venerdì 20 maggio 2022

GIOBBE E IL COVID. LA CURA

GIOBBE E IL COVID

LA CURA

Giobbe e il covid. Paragone azzardato, direte: fuori tempo, fuori luogo, fuori contesto.

Non poi tanto, anzi… Nonostante il salto temporale, di millenni, entrambi, Giobbe e il covid (la covid-19, per i più pignoli), sono “tipi” – l’uno umano, troppo umano, l’altro astratto, ma dagli effetti, ahimè, concreti – che si rincorrono nel tempo. E questo accade anche oggi, in un periodo in cui, come nei giorni di Giobbe, il Chronos (il tempo ordinario) s’intreccia con il Kairos, il tempo straordinario, speciale, anzi addirittura propizio e favorevole – per quanto, a prima vista, non sembri (e in effetti, questo è un tempo tragico, fra danni e lutti).

Ma passiamo al tema, cogliamo l’attimo fuggente… Giobbe e il covid sono rappresentativi, tra le altre cose, del “senso” della vita e del suo opposto: il “nonsenso”. “Si tratta della sporgenza della vita nel nonsenso rispetto alla quale qualunque interpretazione religiosa appare come una «superbia infantile». È lo scandalo sollevato biblicamente da Giobbe: il dolore dell’esistenza sfida l’ordine del senso mostrandone l’inconsistenza strutturale […] La sofferenza dell’innocente resta uno scandalo impenetrabile che resiste a ogni decifrazione. Rispetto a questa indecifrabilità non si può più invocare il disegno provvidenziale di Dio ma bisogna ammettere lo scandalo dell’insensatezza del male provando, comunque … a «essere colui che resta!»” (Massimo Recalcati, Il complesso di Telemaco, Feltrinelli).

Il dolore dell’esistenza, la sofferenza dell’innocente, lo scandalo dell’insensatezza del male. Sì, nella vicenda di Giobbe, e dei tanti Giobbe di questi giorni – anzi, direi, di gran parte dell’umanità, passata dai giorni delle “vacche grasse” a quelli delle “vacche magre” – ritroviamo dei fattori comuni: la superbia (l’arroganza, l’hybris di Adamo), il dolore esistenziale, la sofferenza dell’innocente, l’indecifrabilità, l’insensatezza del male, la “sporgenza della vita nel nonsenso”. Certo, nessuno si può definire, in toto, innocente – “non c’è nessun giusto, neppure uno” (Lettera ai Romani 3,9-20) –, ma quanti operatori sanitari, ministri di culto, e tanti altri al servizio del prossimo, sono morti per effetto del covid… Ricchi e poveri, famosi e anonimi: il covid, la grande “livella” (glissando  sulla polemica tra “vaccinisti” e “antivaccinisti” e complottisti vari…)..

Ma non mi voglio soffermare sul covid in sé, qualunque sia l’origine – umana, diabolica, cinese, pipistrello, incidente di laboratorio, casuale, intenzionale ecc. –, ma desidero puntare l’attenzione sulla figura di Giobbe, personaggio spesso trascurato nelle letture bibliche (al pari di altri libri “sapienziali”, quali Qoelet e il Cantico dei Cantici, rilanciato da Benigni proprio all’inizio della pandemia). Libro, quello di Giobbe, tra i miei preferiti: oggetto di riflessioni di tantissimi autori – Jung tra gli altri e lo stesso Recalcati dell’ultim’ora –, nonché leitmotiv della mia tesi per un corso di Teologia.

Ed è proprio dalla mia tesi “GIOBBE: IL DRAMMA È DIO. Il Dio di Giobbe vs il Dio di Giacobbe” che prendo spunto per queste riflessioni (già oggetto, con alcune varianti, di un articolo di marzo 2020 sulla rivista teologica web “Voce Pentecostale”).

Bene, conosciamo, anzi ri-conosciamo, Giobbe. Ma partiamo da Dio…

Consuma e si consuma, appare e scompare… (come Gesù sulla via di Emmaus). Un Dio absconditus (nascosto), ma sempre presente: espansivo e sfuggente, scompare nell’abisso per poi ricomparire; tirato in ballo, non si sottrae alle sue responsabilità, ma si rivela nei fatti (fossero anche misfatti). Realtà vicina, di cui abbiamo esperienza quotidiana – chiamato o non chiamato, creduto o non creduto –, ma, soprattutto, Realtà Ultima.

Insomma, Dio c’è: “Vocatus atque non vocatus Deus aderit”. Chiamato o non chiamato, Dio sarà presente – così l’iscrizione incisa sopra la porta d’ingresso della casa di Carl Gustav Jung (a suo modo credente – era figlio di un pastore protestante –, tanto che, a chi gli chiedeva se credesse in Dio, rispose: «Se credo… Io so!»).

