domenica 24 ottobre 2021

SOUL TRACK

      

SOUL TRACK

La sua anima: umana, sub-umana, super-umana. Tre livelli antinomici della stessa istanza psichica, in continua lotta (e riappacificazioni) col corpo e lo spirito. Eppure, l’anima avrebbe dovuto fare da mediatrice… Quattro le fasi alchemiche: nigredo, albedo, citredo e rubedo. Lorenzo, nel suo altalenante excursus esistenziale, le aveva attraversate tutte, spesso ‘facendo a pugni’, non in progressione, piuttosto a salti random. Un po’ Fausto Coppi, un po’ Dottor Faust. Tanto più in quei pochi giorni passati a Pugnochiuso. Una continua apertura sui vari ‘loci’ della sua vita e sulle ‘piazze’ del mondo circostante (e di quello ‘sotterraneo’: la Terra di Lorenzo era ‘cava’). Un po’ terra-inverno-notte, un po’acqua-primavera-aurora, poi di nuovo aria-estate-giorno. Per finire, fuoco-autunno-tramonto. Ma anche bambino, adolescente, maturo, vecchio. Sempre in ordine sparso.

     E ora, in meno di una settimana, queste fasi le aveva riattraversate tutte, sia pur confusamente. Di certo, la nigredo e la rubedo, la terrestrità (se così si può dire) e la passione (anche vulcanica, e – perché no? – sulfurea). Forze luciferine e arimaniche, luce e ombra. Presenze e assenze, forze ed eventi che affondano le radici nell’invisibile. Anche queste le aveva sperimentate tutte. Anche il secondo corpo, il doppio mefistofelico, quello che lo teneva imprigionato nei pregiudizi.

     “Io sono il tuo nulla” sibilava Mefistofele. “Nel tuo nulla io voglio trovare il tutto” gridava Faust. Uomo plurale, uomo legione. In lui convivevano il lupo e l’agnello. Ma dalla legione, che più volte, malgré tout, aveva rischiato di affogare nella palude (e nella platitude), stava riemergendo, asciutto, il ‘legionario’. Il lupo aveva ingoiato l’agnello, ma questo, nutrendosi delle sue glandole – della sua ‘ghianda’, quella di Hillmann –, lo stava trasformando in leone. 

     Cammello, leone, fanciullo… (di nuovo! Ma questo ‘garzoncello’ era diverso, aveva combattuto contro il drago). Capì. Per l’ennesima volta (ma quando avrebbe preso la rincorsa definitiva per il ‘tuffo dal trampolino’? La piscina olimpionica era a un dipresso. Avevano però tolto, da dieci anni e passa, il trampolino…). C’era uno sviluppo lineare, predeterminato, ma da lui colorato. Non l’illimitato ciclico divenire, senza principio né fine, proprio di ogni Weltanschauung tradizionale, ma una visione rettilinea del tempo (in effetti, ondulatoria – con qualche improvvisa fuga indietro o in avanti. In Lorenzo Tradizione e Modernità s’intrecciavano, ma quest’ultima era sempre in fuga per l’innanzi). C’era una ‘ghianda’ sul suo ‘terreno’, la quale voleva, doveva, svilupparsi, nonostante i terreni circostanti, le erbe cattive, il loglio  – famiglia, amici, società – e, soprattutto, malgrado lui stesso. E ora la ghianda era diventata una quercia. Robur. Robusta, tenace, capace di sopportare le tempeste. Radicata ma flessibile (ossimoricamente) come una canna. Canna al vento (dello Spirito).

     Le sue radici. La passione infantile per l’India, per i suoi misteri, la sua spiritualità. E per la Grecia, la mitologia, i suoi dèi. La pulsione verso l’Olimpo e la passione per il Satyrion di Petronio. E, non ancora saturo, il suo infilarsi, sedicenne, negli antri oscuri dei cinema d’essai per vivere di Antonioni, Bergman, Buñuel. E per incontrare Pasolini e il suo angelo. Teorema risolto. Una via lattea di cui lui, Lorenzo, era, allora, solo un pulviscolo, un deserto rosso in cui, poi, sarebbe diventato un uomo blu.

     Due fili, Oriente e Occidente, Apollo e Dioniso, Beatles e Rolling Stones, perennemente intrecciati. Due occhi (quello fisico – Eros – e quello spirituale – Theos) puntati sul traguardo. Specie ora che non era più miope né astigmatico (e nemmeno presbiteriano, per fare una battuta ‘loffia’. Era pentecostale, a modo suo, tra il loft e il soft, ma, in ogni caso, un po’ di Calvino permeava il suo spirito).

     Occhi pieni di meraviglia. Il suo stupore notturno. Le sue città invisibili. Da Valdo a Marcovaldo. Oltre il guado, sino in oriente, cavalcando le tigri di Evola, danzando con Gurdjieff e Stella Kramrisch (all’indologa l’aveva introdotta proprio Galatea). Lorenzo raspava proprio nel fondo della notte. D’altronde, “il sapere è una farfalla notturna” diceva il don Juan di Castaneda, l’indio heidegerriano della foresta (la mariposa by night l’aveva catturata Furio Jesi, uno che aveva parlato pure di Evola, magari non troppo bene – ma per Lorenzo l’importante era parlarne…).

     Il suo sognare, per ritrovarsi con le mani nel sogno. E manipolare la realtà. Tableau universale e aura microcosmica. Per vivere appieno (finalmente!) le sue passioni. Micro-Mega, Steiner (Rudolf e George). Anche le donne. Megagalattiche (Arianna, Gaia, Galatea, per limitarsi alle prime lettere del suo alfabeto del desiderio). Galante ma svagato. Incostante, dimentico, talvolta sfocato (sfigato lo era stato abbastanza). Nel suo terreno c’era, sì, il fuoco, ma il vento spesso lo spegneva.

     Earth, wind and fire. Focherello, fuochino, fochetto. Ma questa volta il fuoco l’ebbe vinta. Anche perché non c’era nessun estintore.

 


 

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