martedì 8 ottobre 2019

ARKITEKTON


ARKITEKTON

Parlando di Cielo e di Terra, di dualità in lotta ricomposta dal tertium datur – l’Uomo come sintesi tra spirito e materia, essendo l’anima il prodotto (soft) di tale contatto (hard) –, non posso che arrivare a colei che è il sommo esito dell’incontro di tutte queste realtà: l’Architettura.
Di tale somma arte (non sempre nei fatti) ho liberamente dissertato, tempo fa, in alcuni interventi su Artonweb e De Architectura, lì dove ho ri-cordato (ricondotto al ‘cuore’), tra l’altro, che: “L’architettura è la materializzazione (tekton) del principio (arké), è il rivestimento dell’idea (la verità)”. Ovviamente l’architettura partecipa di altre arti e ‘articolazioni’ (non solo figurative o plastiche), essendo il deposito delle registrazioni dell’ambiente, del territorio, del mondo, dell’architetto, del suo tempo, dei tempi andati, di quelli futuri…
“Ulteriori sedimentazioni e articolazioni hanno attraversato tutta l’architettura fino a oggi, in un connubio, non sempre felice ma comunque vitale, tra mythos e logos (il mito tace, il logos parla). Parole e silenzi, idee senza parole… Il mito è il vivaio delle idee d’architettura, in quanto racconta sempre la stessa cosa – essendo la matrice di ogni forma culturale e simbolica, con forte valenza estetica – ma in modo sempre diverso. Il logos, logos endiathetos – discorso interiore – e logos prophorikos, è il tentativo dell’idea di farsi ‘fatto’, ‘evento’, ‘avvenimento’. Il mito è il ‘silenzio’ dell’architetto che, nel farsi parola, provoca la ‘scintilla’ (il ‘fiat lux’/Big Bang) che muta il Caos in Cosmos (il caos – nel cuore dell’architetto – partorisce la stella danzante). Ma sempre più spesso si sentono balbettii, o urla…” Fin qui il mio intervento (ho riportato solo uno stralcio).
Ma potevo fermarmi all’erba (più verde) del mio vicino? Di certo no… Ed eccomi nel mio ‘hortus conclusus’ a parlare ancora di architettura. E siccome tra le mie mura posso permettermi qualche ulteriore libertà, do qui un’ulteriore definizione del termine: architettura come tekton (sintesi costruttiva) di Ar (radice indoeuropea per ‘cielo’) e Ki (‘corpo’, ‘terra’). Insomma, l’Architettura realizza – materializza – l’unione tra Cielo e Terra…
L’Architettura, così in alto così in basso… Arte del costruire e costruire per l’arte: un po’ cielo (Ar), un po’ terra (Ki) – sempre in bilico tra l’apparenza fenomenica e l’essenza profonda, tra la riproduzione ‘tipica’ (varianti di uno o più ‘modelli’, essendo il ‘tipo’ il contenuto della struttura interiore della ‘forma’) e l’’unicum’ (più o meno) irripetibile (talvolta, amaro).
Ma l’Architettura, oltre che ‘celeste’, è, soprattutto umana (e terrena) e di questa natura ne coglie tutti gli aspetti: non ultimo, se dall’unione tra lo Spirito e la Materia nasce l’Anima del Mondo, l’Architettura ne è la degna estrinsecazione.
Che poi essa intrighi, streghi, strangoli, gongoli o gingilli, è tutto nella natura del suo logos. Torniamo così alla parola… E questo blog gioca una delle sue carte sull’uso creativo della parola, oltre che sulle finestre che essa apre sui vari territori del sapere. Ogni post un colpo di vento… La ‘polvere’ va via, un raggio di sole rischiara un angolo buio, un’altra pagina di Gocce di pioggia a Jericoacoara si apre:

“Sax and the City. Lorenzo e New York. Che musica! Il bullo e la pupa. E l’architettura. Neoclassica, neogotica, moderna e postmoderna. Un ammasso di brillanti progetti accatastati alla rinfusa. Spazi senza luoghi. “Un ininterrotto patchwork, perennemente disarticolato.” Questa, New York: ‘la città generica’, la ‘Bigness’, lo ‘Junkspace’.  E per concludere: ‘ragnatela senza ragno.’
Per ricominciare: spazio spazzatura con molti consumatori e pochi spazzini. “Un’iconografia per il 13 per cento romana, per l’8 per cento Bauhaus, per il 7 per cento Disney, per il 3 per cento Art Nouveau seguito a poca distanza dal Maya. E quel che è peggio, “cascame organico, nemmeno biodegradabile…” Insomma, città fresh and trash (e non solo nelle parole e nei libri di Rem Koolhaas). Ma per Lorenzo, più che altro, mash.
E poi, di recente, aveva divorato un altro libro, quest’ultimo neo-con: Living Machines – Bauhaus Architecture as Sexual Ideology, di Michael  E. Jones (Lorenzo era bulimico quanto alle letture – ma raramente le vomitava). In ogni caso, vue de droite o vue de gauche, alla fin fine si arrivava agli stessi ‘cassonetti’: quella cosiddetta ‘moderna’ era, stando almeno a questi critici ambidestri, architettura intellettualistica, aria fritta, frutto rancido e, talvolta, trucido, delle alchimie cerebrali (e cervellotiche) di individui sradicati. Parto di un’ideologia antiumana. Radicali liberi. Colate di cemento e groviglio di ferro per edifici e quartieri costruiti per un ipotetico e patetico uomo nuovo’.
Uomo ‘privo di qualità’, (dis)funzione del solo ambiente, un essere la cui natura umana’ è solo una mera astrazione. Questo l’abstract delle ca(p)otiche ipotesi costruite a tavolino, (im)pura concrezione della crassa ipocrisia dei ben-pensanti e degli sciccosi parvenue dell’Haute Culture, quella che vola sempre basso. Da queste paludi, da questa planitude, la pur paludata intellighenzia faceva scaturire la (presunta) ovvia (e ingenua) conclusione – in parallelo con analoghe derive da ‘strizzacervelli’ da lettini a castello (di carte) – che, trasformando l’ambiente, sarebbe cambiato l’uomo. Ma il cambio non ha funzionato, la marcia non si è ingranata e la ‘macchina’ è andata fuori strada (e se lo dice pure James Hillmann…).
Fiat productio, pereat homo” – solfeggia il Sombart, illustrando il poco illustre uomo fagocitato dalla tecnica e dal progresso (l’uomo-massa dis-integrato, inviso, ovviamente, a Lorenzo, il nostro one-man band. Lui parteggiava per l’uomo-comunità). Ma ora basta con l’Existenz Minimum, bandiera (ammainata) degli architetti funzionalismi: tutti al lavoro per l’Existenz Maximum, per un’architettura che dall’oggettività dei bisogni veleggi verso la soggettività dei desideri…
Le Corbusier, Wright, il Bauhaus, l’architettura razionalista, quella organica… non erano però tutte da buttare. In ogni caso, per evitar grane, pattume (meglio l’oro di Napoli) o panettone che fosse, Lorenzo, da buon architetto (sia pure random e sempre disponibile alle zingarate), sentì l’ovvio bisogno (e il prurito) di assaggiare e graffiare la città. Cominciò a palparla, squadrarla, vivisezionarla, scattando foto all’impazzata, come quel bel tanghero di Ultimo tango a Parigi. Certo, New York forse non valeva una messa, ma era pure un bel mix di flora, fauna e cemento. E con tanti fauni a caccia di miss, ninfe e ninfette.



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