinìo di volants e paillettes — un cocktail in ufficio, che occasione
di sfoggio…
Si tolse dalla faccia il sorriso di circostanza, e si riadagiò
sulla poltrona (ergonomica e lussuosa, servirà pure a qualcosa essere in
carriera, no?), sospirando. In realtà di lavoro da fare ne aveva sul serio, e
parecchio. Ma in quei giorni prefestivi sembrava che la gente non ci stesse più
con la testa, e anche le cose più semplici diventavano inspiegabilmente
complicate. Avevano tutti quell’espressione indisponente, come bambini che già
avessero combinato una marachella o che ne stessero architettando una, ma
grossa grossa… E non c’era angolo in città che non fosse afflitto da qualcosa
di scintillante o di rosso o di tintinnante, come se l’unico pensiero fosse —
dovesse essere! — per forza quello del Natale col suo strascico di stucchevoli
rituali.
Guardò l’ora, e andò ad aprire la porta: il brusìo si era
smorzato, e gli uffici lentamente si svuotavano. Richiuse e andò alla finestra:
giù in strada tutti sciamavano verso casa, impazienti di dare inizio al lungo
ponte festivo. A lei, di andare a casa, non importava poi un granché — non
l’aspettava nessuno, neanche un cane o un gatto. Nemmeno una pianta, per la
verità: quelle che aveva gliele curava il portinaio, che si premurava di
fargliele trovare sul pianerottolo il venerdì sera, con le foglie lustre e ben
innaffiate, pronte a fare bella figura nel fine settimana. Non in tutti i fine
settimana, naturalmente: perché spesso era fuori casa, in viaggio da sola o con
qualcuno.
Se le avessero fatto notare che la sua indipendenza si avviava
pericolosamente a far rima con solitudine, si sarebbe messa a ridere. Stava
bene così, lei. Diceva. Forse lo pensava davvero: anche se le capitava
raramente di pensare a se stessa. Si trattenne ancora un po’ a sistemare le
ultime cose, poi chiamò un taxi e scese alla svelta. Ebbe la fortuna di trovare
un tassista introverso — o semplicemente appassionato di radio, dal momento che
la teneva a un volume troppo alto per fare conversazione. Durante il tragitto,
più lungo del consueto a causa del traffico, ebbe modo di farsi una cultura sul
solstizio in corso — vero, il 21 dicembre è il solstizio d’inverno, e la
mente le si affollò anche di leggende ed equinozi e vaghe reminiscenze di
geografia astronomica, tanto che si ritrovò sotto casa senza quasi
accorgersene. Pagò il tassista, che ebbe la compiacenza di non augurarle un bel
niente, e salì in casa.
La sera la trascorse uguale a mille altre sere,
nell’appartamento curatissimo in cui soltanto il calendario denunciava
l’avvicendarsi delle stagioni. La mezzanotte giunse veloce, e poi passò; non
mancava molto alle due quando si decise ad andare a letto, dopo la routine di
libri e film che le tenevano compagnia quando non c’era nessuno con lei, e
mentre si preparava per dormire fu attratta da un insolito tremolìo nel cielo
stellato che riempiva la finestra: l’aria era gelida e cristallina, e lassù
all’undicesimo piano la notte sembrava in qualche modo diversa. Si avvolse in
uno scialle e uscì sulla terrazza, guardando il cielo incuriosita come se fosse
la prima volta: sul nero implacabile della notte d’inverno le stelle
baluginavano incerte, e il fenomeno la sorprese. A un tratto, con la coda
dell’occhio, colse un movimento strano, come quando si scorge per caso una
stella cadente — siamo a dicembre, che sciocchezza! Ma il movimento strano
si ripeté dopo qualche istante, e finalmente riuscì a capire: là dove prima
aveva visto una stella, ora c’era soltanto il buio. L’idea le parve così
assurda che non riuscì a staccarsi da dov’era, e rimase col naso in su, a
contemplare incredula quello che sicuramente doveva avere solo immaginato.
Ecco, di nuovo: era sparita un’altra stella. E poi, lentamente, una terza, e
poi ancora un’altra e un’altra…
Attonita — no, spaventata — pescò nella tasca della tuta
il cellulare (e chi avrebbe chiamato? la polizia? i carabinieri? i vigili del
fuoco? a chi si telefona quando sparisce una stella? bisogna fare una
denuncia?) e si avvide che ormai erano quasi le tre: e intanto piano piano,
lentamente, le stelle sparivano lasciando la notte sempre più buia, e l’alba
sembrava così lontana e chissà quando sarebbe sorto il sole a squarciare quelle
tenebre… Ma se le stelle si stavano spegnendo, che sarebbe successo al sole? È
una stella, no? Si sarebbe spento? Cioè, sarebbe sorto ancora? O era già
sparito anche lui? Si accorse che stava battendo i denti, e non soltanto
per il freddo; sentiva di avere gli occhi spalancati dal terrore, ormai, e non
più dal semplice sforzo di vedere nel buio. Rientrò precipitosamente, mentre il
cervello pulsava frenetico alla ricerca di un appiglio razionale che le
permettesse di contenere il panico. L’unica cosa a cui riusciva a pensare era
“luce”; e d’un tratto le vennero in mente le cose che aveva sentito per radio,
e insieme a quelle anche gli echi di vecchi racconti e i ricordi delle serate
in famiglia, quando era bambina e le carte da scegliere nel mazzo erano così
tante da non poterle contare…
Il cielo s’incupiva sempre più, lentamente ma senza posa, mentre
lei rovesciava i cassetti e vuotava le scatole nel ripostiglio, alla ricerca dell’unico
rimedio che avrebbe rimesso le cose a posto — forse… Forse?!? Finalmente,
dal fondo di un sacchetto di nastri, carte da regalo e cianfrusaglie, emerse
una candelina rossa, infiocchettata di verde, con un campanellino d’oro un po’
ammaccato. Reggendola trionfante fra le mani corse in cucina e l’accese sul
fornello; poi corse sul terrazzo e la levò alta verso il cielo sempre più nero.
Rabbrividiva — e non soltanto per il freddo — mentre ripeteva il gesto antico
per scongiurare un terrore altrettanto antico: la fiammella tremolava nella
notte, e aveva le mani ghiacciate.
A un tratto, con la coda dell’occhio, percepì qualcosa nelle
tenebre che la sovrastavano: volse la testa di scatto ed ecco, là dove c’era il
buio, brillava debolmente una stella. Poi, dopo un tempo interminabile, apparve
un altro bagliore, e poi pian piano un terzo e un altro ancora, e il cielo non
fu più un drappo denso ma un velo scintillante. Ora non sentiva più il freddo,
e le labbra gelate le si stirarono in un sorriso spontaneo mentre restava lì,
in piedi sul terrazzo, ad aspettare l’aurora. Sarebbe arrivata, lo sapeva; e
dopo di lei l’alba e finalmente il sole — un sole tutto nuovo, trionfante nella
luce che avrebbe spazzato via quelle ore cupe, rese ancora più buie dalla paura
di una notte senza fine. All’orizzonte, il cielo si tinse lentamente di un
lilla tenue che sfumava nel lavanda e poi in un rassicurante rosa pesca. L’alba
era prossima, e con essa il nuovo sole.
Sbadigliò: era ora di andare a riposare, perché il giorno dopo
sarebbe stato pieno di impegni — scrivere auguri e comprare regali e addobbare
la casa. Natale è già qui.
P. S. Buon Natale e Buon Anno Nuovo.
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