GIOBBE: IL DRAMMA È DIO.
IL POTERE DELLA ROUTINE…
Il potere della routine… Sì, l’abitudinarietà della vita quotidiana è tale
che, quando si va fuori rotta, c’è chi si rompe il collo; ma c’è anche chi
trova il collirio per vedere meglio, con occhi nuovi.
A proposito di occhi nuovi – e orecchie nuove – ecco una citazione, di matrice junghiana, tratta
dalla mia tesi in un corso di teologia: vocatus atque non vocatus Deus aderit («chiamato o non chiamato, Dio sarà presente.»).
Bene, penso che l’argomento, preso in God
mode (modalità Dio) o in modalità umana, aderisca allo spirito di questo
blog e alla sensibilità dei suoi lettori, per cui ecco qualche spunto dall’incipit
della mia tesi (“Giobbe: il dramma è Dio”– titolo provocatorio, ovviamente, ma con un suo perché).
D’altronde, in ognuno di noi c’è un Giobbe
(ma c’è anche Dio, anche se non si vede, sente, tocca, capisce…). E poi: Un libro che non abbia Dio, o
l’assenza di Dio, come protagonista clandestino, è privo d’interesse (Nicolás Gómez Dávila)
Sì, l’ultimo atto di Dio sarà di
consumarsi e sparire nella sua creazione: come il grande Eroe che esce dal
talamo, che si espande nel creato per scomparire nell’abisso, dopo essersi
fatto luminosità e calore anche della più umile delle sue creature. Consuma e si consuma, appare e scompare… (come Gesù sulla via di Emmaus).
Un Dio absconditus ma sempre
presente: espansivo e sfuggente, scompare nell’abisso per poi ricomparire;
tirato in ballo, non si sottrae alle sue responsabilità, ma si rivela nei fatti
(fossero anche misfatti).
Realtà vicina, di cui abbiamo esperienza quotidiana – chiamato o non
chiamato, creduto o non creduto; ma, soprattutto, Realtà Ultima: Essere, e non
un essere, per dirla con Paul Tillich.
Ma chi è questo Dio, e di quale libro è protagonista, prima clandestino,
poi cittadino a pieno titolo?
Facciamo esperienza del Divino in modi innumerevoli: dal timor panico,
estatico, nel silenzio di una notte stellata, al canto di un uccello mattutino;
dal Dio di gloria che tuona sul mare in tempesta al sottile suono di silenzio… Tutta
la Bibbia, nelle sue molte voci, è impregnata di questa Essenza, ma è nei libri
sapienziali che il Mistero esprime il suo lato “oscuro” (per noi) e
apparentemente paradossale. E dei tre massi erratici – Giobbe, Qoèlet (Ecclesiaste),
Cantico dei Cantici – voglio “fermare” il primo, lì dove il dramma è Dio. «Io grido a
te, ma tu non mi rispondi, insisto, ma tu non mi dai retta. Tu sei un duro
avversario verso di me e con la forza delle tue mani mi perseguiti» (Giobbe
30,20-21)
Dalla “cornice” passiamo ora al “quadro”. Nel grido di Giobbe è condensato
il “dramma umano”, sia esso espresso in modo palese o intimo, sia esso l’urlo
disperato di un credente o il grido esasperato di un agnostico: quello di Giobbe è l’appello insistente a
un Dio apparentemente assente, lontano, indifferente – come tante volte
assente, lontano, indifferente è chi ci dovrebbe essere vicino.
Peggio ancora, Dio sembra a Giobbe un avversario crudele e spietato,
sordo a ogni richiesta di aiuto. Eppure, «è necessario che ogni persona
passi attraverso questa fase di protesta e sperimenti la disperazione di
sentirsi abbandonato dal Signore se desidera approdare all’incontro con lui pur
vivendo ancora dolore, sofferenza, solitudine ed emarginazione.» (Gianni
Cappelletto, Giobbe. Incontrarsi con Dio
nella sofferenza).
Quando Giacobbe si svegliò dal sonno, disse: «Certo, il SIGNORE è in questo
luogo e io non lo sapevo!» (Genesi 28,16). Questa misteriosa esperienza onirica
compendia un concetto che “colora” tutta la Bibbia: Dio è presente in cielo e sulla
terra. Si tratta di una presenza implicita o esplicita («Isaia osa affermare: Io,
il Signore, sono stato
trovato anche da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato anche
a quelli che non mi invocavano.» (Romani 10,20), avvertita o
inavvertita: «Ecco: egli mi passa vicino e io non lo vedo; mi scivola accanto e
non me ne accorgo» (Giobbe 9,11).
«Ecco il grande paradosso: Dio, infinito ed eterno, si adatta e penetra in
questa realtà che è così fragile, sospesa, inconsistente. Ma ecco pure la
grande intuizione: dov’è Dio? Nella folgore? Nel terremoto? Nel vento
impetuoso? Dio è nel “mormorio di un vento leggero” o, traducendo più
esattamente, Dio è una voce di silenzio sottile. Non un silenzio che è triste
assenza di suoni, ma un silenzio in cui tutte le parole si compendiano.» (Gianfranco
Ravasi, 2004).
«Nella Bibbia ebraica, nessun altro essere umano vien fatto oggetto di
affermazioni tanto altisonanti come quelle riguardanti Giobbe, pronunciate
addirittura da Dio […] Di nessun altro viene detto che la sua condotta e il suo
destino divengono oggetto di discussione fra gli esseri celesti (1,6-12;
2,1-6). Per la loro gravità e il loro accumularsi, la sventura che lo coglie e
le piaghe che gli vengono inflitte rappresentano il colmo di quanto ci si
immagini possa accadere a un essere umano. Per l’asprezza dei lamenti che
contengono, i suoi discorsi a Dio oltrepassano tutto ciò che altrove si può
trovare nella Bibbia ebraica. E nessun altro viene degnato di una risposta
divina paragonabile a quella dei grandi discorsi di Dio dei capp. dal 38 al
41.» (v. in Rolf Rendtorff, Teologia
dell’Antico Testamento).
Nel dialogo coi suoi tre amici – e con Eliu, il predicatore di giustizia – che rappresentano le ragioni della
sapienza tradizionale, Giobbe sostiene che la sofferenza del giusto costituisce
una profonda ingiustizia, mentre i suoi amici lo considerano un peccatore
giustamente punito. A Giobbe non rimane che appellarsi a Dio, a cui chiede
conto del Suo comportamento ingiustificabile. Dio interviene, non per dare
spiegazioni, ma per invitare Giobbe all’umiltà dinanzi a un problema che
oltrepassa la capacità di comprensione dell’uomo. Alla fine Giobbe giunge alla vera
conoscenza di Dio e, per quanto non gli sia restituito quanto perso, viene
premiato in misura ancora maggiore rispetto alla sua condizione iniziale.
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