Fede e sapienza. Sì, Dio è onnipresente e onniveggente: “Quando Giacobbe si svegliò dal sonno, disse: «Certo, il SIGNORE è in questo luogo e io non lo sapevo!» (Genesi 28,16). Questa misteriosa esperienza onirica riassume un concetto che percorre tutta la Bibbia: Dio è presente in cielo e sulla terra. Si tratta di una presenza implicita o esplicita («Isaia osa affermare: Io, il Signore, sono stato trovato anche da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato anche a quelli che non mi invocavano.» Lettera ai Romani 10,20), avvertita o inavvertita: «Ecco: egli mi passa vicino e io non lo vedo; mi scivola accanto e non me ne accorgo.» (Giobbe 9,11).

«Ecco il grande paradosso: Dio, infinito ed eterno, si adatta e penetra in questa realtà che è così fragile, sospesa, inconsistente. Ma ecco pure la grande intuizione: dov’è Dio? Nella folgore? Nel terremoto? Nel vento impetuoso? Dio è nel “mormorio di un vento leggero” o, traducendo più esattamente, Dio è una voce di silenzio sottile. Non un silenzio che è triste assenza di suoni, ma un silenzio in cui tutte le parole si compendiano.» (Gianfranco Ravasi).

Passiamo ora all’uomo: Giobbe è la storia di un credente. È il percorso travagliato, sia pur estremo, che ogni credente può trovarsi a fare. Ciò che è capitato a Giobbe è possibile, in varia misura, a chiunque (Dio compreso: in Gesù). Ma ciò che fa di lui un esempio è l’assenza di presunzione: nessun’arrogante pretesa (hybris) di misurarsi con Dio, solo il disperato desiderio di conoscerLo, e quindi conoscersi. Nel grido di Giobbe è condensato il “dramma umano” – soprattutto di questi ultimi due anni –, espresso in modo palese o intimo, che sia l’urlo disperato di un credente o il grido esasperato di un agnostico.

De profùndis clamàvi ad te, Dòmine; Dòmine, exàudi vocem meam... Grido che nel 2020 si è elevato da ogni contrada della terra, mai in modo così “unanime”, e che tuttora, con qualche strascico, perdura (quale che sia il dio invocato). Urlo alla Munch amplificato o smorzato dai mass-media, a seconda delle fazioni  (ora ci sono pure i pro-Russia e i pro-Ucraina…), in attesa dell’omologante hegeliana “notte in cui le vacche sono tutte nere”.

Quello di Giobbe è l’appello insistente a un Dio apparentemente assente, lontano, indifferente – come tante volte assente, lontano, indifferente è, o così ci sembra, chi ci dovrebbe essere vicino: un familiare, un amico, un fratello o sorella di chiesa… Peggio ancora, Dio sembra a Giobbe un avversario crudele e spietato, sordo a ogni richiesta di aiuto.

Eppure, «è necessario che ogni persona passi attraverso questa fase di protesta e sperimenti la disperazione di sentirsi abbandonato dal Signore se desidera approdare all’incontro con lui pur vivendo ancora dolore, sofferenza, solitudine ed emarginazione.» (Gianni Cappelletto, Giobbe. Incontrarsi con Dio nella sofferenza, EMP). Nondimeno, «Nella Bibbia ebraica, nessun altro essere umano vien fatto oggetto di affermazioni tanto altisonanti come quelle riguardanti Giobbe, pronunciate addirittura da Dio […] Di nessun altro viene detto che la sua condotta e il suo destino divengono oggetto di discussione fra gli esseri celesti (1,6-12; 2,1-6). Per la loro gravità e il loro accumularsi, la sventura che lo coglie e le piaghe che gli vengono inflitte rappresentano il colmo di quanto ci si immagini possa accadere a un essere umano. Per l’asprezza dei lamenti che contengono, i suoi discorsi a Dio oltrepassano tutto ciò che altrove si può trovare nella Bibbia ebraica. E nessun altro viene degnato di una risposta divina paragonabile a quella dei grandi discorsi di Dio dei capp. dal 38 al 41.» (Rolf Rendtorff, Teologia dell’Antico Testamento, Vol. 1, Claudiana).

Giobbe si sente preso in trappola, invischiato in un gioco perverso. Ma quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare… Invece di accettare con rassegnazione questa indecifrabile volontà divina, Giobbe si erge a obiettore (di coscienza): in disaccordo coi suoi amici, che pretendono di consolarlo incolpandolo, non solo accusa Dio di averlo stretto in un cerchio senza via d’uscita (Giobbe 3,23-26), ma osa chiamarlo in giudizio (9,32), alla presenza di un arbitro capace di dirimere la questione. E chi è, secondo Jung (ritorno allo psicologo del «Se credo… Io so!»), questo giudice supremo, questo Dio super partes? È Cristo… Infatti, Gesù, accertate sul campo – facendosi uomo – le ragioni dell’umanità, di cui Giobbe è rappresentante (sia pur estremo), alla fine trasformerà quel Dio apparentemente cinico e crudele (così appare a tanta umanità, soprattutto in questi tempi “covidiani”) in un Dio d’amore.

