QUO VADIS, BABY?
Ci incontriamo a casa di Gaia, la sua amica. Me la faccio a piedi. Me la sbatto di SUV e gipponi (ma indulgo con le cabrio: la cabrio, rigorosamente nera, avendo Galatea bandito lo stuffoso SUV, fosse pure black – il libro parla chiaro). Del resto, è noto che “… dove ci sono le Range Rover non può esserci una gran sete di conoscenza” (ancor prima di me, la Grazia Verasani ‘noir’ di ‘Quo vadis, baby?’).
“Se il fischiare del vento non potrai sentirlo tu, tu puoi cantare vittoria, puoi raccontare una storia… non scritta da noi.” Dimentico gli insegnamenti zen (e noir) e, eroe solitario, allungo il passo (sono al bivio – mi guardo a destra. Ci sarà pure qualcuno…). È la mia prima volta e non posso tardare. Tradirla? Jamais. (il gallo è lento a cantare).
Atmosfera da romanzo giallo. Tinta di noir. V’intingo la mia plume mentale (ogni occasione è buona per prendere appunti – il mio block-notes non è mai bianco). Il portico mi inghiotte pietoso, la luna si piega, s’incurva maliziosamente – alla Totò –, cerca d’infilarsi nel passaggio coperto, vi sbatte la testa (è luna piena): tenta d’illuminarmi, malgré tout.
“Stanotte allenerò le mie labbra a sorridere e dovrò quindi pensare a lavarmi fino alla morte i denti.” Un pensiero (a) folle alla Piero Ciampi mi assale, un po’ gorgeous un po’ gargoyle. Gorgheggio in silenzio, ingaggio una breve lotta con le mie fumisterie cerebrali, inciampo ma tiro dritto.
Dove stai andando? Rimetto la mia mente a cuccia e proseguo. Niente facce, niente piedi, solo ombre. Notte d’ambra: una cocotte mi sussurra qualcosa, un transex traballa su tacchi follemente siliconati, ma io glisso su entrambi.
Scivolo a folle sull’impalpabile velo del pavé, spio tutt’intorno: sono di nuovo solo, tutto il resto è noia (la naia non c’è più: rimane la paranoia, ma non mi fa più paura – ho l’ombrello). Pioviggina, sono disarmato: un altro portico mi accoglie prodigo nel suo seno, ma io lo titillo solamente. Sarà per la prossima volta.
La città si colora di buio e di fari arancio (ne sento la fragranza). Nient’altro, solo l’aria della notte e l’odore del fumo e le stelle. Spremo il paraplouie (sotto i portici di Borgo Stretto non serve), tiro su il bavero – l’immancabile giubbotto para… di pelle nera alla Lou Reed (Lou? Il nome comincia a ‘bollire’), gasato SanBabila-style (tanto per colorare di nero il rosso ’68 – …un po’ fiumano lo era. E io? Un lattante), e sfilo via accanto a visi senza faccia (e dalle orecchie piccole). Ma sento anche vibrazioni affini: ci sono ancora tracce di vita su questo pianeta! E il sangue dei martiri germinerà nuovi eroi (chissà…).
Asfalto bagnato. Fischia il vento (e mi gorgoglia il ventre: sono a digiuno). La città mi scivola accanto, sopra, sotto… Ma sento qualcosa d’incombente, c’è something new in the air… una sorta di fighting stimmung. Devo aderire al mio fatum, accoglierlo (sia pure in posizione fetale – il kamasutra è per il momento in stand-by). Sarò un macho fatal, ma ogni tanto bussa la femme.
La vie en rouge (vue de droite). Lascio il club dei sogni, allungo ancora il passo scavalcando il tempo (è giunto il mio kairòs), dondolo ondeggio sbando scivolo (è una cover: mi piace assaggiare le ciliegine); poi lei, la tigre che divora, mi raggiunge e procediamo affiancati: la casa ‘deputata’ è vicina, inutile sprecare energie.
Suoni sincopati e barriti alla Miles Davis mi inseguono, sbucati da chissà dove: mi sento come un ‘miles gloriosus’ nella giungla urbana. Me ne faccio una ragione: nel patchwork di stoffe e colori, nella jam-session di suoni, parole, flatus vocis, qualche gemma pure ci sarà.
Tutto il mondo dorme. Respiro a plesso solare aperto, mi ricarico guardando la luna piena e mi disintossico inspirando la polvere delle stelle. “Mugola in lontananza un aspirapolvere.”
Tratto dall'inedito Nietzche: sneakers o tacchi a spillo?
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