GOCCE DI PIOGGIA A JERICOACOARA
Oggi, in un momento di relax estivo, niente di meglio di una spiaggia
brasiliana: Jericoacoara, tra le più belle del mondo (ma anche dalle mie parti non si scherza…).
E per stare sul pezzo, ecco il primo capitolo del mio romanzo “premiato” Gocce di pioggia a Jericoacoara. Ovviamente, un romanzo a tutto sole (le piogge, più che altro, sono di benedizione. Anche se il romanzo ha più di cinquanta sfumature…).
E per stare sul pezzo, ecco il primo capitolo del mio romanzo “premiato” Gocce di pioggia a Jericoacoara. Ovviamente, un romanzo a tutto sole (le piogge, più che altro, sono di benedizione. Anche se il romanzo ha più di cinquanta sfumature…).
L’INCONTRO
È dolce la stagione della raccolta, quando
il
guardiano è lontano.
Plutarco
1
«Ma quanto sei
strana!»
Il bronzeo addetto alla piscina irruppe da
chissà quale anfratto, fiondandosi tra le sdraio e gli ombrelloni strapazzati
dalla pioggia con la sfrontatezza di chi vuol battere sul tempo un sole
paonazzo e pieno di voglie tanto improvvise quanto prevedibili.
Poi il bay-watch prestato alla terraferma
cambiò di colpo marcia e, ciondolando – caracollando – tra le pozzanghere,
guadagnò il bordo-vasca col piglio di chi getta l’amo per adescare uno squalo.
L’occhio umido (non solo di pioggia) prese
a dardeggiare il fluttuante contorno sinuoso che dava un senso all’asettico
rettangolo d’acqua, col fermo proposito di colpire il bersaglio mobile al primo
colpo.
«Solo la pioggia o la luna riescono a fare
il miracolo. Solo loro riescono a farti tuffare...»
Offuscando le parole-esca e mettendo a
tacere gli ultimi vagiti meteo, il sorriso (invocato) di lei fece capolino tra
le increspature e il cloro, complice e promettente. Nessun indizio, niente che
facesse preludere all’epilogo politicamente scorretto. Non la gimcana di
labbra sulla pelle che il bagnino aveva messo in conto tra i sogni nel cassetto
(insieme a qualche tuffo con la bella naiade), ma solo una risposta da brivido
blu:
«Ho il cuore pieno di ceneri e di scorza
di limone. Andrò solo dentro me stessa. Mi troverai sempre là...»
Scagliato il dardo al curaro sul san
Sebastiano di turno (il bagnino), paga dell’effetto sorpresa, la bionda ondina
riguadagnò il bordo-piscina. Salì come da videoclip la scaletta cromata,
schioccò un solare ‘ciao!’ da trailer al gallo cedrone dall’ala spezzata
e, sfioratane l’epidermide bronzea (di colpo sbiancata), gli lasciò – sapore di
sale – il chimerico assaggio di quel suo tatuaggio sfarfalleggiante sulla pelle
bagnata.
Gaia era fatta così: non solo tattoo ma
anche taboo. Una vita esaltata da brevi ma intensi deliri, la magia di
lunghi silenzi bruscamente interrotti da taglienti ossimori, paradossi, voli
pindarici, esternazioni frappant. E se qualcuno (non pochi) sostava,
rapito, davanti a quest’opera d’arte (e non da tre soldi...) – un taglio
di Fontana sulla tela bianca della vita – veniva immancabilmente colpito da
un’inattesa sindrome di Stendhal.
Gaia
o dell’avventura dell’esistenza, un ossimoro vivente più che un
paradosso. Tutto questo si sarebbe potuto dire – a posteriori – di Gaia
(anche il nome). Ma ormai il fugace biondo oggetto del desiderio era fuori
campo e a Lorenzo – il terzo silenzioso incomodo (convitato di pietra, nel
vero senso del termine) – non rimase che rituffarsi nelle pagine appena lambite
da una di quelle piogge lampo settembrine che il Gargano riservava ai suoi
ultimi ospiti.
