lunedì 25 dicembre 2017

WHITE MERRY CHRISTMAS

WHITE MERRY CHRISTMAS
BARRY WHITE, BLACKBERRY & MAN IN MASK

È Natale (o giù di lì: siamo al fondo della discesa di questo scivoloso 2017 – sto per sbattere sulla palizzata del 31).
Natale: è sì la festa del dio sole, ma il sole è anche immagine di Gesù Cristo (il “sole di giustizia”), del nostro “sole interiore” (l'essere “figli di Dio”), del sole che scioglie il ghiaccio dei nostri cuori...
Fatto è che, tra white merry Christmas, blackberry e Barry White (e non solo: Alicia Keys e Beyoncé scalpitano) sto in souplesse da paresse natalizia (man in mask? Forse da masquerade – senza vampiri, semmai qualche vamp; meglio ancora, vampate di Spirito).
La neve mi imbianca (virtualmente), ma non mi sbianca, né mi sbanca. Sono più sbilanciato verso la saudade; se non Café del mar o Malibu, almeno (o al più: è una delle top ten tra i must della buena vita – quella da paresse balneare, s’intende) la mia Jericoacora, quella del romanzo (Gocce di pioggia a Jericoacora): di lì pesco la solita perla (i pascoli oceanici sono ancora fruttuosi…).
Il deserto cresce... guai a chi cela deserti dentro di sé! Io, nel frattempo, continuo a mirare (al)le stelle...

Good times, bad times. Lorenzo, sovraccarico, quasi ubriaco, di sensazioni sempre più hard (nel senso di: pienezza, interazione olistica di corpo-anima-spirito: quasi un intasamento dei sensi), si afflosciò nuovamente, dolcemente – soft – sulla sdraio (aveva passato le ultime ore sul terrazzino, apparentemente senza concludere granché): un timido assaggio di solare notte cosmica (riecco l’ossimoro!) gratificò la raggiunta quiete del suo animo, e di tutti i suoi sensi, prendendo il posto della sua precedente, pervadente, inquietudine. Dandogli, per la prima volta dal suo arrivo (era il secondo giorno), un senso d’invadente calma, di piacere quasi fisico, di atarassia, aponia, anarchia... Calma talora smossa da residui sfrigolii di un’ancora fresca agonia rattrappita, raggelata, ma sempre più scossa da nuovi brividi di giubilo, gioia, gaiezza: pochi, brevi, parziali.
Sentiva nella ghianda dell’anima che c’era something new in the air. Qualcosa di nuovo stava per accadere: su di sé, intorno a sé, dentro di sé, sentiva good vibrations. Sentì vibrare il nucleo, il cuore, l’antro sotterraneo che si celava dentro: un desiderio violento lo pervase, come magma pronto a eruttare che la crosta esterna comprimeva, tratteneva, faceva muraglia tutt’intorno. Bramose voglie in cerca di un significato, aneliti vulcanici, ma spesso degradati a basic instincts senza profondità vitale.
Nondimeno, dal mondo del sogno – il Tjukurrpa aborigeno in cui spesso si rifugiava, e da sempre (già nel ventre materno – così gli sussurrava l’Io subliminale) – più di una volta era riuscito a tirar fuori il ‘nucleo immaginale immanente’ (frase a effetto esplosa da Lorenzo in una delle conferenze amatoriali del suo periodo rosa), cioè la qualità ‘numinosa’ che lo sottendeva. In pratica, aveva dato corpo (nel vero senso del termine) ai voli della sua immaginazione.
Quel bisogno di creatività, di fuga dal mondo, di fantasie da realizzare, che può creare sia il gigante sia il mostro. Ma Lorenzo non era riuscito a essere né l’uno né l’altro; se non a sprazzi o, nel migliore dei casi, in maniera discontinua, frammentata. Arenato, frenato, appesantito dall’io sociale che non lasciava correre il suo io reale. Eppure la voce tiranna – Krishnamurti dixit – gridava...
E come strillava! Munch… Sussurri e grida. Un urlo sul ponte.
Ginsberg… che urlo! “Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa…” Anche Lorenzo arrancava, ma senza strillare. Non più nero di rabbia. Solo frenato. Senza remi, con molte remore. Ramingo.
Freni interni ed esterni. Per rompere i quali, e catapultarsi nella vita, aveva cercato – pensando che fosse lì il problema – d’integrare il puer con il senex (quest’ultimo, in lui, pressoché assente), affinché si riconciliassero e passeggiassero insieme. Ma il fanciullo aveva avuto sempre la meglio.
Aveva, infine (passo decisivo), compreso che il suo malessere esistenziale derivava da un bisogno inespresso di esplorare le contrade del mondo dello spirito, le città invisibili: un mal-essere che solo un rivolgimento completo del suo essere, una metànoia, avrebbe potuto dissolvere.

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