Giobbe apre un contenzioso con Dio. «Io grido a te, ma tu non mi rispondi, insisto, ma tu non mi dai retta.» (Giobbe 30,20). Depresso, avvilito, scoraggiato, arrabbiato… contende con Dio, dopo averGli parlato, aver pregato, invocato, gridato. Per Giobbe ciò che manca è la credibilità di Dio come partner relazionale. Tuttavia, vuole continuare a mantenere la relazione con Lui. Come Giacobbe, anche Giobbe lotta con Dio con tutte le forze. Altro che paziente, Giobbe… È impaziente, perseverante, irriducibile, sfidante: Giobbe, l’uomo in rivolta, così titola il suo saggio Roland de Pury. Nondimeno, non viene condannato da Dio: se la logica dei suoi amici vorrebbe un Dio che, dopo l’arringa di Giobbe (avvocato di se stesso), condannasse il ribelle, Dio invece parla al contestatore e mette a tacere i suoi “avvocati d’ufficio”. All’inizio sfugge a questo corpo a corpo; non per viltà, ma perché Dio non potrà mai essere afferrato. Non possiamo racchiuderlo nei nostri schemi: Dio sfugge a ogni presa: è sempre oltre e altro. Seduce – conduce a sé – e poi scompare; infine, Dio riappare (ma era stato sempre presente: chiamato o non chiamato, Dio è presente…) e parla.

Dio accetta la sfida, quasi blasfema; depone al “processo” e da accusato ri-diventa giudice supremo: Tu chi sei? Sei tu forse Dio? Sei tu il Creatore? Il deus absconditus esce finalmente allo scoperto. Alle domande, sensate o insensate, di Giobbe, Dio risponde con delle contro-domande, spiazzanti ma capaci di scuotere Giobbe dal suo torpore intellettuale e spirituale: una vera e propria psicoterapia d’assalto, tale da “scioccarlo” e “risvegliarlo”. Shock because… Quella di Giobbe, passato lo shock – o proprio per effetto della “scossa” –, è una nuova nascita.

Giobbe, anche sotto interrogatorio, rimane fedele alla Parola e «riconosce, davanti alla sfilata dei segreti cosmici della requisitoria di Dio, di non essere in grado di sondare che qualche particella microscopica, mentre Dio sa percorrerli con la sua onniscienza ed onnipotenza.» (Gianfranco Ravasi). Partendo dai lumi della ragione – la Scienza con i suoi segreti e le sue scoperte – l’uomo farà l’esperienza di Dio solo superando la ragione stessa, con un lampo d’illuminazione. Ora vede: «Il mio orecchio aveva sentito parlare di te, ma ora l’occhio mio ti ha visto.» (Giobbe 42,5). Giobbe accetta che ci sia un altro piano: «I cieli sono i cieli del SIGNORE, ma la terra l’ha data agli uomini.» (Salmo 115,16). Giobbe, arreso, sì, ma anche “guarito”. Dopo lo slalom giungiamo allo shalom finale, il vertice dell’itinerario di Giobbe: non la soluzione di una questione umana, ma “vedere Dio coi propri occhi”, conoscerLo dal vivo, e non solo per sentito dire.

Questo è l’uomo-Giobbe, e questa è la storia di un uomo – anzi, il prototipo della storia di un uomo qualsiasi, al di là del censo o della classe sociale – dal lieto inizio e dal lieto fine, ma con un tragico interludio. Giobbe finalmente incontra Dio a tu per tu: non più un Dio che si conosce per sentito dire, ma che si vede; così come la fede non è un’ideologia che si apprende sui libri o di cui ci s’investe per tradizione o nascita. Giobbe, ora davvero felice e realizzato, riprende il cammino e s’inoltra nella Storia. Dopo lo “shock addizionale” – una scossa tale da smuoverlo definitivamente – e il “rientro in sé” (da “figliol prodigo”), Giobbe ha trovato il suo “centro di gravità permanente”, la “via per l’essenza” e, soprattutto, chi ha Cura di lui… – per dirla con Battiato, Gurdjieff e, in definitiva, il Vangelo. Ed è quello che dovremmo fare noi: trasformare la cronaca “covidiana” – paura, dolore, morte – in un tempo di riflessione e rinascita.

 


 

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