Il turbine (anche sensoriale) era ormai passato, senza lasciare
– così il buon Lorenzo pensava – tracce: lui di Gaia conosceva – e
gl’importava – solo la Scienza…
Al riparo, raccogliticcio, di uno dei pochi ombrelloni rimasti
aperti, l’unico ‘abitato’, Lorenzo riprese la lettura, subito abortita: a
braccetto col sole, ritornato master
& commander del cielo, come un hobbit da pagina sei sbucò,
impertinente, l’ossimoro, questo ‘carneade’ apparentemente fuori luogo
in quel villaggio-vacanze così poco manzoniano (e neppure tanto tolkieniano).
Queste paginette sfiorate dal pianto
celeste erano la sua ultima conquista (libresca) – il tempo degli amori per Il
Signore degli Anelli sembrava appartenere a un altro eone – e a Lorenzo non
sembrò affatto un caso che il buon Raimon Panikkar – il teologo di frontiera
(non solo Paul Tillich) cui stava facendo il filo tra un tuffo e l’altro –
esordisse con quello strano termine, così calzante nell’occasione, per la bella
del villaggio.
Sì, ossimoro, oxymoron, questo stravagante
matrimonio tra la bella oxys (affilata, appuntita e penetrante) e la
bestia moros (ottusa, senza punta, molle, sciocca, folle...). Armonia
fra i contrari, coincidenza degli opposti. Palintropia,
concordia discors, polemos eracliteo, processo e stasi. In attesa della palingenesi.
E tale, almeno da quel fugace mix di
figura, situazione ed insinuante esternazione, gli era subito parsa la ragazza:
affilata-spuntita nella sua follia penetrante, un punteruolo nella stupidità
altrui. Insomma, la punta che perfora ciò che è molle…
In quel momento Lorenzo comprese anche
come fosse facile passare da L’esperienza di Dio (il libro dell’ossimoro)
all’esperienza di Gaia (dall’esperienza del cielo a quella della
terra...). E così, rapito da questi volteggi della fantasia, ormai solo sul
campo – il prato più o meno all’inglese che delimitava la piscina – e sospinto
da chissà quale daimon, non trovò di meglio che tuffarsi nell’acqua
solitaria ma ancora pulsante di vita: se al bagnino – ormai svanito nel
nulla – la ragazza aveva prodotto l’effetto di uno shock termico, per lui,
semplice e involontario spettatore del duetto, fu invece una salutare botta di
vita (fosse stato Tinto Brass, sarebbe subito passato alla ‘botta
d’allegria’…).
Anestetizzato da questa sua sobria
ebbrezza – l’ossimoro qui è d’obbligo – Lorenzo cominciò a nuotare, ora a stile
libero, ora a rana, addirittura a farfalla, se non proprio a delfino (memore
del luogo), incurante dell’acqua gelida, indifferente.
Bracciata dopo bracciata, il suo corpo da
algido (soprattutto nei sentimenti) prese a intiepidirsi, sciogliersi,
rigenerarsi, mentre, accompagnati da ribollii e sfrigolii, risalivano a galla i
sedimenti della misteriosa presenza di Gaia e l’eco delle sue parole sibilline.
Così incomprensibili e disarmanti per il bagnino, ma così significative e
pregnanti per lui: che c’entrava quel barbaglio di contro-cultura nella
Pugnochiuso delle vacanze politically correct? Che ci azzeccava?
Chi era quella ragazza così out? Una neo-esistenzialista post-histoire
in vacanza single? Cascami di New Age tra barlumi di Next Age? Scampoli del
Grande Fratello? Una velina in uscita libera? Una sciampista, una stagista, una
staffista? Una veltroniana free-lance? Il cervello di Lorenzo fumava nell’acqua
diaccia…
Fatto è che le sue ‘vasche’ furono più
piacevoli del solito. Rilassanti, da training autogeno, quasi ipnotiche. Da ipnosi
regressiva: ripercorse a grandi balzi la sua varia quotidianità, dai picchi
(rari) delle esperienze delle vette – era da poco scivolato giù dalla ‘piramide’ di Maslow – alle
depressioni (varie) della banalità del suo Sitz im Leben, il suo
ambiente vitale.
Come un film a ritroso – di quelli che si
dice veda chi è in punto di morte, quando la corda d’argento sta per
essere tranciata –, davanti a lui cominciarono a scorrere veloci i fotogrammi
delle tappe più significative della sua vita (e lui non era nel cast… la riflessione di Woody Allen gli calzava a
pennello – ma c’era un buco nei pedalini di Lorenzo…).
E così, tra un flash-back e l’altro,
cominciò a togliersi le scaglie di dosso: in fin dei conti, non era poi tanto
meno stravagante della sfarfalleggiante fanciulla! È vero, il ruolo sociale, i
condizionamenti ambientali e i chiaroscuri del carattere ne avevano spesso
frenato la libera espressione, ne ostruivano il libero sgorgare, ma non
amava forse, anch’egli (alla faccia dei suoi invisibili ‘cinquanta’), il bagno
sotto la pioggia? Non gigzagava, anche lui – malgré gli anta (ma
solo quando i cascami di tempo libero glielo consentivano) –, tra Mtv e zingarate?
In ogni caso – e qui le sue bracciate
cominciarono a perdere colpi –, più della ragassa in sé (che pur valeva
una messa), ciò che intrigava il nostro era la sua personalità essenziale,
messa a nudo da quell’esternazione fuori dal coro della banalità
quotidiana. Un coming out (o un outing? – in fondo era stato il
bagnino a ‘costringerla’ a rivelarsi) davvero inaspettato quello
dell’ospite (non certo scema) del villaggio (Lorenzo, essendone un
habitué, si riteneva quasi il padrone di casa).
E poi... quell’uscita di scena, cui
difficilmente avrebbe fatto seguito un secondo atto. Conclusione: la ragazza
era piuttosto in alto nelle sfere…
Sì, la frase... Un lampo tra gli emisferi cerebrali (il fulmine
lampeggiante della creazione: Madonna…
come gli piaceva questa frase puro
stile ‘Qabbalah’!) e
l’appartamento vuoto s’illuminò, riempiendosi di presenza.
Lorenzo era rientrato da pochi minuti nel
residence – così sprofondato nei suoi pensieri da lasciare intonse le persiane,
malgrado il saloncino-cucinino reclamasse impaziente un po’ di luce – ed
eccolo, all’improvviso, assalito, quasi scaraventato a terra, dalla certezza di
poter trovare la fonte delle arcane parole della ragazza. E di quella sua stimmung
così intrigante, di quell’atmosfera così rarefatta. Ma che radeva il
suolo.
Atterrato, non senza qualche scossone, sul
letto, iniziò, guidato da mano invisibile (e dalla provvidenziale lampada sul
comodino), a scartabellare fremente i libri (non c’erano solo Panikkar e
Maslow, anema e core) che
accompagnavano pazienti le sue ore monastiche nel villaggio-vacanza – Lorenzo si
trovava da solo, né era in cerca di compagnia –, puntando infine diritto su un
libricino nero, un po’ sgualcito e dall’aria démodé.
Si soffermò ancora una volta – era da
trent’anni che lo faceva – sulla copertina ‘vissuta’, retrò nel design ma dal
messaggio ancora attuale. La scritta – La politica dell’esperienza – campeggiava
in giallo su un fondo nero costellato da immagini smozzicate: mani, braccia,
gambe, piedi, un occhio, un orecchio, un ventre... (l’assemblaggio, seppur
sessantottino, occhieggiava a Hieronymus Bosch). E poi, scorrendo all’impazzata
la densa copertina, quasi come sottotitolo: “Esiste per caso qualcosa come
un uomo normale? Imparate a conoscere la vostra pazzia, le vostre nevrosi, e le
camicie di forza che la società v’impone!”
E non era finito… Ancora: “Noi che
siamo ancora vivi per metà e abitiamo nel cuore alterato di un capitalismo
decrepito, possiamo fare di meglio che riflettere lo sfacelo che è fuori e
dentro di noi, e che cantare le nostre tristi canzoni di sconfitta?”
Ne era ormai certo (lo sentiva nello
spirito, la ‘cantaride’ dell’anima): lo sconosciuto oggetto del desiderio non
poteva aver attinto che dal libretto underground di Ronald D. Laing – strizzacervelli fuori rotta – che
portava sempre con sé, quasi un Così parlò Zarathustra da viaggio (per
lo spirito, e non solo, ci pensava la Bibbia pocket); ma anche, più
prosaicamente, un vademecum di frasi a effetto da snocciolare in circoli
radical-chic e dintorni (lui era un po’ à
la page un po’ vintage, mai retrò).
E così, dopo un attimo di sospensione, un
tentativo di retromarcia, scavalcate le prime pagine del ‘breviario’, che
conosceva ormai a memoria, imboccò a tavoletta la scorciatoia verso l’epilogo,
lì dove i dialoghi da épater le bourgeois si facevano più frequenti e
intensi. Tra un “Cristo mi perdona se Lo crocifiggo?” e “nel mio
vagabondare d’un tratto m’imbattei in una delle mie molte fanciullezze
conservate nell’oblio, per questo momento in cui più ce n’era bisogno”, finalmente
si scontrò, a pagina 188, con la frase fatidica. Crash, ecco dove
l’aveva scovata, la scippatrice radical-chic!
Fatta chiarezza dentro di sé,
momentaneamente soddisfatto, rabbonito, placato, Lorenzo si sentì blandire
dalla voglia di abbandonare il campo di battaglia e andarsene in giro per il
villaggio. Il luogo meritava, la carne reclamava, lo spirito scalpitava.
Aveva smesso di piovere da un paio d’ore;
lame di luce tagliavano, tra i residui delle pozzanghere, le aree pavimentate
sottostanti alla terrazza, sfrigolii e luccichii s’insinuavano tra l’erba
bagnata.
Affacciatosi con aria imbambolata – aveva
finalmente aperto le persiane –, intorpidito dalla mancata, consueta, siesta
pomeridiana, d’incanto i sensi rattrappiti si sciolsero, cosa per lui
inconsueta, davanti al panorama, che pur frequentava da oltre un decennio. Il
prato, la piscina, i cespugli, il mare, il cielo, ogni cosa gli parve nuova,
viva, vivace.
Ancora a torso nudo e costume al cloro,
risparmiato dai morsi della fame (mangiava solo per sfizio o dovere sociale,
pur non disdegnando le abbuffate conviviali), ricaricatosi e rivivificatosi Lorenzo
si fiondò di colpo verso la porta, quasi alla ricerca di un qualcosa
d’indefinito che riuscisse a lenire quel suo bisogno interiore. L’ineffabile
voleva esprimersi, la sua dynamis interiore
premeva con insistenza sulla ‘corazza’, chiedendo solo di sprigionarsi: l’animale era pronto a entrare nel
palcoscenico.
Un fugace scalpitio, rimbalzante gommoso
tra i gradini della breve ma ripida scala, e poi uno sfrigolio metallico di
passi frettolosi sulla stradina sottostante gli fecero da apripista. Catturato
dalla foga di uscire, in apnea tra mille pensieri e bolle blu (tendenti al
rosa: la malinconia stava svaporando), non se ne curò affatto – era poco
curioso, piuttosto superficiale e todo
modo distratto – e aprì senza fretta, e apparentemente senza frutto, la
porta, poco interessato a scoprire chi avesse deflorato la quiete, non solo
pomeridiana ma anche domenicale, del residence. Tutt’intorno, verginale, il
silenzio.
Sounds
of silence. Solo qualche timido, malcelato, clandestino sonoro approccio da
parte di sons et lumiéres: un inizio di petting ai fianchi delle ore sul
viale del tramonto. La piscina vuota, l’appartamento di fianco altrettanto.
La sua riottosità verso i dettagli – la
mente di Lorenzo era più sintetica che analitica – non gl’impedì, tuttavia, di soffermarsi
su di un particolare su cui aveva glissato al rientro dal fatale buen ritiro
in piscina (non per nonchalance, o perché ‘fatto’ dalla musica ‘suicida’
dei Joy Division, dead men walking sul
suo sempre vivo walkman, ma in quanto assente: di questo era certo): vergati
sulla parete (di) sinistra del pianerottolo, appena sopra al campanello,
campeggiavano, dramatically, tre numeri – un vistoso 666 e due
più minuscoli 13 e 18.
Questione di attimi: la parete, fattasi
improvvisamente concava, occupò tutta la sua visuale e lo circondò.
Comprimendolo, quasi soffocandolo nella stretta delle sue spire, bloccando ogni
suo tentativo di fuga dal residence.
Frastornato e impedito nei movimenti, la
stringente sensazione di un black-out totale – in sincronia col calare a
ghigliottina della notte più tetra che la magica Pugnochiuso dai venerei
chiarori di luna tra brillii di stelle avesse mai conosciuto – Lorenzo si
‘spense’ anche lui, afflosciandosi devitalizzato sull’esiguo pianerottolo,
contraendosi more and more, fino a
diventare un puntino nero.
Polvere, pulviscolo, pula al vento…
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